The Whale – O se Charlie avesse incontrato prima il Dottor Nowzaradan

Ancora prima di giungere a The Whale è necessario riflettere su di una questione d’ordine televisivo sorprendentemente parte dell’esperienza cinematografica che Darren Aronofsky ha proposto ancora una volta a tutti noi, dopo un altro titolo di carriera che tra sadismo, crudeltà, caos e psicologismo filosofico assurdamente crudele e grottesco come Madre!, era stato capace di destabilizzare l’intero pubblico, aprendolo a vivissime, sagaci, contrastanti e interessanti discussioni, anche se molto spesso fin troppo pronte alla distruzione di un’opera senz’altro complessa e senza precedenti, com’è in modo differente anche The Whale.

Ricordate tutte quelle interminabili e afose nottate estive o quei lunghissimi pomeriggi invernali trascorsi davanti alla tv alla ricerca incessante di un buon film o altrimenti di un programma mediamente interessante di fronte ai quali lo zapping non soltanto appariva eterno, ma ci convinceva sempre più di non riuscire a scovare alcunché, costringendoci a ripiegare, con un misto di vergogna e imbarazzo verso il panorama contenutisticamente bizzarro di canali come Real Time o DMAX?

Bene, così come ricorderete quei due canali – oggi sempre meno considerati – ne ricorderete anche alcuni programmi, tra i quali Vite al limite, Io e i miei parassiti, Skin Tight e così via, seguiti oscenamente e inevitabilmente tra risate sguaiate, tuttavia inopportune e profonda compassione e tristezza nei confronti delle vittime protagoniste di quegli episodi così fortemente surreali, grotteschi e disperati da causare ribrezzo e paura, capaci però di raccontare la realtà di alcune condizioni fisiche e psicologiche – certamente estreme e scioccanti – meglio di qualsiasi altra approssimativa lettura di manuali o trattati medici esistenti da parte di emittenti ben più conosciute o opere cinematografiche patinate e superficiali a tal punto da far impallidire perfino il neorealismo di Gli occhi del cuore.

Vite al limite su tutti, raccontava servendosi della forma documentaristica pur sempre adattata al linguaggio televisivo specificatamente generalista e attratto perdipiù da un contenuto crudo, esplicito e in qualche caso politicamente scorretto – dimostrando non soltanto d’essere avanti coi tempi, ma capace di cogliere in tutto e per tutto una domanda imbarazzata e vergognosamente in crescita da parte di un pubblico sempre più interessato a quel genere di contenuto trash e sopra le righe proposto unicamente da reti secondarie – le vicende di alcuni individui costretti a trascorrere la loro intera esistenza tra letti, divani o poltrone, poiché considerati a livello clinico molto più che obesi, tanto da vivere come enormi difficoltà anche le benché minime questioni di movimento o faccende quotidiane, come raccogliere un oggetto da terra, raggiungere il bagno o anche soltanto deambulare per un po’, azioni per le quali si rendeva necessario l’uso del girello o di altri attrezzi utili.

Vite al limite - Cinematographe.it

Storie di vita chiaramente drammatiche, per quanto apparentemente surreali e incredibili, osservate però in chiave ferocemente grottesca, oppure superficiale a tal punto da comunicare allo spettatore una visione su quelle realtà a metà strada tra trash, ilarità, comicità involontaria e cinismo.

A quelle storie se non altro mancava del tutto un occhio drammatico capace di fotografare e documentare quelle immagini a partire da ciò che poteva in qualche modo aver generato quella condizione, mostrandone il prima e poi potenzialmente il dopo, dunque il cammino, la riflessione, l’osservazione e la considerazione degli effetti e delle conseguenze nel corso del tempo.

Un dramma che non si faceva mai realmente dramma, restando contenuto televisivo bizzarro alla mercé di uno sguardo inevitabilmente spietato e prontissimo a percepirne il solo aspetto grottesco e ilare, tralasciando – e ben volentieri – la tristezza e la compassione, allo stesso modo parte – seppur di fondo – di quei programmi.
L’elemento cardine di Vite al limite era la presenza del Dottor Nowzaradan, medico-chirurgo di origine siriana specializzato nella chirurgia bariatrica e bypass gastrico, colui che non si faceva sfuggire nemmeno una singola inquadratura, restandone se non al centro, quantomeno ai margini, tra espressioni di parziale coinvolgimento – e convincimento – ed altre invece di totale imbarazzo oppure di apparente derisione. Allo stesso modo sembra agire la Liz (Hong Chau) di The Whale. Prima di giungere al film è però necessario compiere un’ultima riflessione rispetto a Vite al limite.

