The Place: il significato del film e la spiegazione del finale
L'opera di Genovese non giudica, non sentenzia, strappa i panni di dosso e costringe a guardarsi dentro.
Un uomo, in un bar, ogni giorno. Seduto in un angolo, con gli occhi tristi e stanchi. Una grande agenda davanti, tante persone che lo cercano. Questo è ciò che sta dietro al protagonista misterioso, interpretato dallo stropicciato e stanco Valerio Mastandrea, di The Place, l’ultimo film di Paolo Genovese che si dà al dramma dopo il successo di Perfetti Sconosciuti. La pellicola prende ispirazione dalla serie americana The Booth at the End, ideata da Christopher Kubasik, in cui si racconta di un gruppo di persone disperate che vanno a chiedere aiuto ad un uomo senza nome, senza casa, senza sonno. Lui ha un “potere”, realizzare i desideri di quei poveri Cristi che gli stanno davanti, soli, disperati, addolorati, piegati da una vita che non è all’altezza dei loro sogni, ma ad un costo, portare a termine i compiti spietati, malvagi, crudeli, che assegna a loro. Genovese ripropone la storia dello show del canale via cavo FX, innamorato com’è delle vicende intrise e sature di parole, dei luoghi chiusi in cui l’essere umano si mostra per quello che è.
The Place: un uomo misterioso, un po’ deus ex machina, un po’ Mefistofele
L’uomo è lì, pronto, seduto a quel tavolo, e attende. Attende che i suoi “clienti” vadano da lui, gli chiedano aiuto, si riflettano nel suo volto che è anche uno specchio oltre che rappresentazione di uno spietato deus ex machina del gioco al massacro, portato in scena da Genovese, in cui o si scende a patti con la propria coscienza, con se stessi, con gli altri o ci si ribella alla richiesta, percorrendo un’altra strada. Il viso di Mastandrea porta con sé tutto il dolore, la stanchezza del mondo e, nonostante questo, assegna compiti infliggendo terribili condanne. Genovese segue e dà forma alle paure, alle ansie, alle angosce e ai desideri di tutti coloro che vogliono migliorare la propria vita, uscire dalla crisi, dal buio, ritrovare la propria strada, e forse finalmente essere felici. Il regista entra in un castello kafkiano scuro e oscuro, stando accanto a quell’uomo che dà possibilità di vite alternative, come farebbe Dio, o forse un Mefistofele (“Come faccio a sapere che lei non è il diavolo?“), in realtà però tutto e profondamente umano.
Così si accomodano a quel tavolo, per la “partita a scacchi” della vita, un poliziotto (Marco Giallini) in lotta con se stesso e con il figlio (Silvio Muccino), una suora (Alba Rohrwacher) che non sente più la voce di Dio (“Sono suora da undici anni. […] Adesso non lo sento più, l’ho perso“) e la ricerca con immensa sofferenza (“Voglio sentire di nuovo Dio, può aiutarmi?“), un giovane uomo (Alessandro Borghi), cieco, che ha un solo desiderio, vedere di nuovo, Gigi (Vinicio Marchioni), un padre, che vuole salvare il proprio bimbo dal cancro, Odoacre (Rocco Papaleo), un meccanico che sogna di passare la notte con la donna da calendario. Il deus pagano ascolta e dà soluzioni o meglio mostra a ciascuno la strada per raggiungere la propria felicità – che vuol dire danneggiare quella degli altri – e emerge chiaramente una domanda: cosa si è disposti a fare per avere ciò che si desidera?
Il cineasta, affascinato da ciò che c’è dietro alle esistenze, anche le più “linde” e “normali”, chiede allo spettatore di essere o dentro o fuori: se si sceglie la prima via si partecipa, scendendo in un inferno in terra, alle vite di questi uomini e donne afflitti e segnati, di essere partecipe della cognizione del dolore. The Place non mostra mai tutto, fa immaginare, mette nella condizione di cercare le risposte (Cosa avremmo fatto noi al posto loro?), eviscerare il dentro per portarlo fuori, lega i personaggi del film in maniera sadica, spaventosa e machiavellica. Questi uomini e queste donne incredibilmente si incrociano in maniera crudele senza sapere però gli uni delle altre e il corso della vita dei primi in qualche modo condiziona quello delle seconde.
Violentare una donna, far scoppiare una bomba, insabbiare una denuncia di una violenza da parte di una donna e così via; un Dio buono e giusto non chiederebbe mai nulla di tutto ciò, ma qui colui che offre la felicità è il più disgraziato di tutti, il più dannato dei dannati, il più errato tra gli errati. Mastandrea incarna un “dio” fuori dagli schemi che forse dio non è – la cameriera Angela (Sabrina Ferilli), pura luce, rispetto al buio di The Place, gli chiede se fa lo psicologo, uno di quelli che “vuole creare un ambiente amichevole” -, non può tutto (“non ho tutto sotto controllo, le cose non dipendono da me”), non può indicare l’alternativa giusta, non tira i fili né scioglie i nodi di giorni imperfetti, l’uomo ha ideato il meccanismo ma poi a ciascuno dei questuanti spetta l’ultima parola.Non ci sono obblighi, c’è la possibilità di “rescissione del contratto”, infatti l’uomo lo ricorda ai suoi adepti come se sperasse che loro cambino idea.
