The Neon Demon: bellezza e malattia mentale – dal disturbo narcisistico al cannibalismo psicopatologico
Dopo l’anteprima mondiale di Cannes 2016, The Neon Demon (QUI la nostra recensione) è finalmente nelle sale italiane: l’ultima sconvolgente opera del visionario Nicholas Winding Refn è pronta a trascinarci nel suo vortice onirico e delirante fatto di un’ossessione per la bellezza talmente forte da trasformarsi in incubo. Una critica sottile, feroce e ironicamente spudorata di quegli ambienti sociali – in primis quello della moda – che fanno dell’aspetto fisico una qualità assoluta, attraverso cui misurare il valore delle persone, inesorabilmente destinate ad essere divise in vincenti e perdenti sulla base di doti non controllabili e non dipendenti da meriti, ma corrispondenti ad un’ideale estetico in perpetua evoluzione temporale e culturale.
Ma che cos’è la bellezza? Il significato letterale della parola rimanda all’insieme delle qualità percepite di un luogo, oggetto, animale o persona, ma anche di un concetto o di un’idea, che suscitano sensazioni piacevoli, provocate dall’esposizione dei nostri sensi ad esse, e intrinsecamente dipendenti dal confronto rapido e automatico con un canone di riferimento interiore, innato oppure socialmente acquisito. Al di là delle numerose disquisizioni filosofiche sull’argomento, quindi, sembra che la bellezza non possa essere considerata universale ma dipenda dalle caratteristiche della propria personalità o dall’esposizione a dettami sociali acquisiti – il più delle volte inconsciamente – e facenti parte dell’identità culturale di una persona. Non è un segreto, infatti, che il concetto di bellezza, soprattutto legata al corpo, si sia sensibilmente evoluto nel corso delle epoche (pensiamo anche solo alla differenza fra una Venere del Botticelli e la differenza con quello che ad oggi viene considerato un corpo femminile perfetto) e che risenta altresì di influenze culturali e sociali, motivate dalla storia e dalle caratteristiche antropologiche delle varie popolazioni.
Istintivamente, verrebbe da collegare il concetto di bellezza corporea a quello di benessere, associato ad un corpo ragionevolmente magro, in salute e armonioso nella forma. Che succede, allora, quando l’ideale estetico comincia ad avvicinarsi ad un’immagine che rimanda alla malattia?
L’industria della moda, in particolare di quella femminile, si rende responsabile da decenni della diffusione di un alterato stereotipo di bellezza, collegato ad un corpo eccessivamente magro e caratterizzato dalla quasi totale assenza di forme femminili. Un’esigenza ragionevolmente dettata dalla necessità di modelle che ricoprano la funzione di manichini, strumenti per adagiarvi sopra capi e mostrarne le caratteristiche universali, non condizionate dal corpo che andrà ad indossarli. Non solo, probabilmente è necessario che il corpo ed il viso di una modella distraggano il meno possibile l’attenzione di chi guarda, che deve essere concentrata sul vero ed unico protagonista delle sfilate: l’abito. Ma la moda detta da sempre i parametri di ciò che va considerato bello in un determinato momento e contesto sociale, ed il risultato è un’associazione inevitabile fra abito e indossatore, col risultato di estendere il desiderio del potenziale cliente dal prodotto al corpo che lo indossa. Può prendere così forma quel dismorfismo corporeo che, partendo dal considerare bello ciò che in realtà è semplicemente funzionale alla vendita di un prodotto, tende ad attribuire alla propria fisicità un insieme di inaccettabili imperfezioni, sfociando molto spesso in situazioni in cui l’eccessiva preoccupazione per il proprio aspetto fisico prende la tragica forma dei Disturbi del Comportamento Alimentare (fenomeno ancora molto diffuso tra le modelle).
The Neon Demon: bellezza e patogenesi di un’ossessione
In The Neon Demon Nicolas Winding Refn si rende intelligente ed estremo testimone della diffusione della bellezza filiforme ed emaciata come caratteristica essenziale per il successo, mettendo in evidenza le macabre conseguenze di una competizione che tiene conto solo ed esclusivamente dell’estetica e quindi- per definizione – iniqua. Jesse (Elle Fanning) è inconsapevole vittima di un corpo che non ha scelto, e di quel “qualcosa” che – secondo chi la giudica- la distingue dalla altre e la rende meritevole di svettare nell’Olimpo della moda a scapito della sue apparentemente identiche colleghe, costrette a fare i conti con un’avversaria che suscita in loro contemporaneamente odio ed ammirazione.
Il risultato è un delirio psicotico che vede nella brama di assimilare la “magica sostanza” di cui è fatto il corpo di Jesse al proprio essere, in un vortice allucinatorio in cui la preda diventa ossessione del predatore, trascendendo il suo tanto desiderato corpo per vendicarsi delle proprie carnefici trasformandosi subdolamente in un’arma altrettanto persecutoria e letale.