Dunque, concludendo sull’ormai storico programma di Real Time, laddove l’empatia senza dubbio non regnava, ossia in quel racconto televisivo atrocemente superficiale e crudo, in The Whale trova invece uno spazio sorprendentemente ampio e inatteso. Se c’è infatti una caratteristica che contraddistingue in tutto e per tutto l’ultima e incredibilmente divisiva opera cinematografica di Darren Aronofsky, The Whale, è proprio l’empatia, e il legame emotivo e spirituale visibilissimo tra ciò che accade e chi invece osserva e filma, ponendosi apparentemente una domanda e riflessione: E se Charlie avesse incontrato prima il Dottor Nowzaradan?

Darren Aronofsky, il regista della rinascita – The Wrestler e The Whale, due facce di una stessa medaglia

Molto è stato scritto su The Whale, ampi dibattiti e altrettanto ricche e accese discussioni che hanno addirittura preceduto la sua uscita nelle sale americane, alcune di queste non a caso hanno affollato siti e pagine web appena dopo l’annuncio da parte di Aronofsky rispetto alla sua volontà di adattare per il cinema l’omonima pièce teatrale  scritta da Samuel D. Hunter, senza tuttavia approfondirne il contenuto o cercando di identificarne tracce narrative comuni alla filmografia dell’autore di Requiem for a dream, The Wrestler o Madre!, che se indagate con sincerità e attenzione non possono far altro che saltare all’occhio, comprendendone dunque le ragioni realizzative.

Basti pensare a The Wrestler, il doloroso racconto di rinascita di un uomo che vuol tornare a essere padre, ricucendo i rapporti travagliati con la giovane figlia Stephanie (Evan Rachel Wood), fino ad allora dimenticata, dopo aver speso l’intera vita all’interno di un mondo che in definitiva non ha fatto altro che distruggerlo e isolarlo, tanto rispetto a sé stesso, quanto alla famiglia che ha lasciato andare.

The Wrestler - Cinematographe.it

Un film che forte di un brano creato ad hoc, The Wrestler di Bruce Springsteen – scritta espressamente per Rourke, amico di lunga data di Springsteen – raccontava con grande sincerità e per certi versi spirito documentaristico, non soltanto la rinascita del personaggio fittizio Randy Robinson, ma anche quella del suo interprete, Mickey Rourke, che vive da diversi anni a quella parte un doloroso cammino di dipendenze, ruoli minori e graduale allontanamento dal cinema serie A che lo aveva fino a pochi anni prima forgiato e accolto.

Aronofsky dunque sembra mettercela tutta pur di raccontare con il giusto impegno e realismo, la rinascita dei suoi personaggi e degli interpreti che ne vestono i panni, soprattutto attraverso il dramma. Un’operazione che si ripete un’altra volta, seppur con risultati differenti e più complessi, con The Whale. Un altro racconto doloroso di perdizione, disperazione e rassegnazione la cui unica luce è data dalla volontà e speranza da parte di Charlie (Brendan Fraser), un uomo gravemente sovrappeso, di ricucire i rapporti con la figlia adolescente Ellie (Sadie Sink) relegata ad un passato fino ad allora dimenticato.

Ancora una volta, il focus non è soltanto sulla rinascita del personaggio fittizio (Charlie), ma anche e soprattutto su quella di Brendan Fraser, interprete di un cinema inizialmente cult, poi sempre più di serie B, fino al raggiungimento – o quasi – del dimenticatoio, dal quale Aronofsky decide di ripescarlo, per immergerlo all’interno di un gigantesco corpo gommoso a metà strada tra il body horror e il cartoonesco, che conduce rapidamente Fraser – forte di un’interpretazione emotiva indimenticabile e disarmante – alla conquista di numerosissimi premi e nomination, fino a quella più ambita, ossia al Miglior attore protagonista nella 95° edizione degli Accademy Awards, dei quali scopriremo l’esito nella lunga e attesissima nottata del 12 marzo 2023.

Le colpe dei padri sopravvivono nel tempo – Sull’omosessualità, il rifiuto della fede e la famiglia disfunzionale

La scrittura di Samuel D. Hunter – che oltre ad essere l’autore dell’omonima pièce, ne cura anche la sceneggiatura cinematografica – si concentra dalle primissime sequenze alle ultimissime inquadrature – o quasi – sugli effetti che un male annunciato, accaduto nel passato di Charlie e descritto solo in seguito, ha generato sia sul suo corpo obeso e sproporzionato – che in più di un momento sembra assumere una carica differente, come trattandosi di un personaggio altro e cioè di una creatura incontrollata e incontrollabile che sopravvive secondo proprie regole, servendosi soltanto dei corpi come tele, o ancor peggio, nidi (Alien) – che sulla sua psicologia, affollando la mente di Charlie di pensieri confusi, turbamenti, sensi di colpa e profonda vergogna rispetto ad un passato che non ha saputo affatto gestire ed elaborare, abbandonandosi a sé stesso e lasciandosi perciò morire lentamente e in solitudine.

