Spike Lee: i 10 film più importanti, da Lola Darling a BlacKkKlansman
Black Cinema, Black Power, Black Panther: tutta – o quasi – la carriera di Spike Lee è dedicata all'orgoglio e alle identità afroamericane. Un regista scomodo e non omologato, tornato alla ribalta grazie al suo ultimo lavoro, BlacKkKlansman.
Spike, ovvero “mingherlino”. Quando gli viene affibbiato questo nomigliolo, Spike Lee – al secolo Shelton Jackson Lee – è poco più di un ragazzino. Ancora lui non lo sa, ma quel soprannome diventerà un marchio di fabbrica: esile ma tenace, spinoso e ribelle, il giovane Lee accetta di buon grado di non avere la stoffa per diventare un giocatore di baseball, studia le battaglie di Martin Luther King e Malcolm X e si convince che la principale utilità dell’arte sia quella di veicolare un messaggio fortemente politico. Nascono così i suoi primi progetti, votati alla rappresentazione più veritiera possibile della cultura afroamericana.
Dai corti ai film di finzione, dai documentari agli spot tv (per la Nike, la Swatch, e persino per Telecom Italia), fino ai videoclip e anche ai videogame: la multiforme carriera del regista originario di Atlanta è uno zibaldone di sollecitazioni, consacrazioni e controversie. Nonostante i premi alla carriera – il César nel 2003, l’Oscar nel 2016 – Spike Lee ha ancora molto da dire, come dimostra il divertentissimo e spietato BlacKkKlansman, Gran Prix della Giuria a Cannes 2018.
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L’esordio – Lola Darling (1986)
Dopo l’inatteso successo di Joe’s Bed-Stuy Barbershop (1983), tesi di laurea alla New York University Film School premiato come Miglior Film a Locarno, Spike Lee si mette al lavoro per realizzare il suo vero film d’esordio. La scelta ricade su The Messenger, ma qualcosa va storto: i finanziamenti sono troppo pochi, i sindacati non agevolano il suo lavoro e il progetto viene clamorosamente annullato.
La lezione è importante: Lee capisce di doversi produrre i film da solo, e fonda la casa 40 Acres & a Mule. Prende quindi forma Lola Darling, storia del disinibito ménage amoroso di una ragazza nera. Sembra poco, ma poco non è: prima di allora l’unico film con protagonista una donna afroamericana era stato Il colore viola (1985) di Steven Spielberg. Si aprono anche le porte del mondo del videoclip musicale: sempre nel 1986 Spike gira Tutu Medley per Miles Davis.
La consacrazione – Fa’ la cosa giusta (1989)
I contenuti provocatori e orgogliosi di Spike Lee trovano la loro perfetta quadratura in Fa’ la cosa giusta, opera della consacrazione (a soli 32 anni). Il film è un affresco recalcitrante del ghetto nero di Brooklyn, che sembra invitare apertamente alla rivolta razziale e alla ribellione nei confronti del potere prestabilito (Fight the Power, come cantano i Public Enemy in colonna sonora).
Il cammino di Lee ormai si identifica totalmente con quello del Black Cinema, con tutte le conseguenze del caso: Fa’ la cosa giusta viene escluso da Cannes perché accusato di sovversione, e Spike Lee l’anno successivo si rifiuta di presenziare alla Mostra del Cinema di Venezia, dove viene proiettato in anteprima il suo nuovo film Mo’ Better Blues (che, fra le altre cose, sancisce l’inizio del sodalizio con Denzel Washington).
Il sogno realizzato – Malcolm X (1992)
Al primo anno delle scuole superiori, Spike Lee legge Autobiografia di Malcolm X e ne resta folgorato. Nel 1987 decide che quel libro diventerà un film, e il sogno vede finalmente la luce nel 1992. La lavorazione si rivela a dir poco turbolenta, con finanziamenti insufficienti da parte della Warner Bros. e la necessità da parte di Lee di convertirsi all’islamismo per poter girare alla Mecca. Il leader afroamericano e icona della cultura nera Malcolm X viene interpretato da Denzel Washington, che si guadagna una nomination agli Oscar del 1993 (anche se la statuetta finirà poi nella mani di Al Pacino per Profumo di donna).