Se dovessimo azzardare un quadro psicopatologico – quindi – quali disturbi psichiatrici (tenendo ovviamente conto degli eccessi della finzione cinematografica) potrebbero aver colpito le sventurate protagoniste di The Neon Demon?
Jesse comincia ad accusare i primi sintomi del delirio che la porterà verso l’autodistruzione quando l’approvazione universale di chiunque entri in contatto con lei inizia a farla sentire unica ed insostituibile, a differenza di come sembrano essere tutte le altre sue colleghe, numeri di un infinito e monotono catalogo dal quale poter scegliere e scartare senza batter ciglio. Ecco allora che la ragazzina ingenua e sprovveduta si trasforma progressivamente in una pericolosa personalità narcisistica, ossessivamente concentrata su un’autoidolatria in grado di farla sentire invincibile. Un disturbo che nella cultura contemporanea è spesso associato proprio alla paura della competizione, della vecchiaia e della morte stessa (Lash, La cultura del narcisismo, 1981). Le persone affette da questo disturbo – proprio come Jesse – possono apparire superbe ed arroganti, celando dietro una coltre di spavalderia quella sensazione di vuoto interiore dettata – nel caso della nostra protagonista – dalla consapevolezza che il suo enorme successo è solo temporaneo, destinato a svanire all’arrivo di un’altra bellezza, più “perfetta” di quella che lei possiede.
Ecco allora che l’immagine di sé proiettata dal prossimo si sostituisce alla propria autopercezione, rendendo indispensabile alla persona affetta da disturbo narcisistico il giudizio positivo degli altri, per mantenersi integra e funzionante.
Ma Jesse non ha fatto i conti con la ferocia distruttiva dell’invidia, un sentimento che cresce dentro le sue colleghe “scartate” fino al punto di spingerle verso il baratro di una psicosi che ha la forma di un disturbo schizotipico. Tale patologia è associata ad una personalità piuttosto chiusa (come quella dell'”amica”/ truccatrice di Jesse, Ruby), tendente ad elaborare un pensiero rimuginante e caratterizzato da idee fisse e talvolta associate all’ esistenza di poteri e fenomeni soprannaturali (come il pensiero superstizioso secondo cui sarebbe possibile diventare come Jesse bevendone il sangue o mangiandone parti del corpo). La persona affetta da questo disturbo mostra una difficoltà nell’instaurare relazioni interpersonali strette adeguate e non mediate da distorsioni cognitive ed eccentricità nei comportamenti, tali da allontanare da sé gli altri (DSM-IV_TR). Le antagoniste di Jesse, in effetti, sembrano condurre una vita solitaria e votata esclusivamente ad un lavoro che sembra aver assorbito ogni altra funzione sociale, trascinandole in un baratro ossessivo in cui l’unica cosa che conta è competere per vincere, pena perdere definitivamente il lume della ragione lasciando emergere un lato di sé oscuro ed inquietante, incapace di accettare una sconfitta. Di fronte all’evidenza dell’impossibilità di vincere al cospetto della bellezza e gioventù di Jesse, scatta quindi un proposito in cui il malsano si trasforma in terrificante: non più voler essere come lei ma puntare ad essere lei, assimilandola al proprio essere attraverso una sorta di delirio cannibale che riporta alle origini della formazione del sé, a quella fase infantile sadico-orale (Freud, Compendio di Psicoanalisi, 1938) in cui il bambino conosce il mondo attraverso la bocca e trova sollievo ed appagamento nell’oggetto parziale seno, incorporandolo a sé attraverso la suzione.
Il cannibalismo psicopatologico si associa ad un desiderio di possesso affettivo dell’altro, non altrimenti realizzabile se non esercitando tale forma estrema di potere, in cui la brama cannibale si associa ed interseca con un confuso e totalizzante desiderio sessuale, risultante da una miscela fra sadismo e necrofilia (ben esplicitato in una scena clou di The Neon Demon). Le colleghe di Jesse finiscono così per rimanere intrappolate nella loro ossessione, fagocitate dallo stesso “mostro” che le ha spinte oltre i limiti leciti dell’ambizione, rendendole schiave e sottomesse della propria vittima che – come loro stesse avevano desiderato – diventa talmente parte di loro da non lasciarle mai più libere.
Ecco che l’incubo di Refn appare così compiuto: la bellezza può uccidere, dal momento in cui perde la sua connotazione di caratteristica della persona per definirla nella sua interezza, fondendosi con la folle convinzione – tanto vicina alla tendenza della società odierna – di poter essere e possedere tutto.
The Neon Demon si pone quindi come una fiaba nera, acutissima metafora del mondo di oggi, dominato dall’apparenza molto più di quanto ne sia consapevole. Un monito per le nuove generazioni, proiettato genialmente nel futuro, quel luogo ignoto e misterioso che Nicholas Winding Refn ha confermato, ancora una volta, di conoscere molto bene.