Suburbicon: la spiegazione del finale del film di George Clooney
Come per tutte le altre pellicole di Clooney, anche in Suburbicon è stata riservata una grande importanza all'aspetto morale della vicenda che viene raccontata.
Suburbicon(2017) è la sesta pellicola diretta da George Clooney (vincitore del premio Oscar come miglior attore non protagonista nel 2006 con Syriana e per il miglior film nel 2013 per la produzione di Argo), che per l’occasione si è affidato niente poco di meno che ad uno script scritto dalle sapienti mani dei fratelli Coen. Il risultato è una commedia nera in uno stile coeniano più leggero nella forma, ma che non cede un passo dal punto di vista dei contenuti: il nichilismo, la distruzione di aleatori valori etici e morali del piccolo borghese americano e l’estremizzazione parodistica dei concetti di violenza (verbale, fisica e psicologia come nella migliore tradizione) e stupidità umana.
Suburbicon nasce dalla volontà di raccontare su schermo l’improvvisa e agghiacciante ondata di violenza xenofoba che si scatenò in America sul finire degli anni 50 nei confronti dei primi tentativi di insediamento di famiglie di colore nei centri residenziali della classe borghese bianca.
Per il cast Clooney sceglie i veterani Matt Damon (due volte candidato al premio Oscar per miglior attore protagonista, una volta per attore non protagonista e vincitore della statuetta per la sceneggiatura di Will Hunting – Il genio ribelle), Julianne Moore (vincitrice dell’Oscar come miglior attrice per il film Still Alice del 2015) e Oscar Isaac (nominato ai Golden Globe come miglior attore per A Proposito di Davis) ai quali affianca dei volti noti come Glenn Fisher (l’antagonista della prima stagione di True Detective) e Alex Hassell (co-fondatore della Factory Theatre Company insieme ad Ewan McGregor, Mark Rylance, Billy Nighy ed Emma Thompson).
Per dirla tutta anche Josh Brolin ha partecipato alle riprese del film, ma il suo ruolo è stato tagliato del tutto in post-produzione perché le sue scene, come dichiarato dallo stesso George Clooney, “erano un po’ troppo fuori luogo e spezzavano la tensione narrativa del film“.
Suburbicon: la trama del film di George Clooney
Gardner Lodge (Damon) vive nella ridente Suburbicon con la moglie Rose (Moore), rimasta paralizzata in seguito ad un incidente stradale mentre al volante c’era proprio il marito, e il loro figlioletto Nicky (Noah Jupe). Con la famiglia c’è sempre la sorella gemella di Rose, Margaret, per aiutare nelle faccende domestiche e nella crescita del bambino.
L’apparente tranquillità della felice cittadina entra in crisi quando una coppia di colore, i Meyers, con un bambino dell’età di Nicky, si trasferisce nella villetta accanto a quella della famiglia di Gardner. Infatti l’intera comunità di Suburbicon, colta da un’improvvisa presa di coscienza, s’infiamma e si mobilita per ricacciare indietro “i negri” con ogni mezzo.
In queste polveriera pronta ad esplodere due delinquenti irrompono nottetempo nell’abitazione dei Lodge e li stordiscono con il cloroformio, finendo con l’uccidere la povera Rose. Ma quella che all’apparenza sembra una tragedia del tutto casuale o alla peggio, secondo i benpensanti residenti della cittadina, causata dalla presenza dei Meyers, si rivelerà presto avere delle radici ben più profonde all’interno della stessa famiglia Lodge.
Suburbicon: il finale del film
Come per tutte le altre pellicole di Clooney, anche in Suburbicon è stata riservata una grande importanza all’aspetto morale della vicenda che viene raccontata. La figura del piccolo Nicky, soprattutto il suo sguardo, man mano che la trama va avanti, diventa la lente di ingrandimento infantile ed innocente che svela e ci svela tutte le malefatte, i peccatucci e le piccole miserie di cui si rendono protagonisti i personaggi bigotti della pellicola. E sarà proprio lui, nel finale, l’unico a rimanere in piedi, dopo la tragica conclusione del massacro che avviene nella sua casa.
Tutta la sequenza che riguarda la noncuranza del vicinato e la concatenazione di omicidi che avviene nella casa dei Lodge rende straordinariamente bene l’idea dell’America ossessionata dalla ricerca di un nemico esterno (in questo caso la famiglia Meyers, rea di avere la pelle di un altro colore), che, accecata dalla paura del diverso, non riesce a vedere che la violenza più bieca è dentro le proprie case, nutrita dall’avidità e dall’avarizia. Ma è una cecità tutt’altro che involontaria: nessuno dei componenti della comunità si distrae dall’intento di distruggere la proprietà dei Meyers, neanche quando un uomo viene ucciso a sangue freddo in piena strada a pochi metri da loro, urlando a squarciagola per di più. Il linciaggio della casa della coppia di colore sembra essere l’unico modo per risolvere le tensioni e i brutti avvenimenti che stanno succedendo nella cittadina e invece basterebbe alzare lo sguardo per accorgersi che il male è altrove.
L’unico modo per fuggire dalla violenza di questo mondo ottuso, bigotto, xenofobo e violento è quello di passare inosservati, di essere invisibili, come fanno i due bambini, Nick e il figlio dei Meyers, che, nell’ultima scena, non curandosi delle macerie delle loro rispettive case, giocano a baseball attraverso la staccionata che separa i due cortili.