The Place è un film sul libero arbitrio, arma potente nelle mani dell’uomo, ciò che lo rende “l’essere” che è, è un film sull’affermazione di sé.
The Place: il racconto del male insito in ognuno di noi
Nel film di Genovese ci sono due flussi che camminano paralleli e convivono, il bene e il male che sono declinabili in tutte le loro sfumature, spietatezza e amorevolezza, amore e morte. Si ripete lo stesso schema ancora e ancora non solo nella vita di questi individui ma anche negli individui stessi materializzandosi nella domanda esistenziale del film: continuare a vivere così, affliggendosi fino alla fine dei propri giorni, infliggendosi ferite non rimarginabili, o cambiare rotta distruggendo gli altri ma toccando con mano la propria “felicità”?
Come in un girone dantesco lo spettatore si trova in mezzo alla sofferenza che il protagonista tocca con mano, assorbendone la portata devastante. Mentre lungo tutto il film il personaggio di Mastandrea fa a “botte” con il livore, l’ansia, l’angoscia, le lacrime di chi ha di fronte, e decide di mettere da parte lo spiraglio di bene rappresentato da Angela che tenta di scalfire lui, alla fine è costretto a lasciarsi andare proprio grazie a chi tentava di schivare. Loro sono agli antipodi, lui, il buio, il male, lei, la luce, il bene, sono le facce della stessa medaglia, anche Angela attende, un amore lontano, ma è pronta in questo caso ad aprirsi e ad aprire per far ridere chi non ne è capace. The Place respira di scelte complicate, di faticosi momenti di riflessione, fino ad arrivare ad un finale che scuote l’anima e dimostra come in ogni momento c’è la possibilità di un cambio di rotta.
The Place: la scena finale con Sabrina Ferilli
L’opera di Genovese non giudica, non sentenzia, strappa i panni di dosso e costringe a guardarsi dentro, racconta di chi deve anche commettere uno sbaglio per vivere meglio. Si tratta quindi, fino ad un certo punto, di vedere e parlare con il proprio lato oscuro.
Alla fine di The Place Mastandrea è stremato, come un Titano ha tenuto sulle sue spalle le cattiverie, i tormenti, i mali, e mostra, proprio per questo, un lato umano che ha tentato di soffocare. Mastandrea lavora di sottrazione, porta tutto sul suo viso, parlano i segni d’espressione, le occhiaie profonde, i gesti limitati dalla mancanza di movimento – c’è un’unità di luogo talmente radicata da provocare un senso di claustrofobia.
Vorrei non fare più quello che faccio. Vorrei non dover sentire tutti i mali del mondo
Crolla per umanità e a farlo cadere è Angela, nomen omen; durante tutta la pellicola lei è l’unica a chiedere, domandare, insistere, vuole sapere chi è lui, vuole farlo sorridere, lo guarda da lontano, lo osserva come si fa con i misteri e solo alla fine arriva al suo intento. Lei riesce a entrare nel suo mondo, è la (sua) coscienza che gli permette di vivere un attimo di pace, lo rende “debole” e così lui esce dal suo “personaggio”, si apre a qualcuno e si alza dalla sedia. Quella cameriera è il controcanto, basti pensare che l’uomo le lascia prendere la sua agenda, il suo “strumento di lavoro”, ed è lei ora a parlare e a chiedere, lei a prendere appunti, come faceva lui lungo tutto il film. Quel personaggio così semplice, dimesso, è il solo che non scende a patti con l’altro ma anzi, fa ciò che ha fatto lui fino ad ora. Tanto il senza nome è misterioso tanto lo è Angela, delicata e calma, sicura e potente, affascinante e disarmante; il Titano infatti timidamente sorride e metaforicamente se ne va (l’indomani mattina il bar è vuoto) lasciando dietro di sé un portacenere in cui c’è l’ennesimo, forse l’ultimo, foglio di carta (testimonianza dei compiti portati a termine) bruciato.
Come prima ad essere “trafitti” – termine che fa riferimento sia al campo semantico dell’amore ma anche e soprattutto a quello della religione – erano i “clienti” dell’innominato ora ad essere trafitto è proprio lui che ha di fronte una sorta di daimon ma positivo.
The Place è un film sul malvagio che c’è in ciascuno di noi ma è anche un film sulla speranza, nascosta dietro a un incontro più semplice e banale. Questo è un quadro doloroso, nero, claustrofobico, è un urlo silenzioso, lunghissimo e straziante, è il racconto di un uomo che non è un mostro ma che dà da mangiare a molti mostri, come dice il personaggio di Mastandrea. The Place, portando al cinema una pellicola che sembra più uno spettacolo teatrale, toglie l’aria grazie ad una sceneggiatura cesellata, insinua il dubbio e inchioda lo spettatore, nonostante qualche lungaggine soprattutto nella parte finale, alla sedia.