Questi sono anche gli anni dei grandi spot televisivi di Spike Lee, che nel giro di un lustro (1988-1993) gira svariati commercial per la Nike con Michael Jordan, per la Levi’s e per la Swatch.
I videoclip – Dai Public Enemy a Michael Jackson, dal 1989 al 2014
Merita sicuramente una piccola parentesi la carriera parallela di Spike Lee, dedicata al videoclip. Un elenco ricco e quasi sempre coerente, dedicato alla rappresentazione e sponsorizzazione di musicisti e artisti afroamericani. Fra le collaborazioni spiccano quelle con Tracy Chapman, Stevie Wonder, Prince, Michael Jackson, Coolio. E ancora, fra i gruppi, i Public Enemy, gli Arrested Development e i Naughty by Nature.
Non mancano tuttavia le anomalie, le curiose e buffe eccezioni alla regola. Come ad esempio la direzione di Eros Ramazzotti per il video di Cose della vita (1993), o quella di Eminem (rapper bianco che ha fatto sua una espressione musicale tipica della cultura afro: Lee ha polemizzato nel corso degli anni per molto meno nei confronti di chi si appropriava dei fondamenti del Black Power) per quello di Headlights (2014).
Il flop commerciale – Clockers (1995)
Nonostante la produzione affidata a Martin Scorsese e nonostante la partecipazione alla Mostra del Cinema di Venezia, Clockers è stato forse il flop commerciale più fragoroso di Spike Lee. Difficile indagarne le ragioni: il film – atto d’accusa contro armi, droghe e derive gangster della musica rap – avrebbe dovuto inizialmente essere diretto proprio da Scorsese, che tuttavia nello stesso anno si stava occupando di Casinò. A nulla valsero le dichiarazioni in difesa del film dei protagonisti Harvey Keitel e John Turturro, oltre che del medesimo Lee: Clockers venne etichettato come pellicola di seconda mano, opera minore e di ripiego.
Inizia proprio qui la fase di flessione della lunga carriera di Spike Lee, che sembra entrare in una crisi d’ispirazione dalla quale non lo riscattano né Girl 6 – Sesso in linea (1996, che si avvale dei camei di Madonna, Quentin Tarantino e Naomi Campbell), né Bus in viaggio (1996) e né tantomeno He Got Game (1998).
L’eccezione – S.O.S. Summer of Sam (1999)
Dopo 12 lungometraggi (corrispondenti a 16 anni), Spike Lee gira nel 1999 il suo primo film senza protagonisti afroamericani. Il titolo, S.O.S., è acronimo di Summer Of Sam, e narra del panico che dilagò nell’estate del 1977 a New York a causa di un serial killer che venne ribattezzato “figlio di Sam”.
È con un’opera incentrata su una comunità etnica diversa da quella nera – gli italoamericani del bronx – che Lee torna ai suoi esiti migliori, disegnando un affresco verosimile e al contempo metaforico delle paure che sconvolgono la società civile. Un risultato inaspettato e rotondo, forse frutto di una minore pressione autoriale (di fatto si tratta di un lavoro su commissione, scritto dagli attori Victor Colicchio e Michael Imperioli), e che fa il paio con quello che viene ormai ritenuto all’unanimità il capolavoro della sua maturità: La 25a ora (2002).
