Se la strada potesse parlare: il finale del film di Barry Jenkins
Se la strada potesse parlare si chiude con una scena di gioia familiare, che si traduce però in una sorta di grido d’aiuto soffocato...
Se la strada potesse parlare è uno di quei film che lega linguaggio poetico e rabbiosa forza sociale, nel raccontare le vicende di Fonny Hunt e Tish Rivers, già protagonisti dell’omonimo romanzo di James Baldwin.
Dopo il successo di Moonlight e la forza politica della serie Dear White People Barry Jenkins torna a porre l’accento sulla questione razziale e sulla necessità di un pensiero veramente egualitario, costruendo anche un filo conduttore che lega diverse situazioni sparse in un arco temporale piuttosto ampio. Così facendo i dovuti confronti, le riflessioni circa l’evoluzione (o l’involuzione) dei meccanismi culturali e sociali hanno ampio spazio per prendere vita e diverse prospettive da poter esaminare.
La coppia di giovani protagonisti è vittima, negli anni ’70, di un’ingiustizia colossale eppure senza diritto di replica: la condanna che Fonny è costretto a scontare non ha possibilità di redenzione e lo marchierà agli occhi delle persone esterne alla vicenda. In questo senso, il finale di Se la strada potesse parlare è un macigno che piomba sulle speranze degli spettatori, rinforzando di fatto il messaggio già contenuto nel titolo dell’opera. L’unica reale possibilità di liberarsi dal giogo di ricatti e ingiustizia che pesa su Fonny (ma anche sulla giovane ragazza che l’ha incriminato) sarebbe infatti di far parlare le pareti di quella strada in cui si sarebbe svolto il misfatto per mano di Fonny. Il finale ribadisce anche la totale estraneità del ragazzo rispetto ai fatti che gli vengono contestati, rinforzando ancora una volta l’idea di una serenità negata.
Se la strada potesse parlare: come finisce il film con Barry Jenkins?
Se la strada potesse parlare si chiude con una scena di gioia familiare, che si traduce però in una sorta di grido d’aiuto soffocato, dovuto a un’accettazione della situazione contingente per permettere a se stessi di concentrarsi sul nuovo ruolo di genitori che li mette alla prova in un frangente difficile da affrontare, a maggior ragione appartenendo a una minoranza sociale soggetta a continue prove di forza. La polizia, in questo panorama, ne esce in maniera pessima, come un organo istituzionale in balìa della distorsione del pensiero delle singole persone che ricoprono il ruolo. Il finale del film raccoglie la frustrazione accumulata nel corso del racconto e la chiude in una scena semplice eppure straziante: un pasto frugale ma non per questo meno gioioso di una giovane coppia insieme al piccolo appena nato. La cornice che li accoglie, tuttavia, prende atto di quanto perpetrato ai loro danni, con l’azione registica di Barry Jenkins che tratta la triste scenografia del carcere al pari degli altri paesaggi urbani, con un tocco poetico e di luminosa accettazione che rendono il prodotto finale coerente, almeno a livello visivo, in ognuna delle sequenze proposte. Per quanto intrinsecamente differenti, le diverse fasi del racconto di Tish e Fonny confluiscono nel finale che corona, con tanta drammatica ironia, il sogno dei due giovani innamorati.
A far da contraltare alla pregnanza quasi tragica di Se la strada potesse parlare c’è però la consapevolezza della prossima scarcerazione di Fonny e che quindi questo frangente costituisca di fatto un punto di partenza per la loro vita insieme, quando finalmente si saranno affrancati dalla contingenza che li opprime. L’accettazione quasi serafica della situazione da parte del ragazzo, ma soprattutto da parte di Tish, costituisce in fondo la forza più potente per riuscire a garantire al figlio una serenità almeno temporanea, con la certezza che quanto accaduto alimenterà una rabbia sociale tale da far scaturire nuove orgogliose lotte sociali per l’evoluzione culturale degli anni a venire.