Tenet: il passo falso di Christopher Nolan?
Tenet ha offerto numerosi argomenti ai detrattori di Christopher Nolan. Ecco perché può essere considerato il passo falso del regista.
Sicuramente il film che “apre” (causa Covid19) questo 2020 cinematografico, per quanto dargli il titolo di salvatore non sia appropriato, di certo quello che forse segna un punto di svolta nella carriera di Christopher Nolan.
Si può senza ombra di dubbio asserire che per ora Tenet non abbia convinto completamente la critica ed il pubblico come i precedenti film del regista, che ad oggi è senza ombra di dubbio il più popolare e seguito al mondo.
Incredibile esteta, coraggioso sperimentatore, in grado di spaziare dal cinema bellico al thriller, dal cinecomic al fantascientifico, Nolan è però ritenuto da alcuni più che un grande autore, un grande intrattenitore, un regista molto meno “alto” di quanto il pubblico creda o egli stesso voglia far pensare.
Tenet da questo punto di vista è palese che abbia dato un bel po’ di argomenti ai suoi detrattori.
Tenet: una vera e proprio corsa contro il tempo
Lungo ben 150 minuti, frutto di un lavoro di scrittura quasi decennale da parte di Nolan, Tenet è totalmente strutturato su un intreccio in cui il Protagonista (John David Washington, figlio del grande Denzel), agente della CIA, si trova coinvolto in una gigantesca cospirazione, alla cui base vi è una misteriosa tecnologia che permette agli oggetti di invertire l’entropia temporale e di spostarsi indietro nel tempo.
Tale invenzione può avere effetti catastrofici sul presente, motivo per cui gli viene chiesto di intervenire, avvicinando chi quella tecnologia l’ha in possesso: il crudele boss mafioso Andrei Sator (Kenneth Branagh).
In breve, con l’aiuto del misterioso Neil (Robert Pattinson) e della moglie di Sator, Kat (Elizabeth Debicki), l’agente della CIA dovrà cercare di entrare in confidenza con Sator e capire come fermare il tutto.
Tenet è puro iter narrativo
Tenet ci dona un Nolan che quasi si disinteressa completamente dei suoi personaggi in termine di profondità, motivazioni, personalità, li rende ancora di più che in passato semplici ingranaggi al servizio di una sorta di esperimento narrativo-estetico.
L’azione non conta, conta l’insieme, conta la spettacolarità della spirale in cui però, alla fin fine, lo spettatore comincia a prevedere ogni successivo passo e svolgimento, pur senza (ed in questo controsenso sta il problema) comprendere l’insieme.
Succede perché Nolan, in Tenet ancor più che in passato, costruisce un film su delle premesse (i paradossi temporali in questo caso) alle quali però non segue uno sviluppo che permetta né ai protagonisti, né al pubblico di comprendere la materia; di base emerge prepotentemente in lui una visione dell’uomo come creatura imperfetta, ed incapace di comprendere l’universo circostante, schiavo della stessa sua incauta curiosità a misurarsi con qualcosa oltre le sue possibilità cognitive.
Un qualcosa che sovente ha accompagnato come un’ombra tutta la filmografia di Nolan, snodata attraverso tematiche ricorrenti ed affascinanti.
Nolan crea universi che poi distrugge
Se tale visione, però, è assolutamente legittima, il modo in cui Nolan la comunica in Tenet appare abbastanza opportunistico (per non dire essenzialmente scaltro e ruffiano): appellandosi al sentimentalismo.
Nel finale del film, infatti, come tante altre volte, dopo tanta razionalità, Nolan vira decisamente verso il sentimentale, il magniloquente, verso un happy ending che però appare abbastanza discordante, enfatico ed ingiustificato.
Non vi sono le premesse, o meglio vi sono ma per tutt’altro, e come spesso gli capita, il regista londinese se la cava semplicemente azzerando e smantellando le regole diegetiche che egli stesso aveva strutturato per il viaggio.
Comodo, efficace e furbo. Pure troppo. Di base si ha talvolta l’impressione che Nolan si avventuri in universi (dai buchi neri alla relatività, dalla psicanalisi ai paradossi dei viaggi temporali) con curiosità ma con poca pazienza, in un certo senso quasi con un’ansia che poi sfocia in un abbandono dell’universo da lui creato.
La spettacolarità delle scene, la maestria della sua regia, i virtuosismi visivi e acustici (le sue colonne sonore sono qualcosa di magistrale da sempre, così come la componente del suono è centrale), si appellano alla fruizione dello spettatore, al farlo perdere dentro un caleidoscopio, quasi a distrarlo con un miraggio che copra l’estrema semplificazione con cui Nolan risolve trame talvolta davvero intangibili.
In Tenet vi è molta estetica ma la sostanza non è chiara
Chi è il Protagonista? Il nome non lo conosciamo. E Neil? Chi rappresenta? Qual è il suo passato? E quello di Kat? Di Sator sappiamo solo qualcosa di più nel finale, così come di Prya Singh (Dimple Kapadia), e nulla in realtà di Ives (Aaron Taylor Johnson).
Tenet strizza l’occhio a James Bond, ai vecchi spy-action del cinema che fu, all’adventure romantico, pure alla fantascienza, ma senza mai andare fino in fondo, creando suggestive atmosfere che però viaggiano su binari di dialoghi che oscillano tra l’incomprensibile e l’incredibilmente banale e semplicistico.
La stessa battaglia finale, a ben pensarci, può apparire davvero malfatta, senza senso e senza alcun tipo di tensione data allo spettatore, senza che si risponda alle domande. Da dove viene quell’esercito nemico? Chi sono? E perché nessuno o quasi dei “buoni” viene colpito? Perché si attacca alla garibaldina? Perché quasi nessun mezzo a terra?
Di base Tenet si risolve in un vagare tra location armoniose e seducenti, con protagonisti avvolti in abiti di altissima sartoria, sovente stucchevoli e abbastanza pretenziosi (la mise del protagonista, al di là della funzione narrativa, appare sovente davvero eccessiva), ma in cui manca un cuore, un’anima. E anche l’originalità.
Il cattivo è cattivo-cattivo, uno che fa quello che fa quasi guidato da una sorta di credo sado-maso-mortuario, i buoni son buoni a tutto tondo, solo Prya regala qualche incertezza ad un intelletto anestetizzato in attesa di un climax che non arriva.
Nolan non è il Kubrick del XXI secolo
Sovente Nolan è stato paragonato a Kubrick, o se non altro definito il Kubrick di questo secolo di cinema. Interstellar (che ha pari amanti e detrattori), con i suoi rimandi a 2001 – Odissea nello spazio, ha contribuito non poco a farlo definire tale.
Onestamente il paragone appare davvero irrispettoso, non perché Nolan sia un regista di poco valore (è uno dei migliori degli ultimi 20 anni) ma perché, al contrario di Kubrick, non si spinge mai davvero fino in fondo, non abbraccia del tutto una visione prismatica. Egli è un visionario formale ma non semiotico.
Spielberg, altro grande intrattenitore di massa, può rivendicare tra alti e bassi se non altro di essersi spinto verso generi non solo diversi, ma anche affrontati in modo diverso, spaziando dal punto di vista formale e narrativo verso confini che lui per ora non appare in grado (non più per esser precisi) di percorrere.
La tecnica non è tutto, serve anche una storia da raccontare, ed in questo rispetto a Memento o The Prestige, Nolan con Tenet ha confermato di esserne sempre meno interessato.
La speranza è che il talentuoso regista faccia inversione di rotta.