Il capolavoro – La 25ª ora (2002)
In seguito al crollo delle Torri Gemelle Hollywood cerca di elaborare il terribile lutto sondando diverse vie narrative: dall’elegia celebrativa di World Trade Center (2005) alla catarsi intimista di Reign Over Me (2007), dalla ricostruzione storica di United 93 (2006) all’allegoria sci-fi di Cloverfield (2007). Ma il vero capo d’opera, l’unico capace di guardare in faccia la tragedia di una nazione letteralmente a pezzi, è un film del 2002, è il primo a mostrare Ground Zero dopo gli attacchi, ed è di Spike Lee.
La 25a ora racconta l’ultimo giorno di libertà di uno spacciatore, prima di entrare in carcere per scontare sette anni di reclusione. Complice l’omonimo romanzo di David Benioff – da cui è stata tratta la sceneggiatura –, La 25a ora riesce a rendere come nessun altro film il clima emotivo implacabile che domina a New York dopo l’attentato alle Twin Towers.
Il documentario – When the Levees Broke (2005)
A partire dal 2000, Spike Lee amplia e approfondisce la sua produzione documentaria. Con il precedente illustre di 4 Little Girls (1997), che rievoca una strage avvenuta nel 1963 a Birmingham, Lee realizza A Huey P. Newton Story (2001), sul fondatore delle Pantere Nere, Jim Brown: All-American (2002), su un giocatore afroamericano di football, e When the Levees Broke: A Requiem in Four Acts. Quest’ultimo, incentrato sull’uragano Katrina che devastò New Orleans, vince il Premio Orizzonti al Festival di Venezia e riporta nuovamente sotto la luce dei riflettori l’innegabile talento impegnato del cineasta statunitense.
Seguiranno, dopo il pessimo esito di Miracolo a Sant’Anna (2008), nuovi documentari: su tutti Kobe Doin’ Work (2009), sulla vita del cestista Kobe Bryant, e Bad 25 (2012), che celebra i 25 anni dall’uscita dell’album Bad di Michael Jackson.
Il videogame – NBA 2K16 (2015)
Oltre alla mai sopita passione per il baseball (e per il calcio, come dimostra l’abbonamento per l’Inter del 2005), Spike Lee è sempre stato anche un accanito fan della NBA, la principale lega professionistica di pallacanestro americana. Nel 2015 l’azienda Visual Concepts si affida a lui per la realizzazione della modalità MyCareer del videogame NBA 2K16, disponibile per PlayStation e Xbox. Lee scrive un vero e proprio film interattivo, guidando i giocatori – che impersonano loro stessi – attraverso la scalata verso la gloria.
Il 2015 si rivela un anno prolifico anche da un punto di vista cinematografico, con la realizzazione di Il sangue di Cristo, commedia a basso budget finanziata tramite una campagna su Kickstarter, e di Chi-raq, basato sulla Lisistrata di Aristofane. Senza alcun dubbio due opere minori, che tuttavia preparano il campo alla realizzazione del successivo BlacKkKlansman.
Il grande ritorno – BlacKkKlansman (2018)
Leggi la nostra recensione di BlacKkKlansman di Spike Lee
Annunciato a Cannes quasi come un semplice e doveroso omaggio, BlacKkKlansman ha invece stupito tutti aggiudicandosi il Gran Premio della Giuria. Potremmo definirlo un compendio di ciò che la carriera di Spike Lee è stata fino a oggi: fra le righe di un canovaccio narrativo votato alla commedia emergono infatti uno dopo l’altro i punti cardine della sua poetica.
Sono presenti il respiro cronachistico (per quanto assurda possa sembrare, la storia del poliziotto afroamericano che riesce ad ottenere la tessera del Ku Klux Klan è vera), la denuncia politica, la rivendicazione umana e identitaria (le riunioni dei Black Panther) e la canzonatura di chi ritiene di detenere il potere. Il tutto immerso in una colonna sonora che evoca i grandi nomi della musica nera, in una fotografia ispiratissima (merito di Chayse Irvin) e nell’auto-citazionismo spinto. Troppo? Forse. Ma erano anni che Spike Lee non si divertiva così tanto, dietro la cinepresa.