A partire dalla condizione dell’isolamento e della solitudine – poiché è bene ricordarlo, The Whale è in qualche modo vero e proprio cinema da camera dalle evidenti e fortissime influenze teatrali, venendo da lì – Samuel D. Hunter intraprende una progressiva e dolorosa riflessione sul peso delle colpe, quello mai realmente discusso ed elaborato nel corso degli anni.

Una riflessione che diviene ancor più nevralgica e definitiva guardando ad un’esistenza profondamente solitaria e turbata, com’è quella di Charlie, un uomo che non soltanto si ritrova ad un passo dalla morte senza averlo considerato raggiungendo i 250 chili e oltre di peso, ma che non esce più di casa da tempo, senza perciò stringere legami e rapporti di socialità capaci in qualche modo di ricondurlo alla vita e a ciò che quelle pareti e quegli interni maleodoranti escludono, tra romanzi, saggi, polvere e dolore. The Whale è ambientato in una piccola cittadina dell’Idaho, eppure potrebbe collocarsi ovunque, non mostrandocene mai realmente nemmeno un dettaglio o scorcio. Se non boschi, monti e nebbie in lontananza.  

Dall’elaborazione dei sensi di colpa, si giunge ben presto alla tematica omosessuale, che pur restando sul fondo della narrazione del film genera di tanto brevissimi momenti di ilarità, dramma o cinema grottesco. Basti pensare alla sequenza d’apertura, che vede il sovrapporsi di una situazione accademica e rigidamente controllata come la lezione online via web tenuta da Charlie in merito alla scrittura e redazione di saggi, e la sua sessione – si vuol pensare sporadica – di masturbazione forsennata e decisamente letale, o quasi, dinanzi al file video del computer portatile su cui la macchina da presa si sofferma per un attimo, per poi muoversi delicatamente altrove, ma non abbastanza rapidamente da nasconderne la natura omosessuale.

Critics Choice Awards 2023 Brendan Fraser - Coinematographe.it

Una tematica quella dell’omosessualità che come detto si divide tra il rarissimo sarcasmo e brevissimi momenti che agli occhi dello spettatore non possono che apparire come dell’assurdo o del grottesco, ma che di fatto appartengono alla realtà nuda e cruda di una situazione drammaticamente reale, estrema, perciò incredibile. Non è un caso che Aronofsky sfrutti la dinamica della masturbazione come azione quotidiana, perciò di assoluta normalità, rendendola in questo caso, gesto estremo e perfino letale per un individuo che come Charlie vive in condizioni di grave obesità, tali da non permetterne affatto lo svolgimento, se non temendo continuamente per la propria incolumità.

Come d’attese, anche se sorprendente, è la riflessione religiosa e spirituale, immancabile nel cinema di Aronofsky, che Samuel D. Hunter veicola attraverso il cammino di dolore di Charlie, legato inevitabilmente alla questione dei sensi di colpa e a quel male che sta causando la sua morte, via via più vicina eppure in qualche modo salvifica, tanto per Charlie, quanto per lo spettatore. Qui ha un ruolo di fondamentale importanza Liz (Hong Chau), colei che eternamente osserva, medica e aiuta, guidando amorevolmente Charlie lungo il tragico ma consolatorio cammino che volontariamente ha deciso di intraprendere.

Quel male che è origine di tutto, è infatti legato alla fede, che torna in tutta la sua forza, complessità e messa in discussione nel corso del film, vestendo i panni di un giovane pastore, Thomas (Ty Simpkins) che portando la parola della Bibbia di casa in casa, fa casualmente ingresso anche in quella di Charlie – oltretutto in una situazione apparentemente miracolosa, e dal disegno superiore – mutando le logiche, ma non le ferree convinzioni di quell’uomo solo che se un tempo ha compreso la fede, pur non amandola, ha scelto poi e in via definitiva di abbandonarla, a causa degli avvenimenti drammatici della vita, proprio quelli che la fede, se presente o concreta, dovrebbe allontanare e non restare ad osservare, o ancor peggio generare.

Quella di The Whale è una scrittura immediata, feroce, sincera, drammaticamente reale e di un’umanità ed emotività tragica che raramente abbiamo conosciuto prima, e che trova la sua riflessione probabilmente più profonda, matura e dolorosa nel racconto di una solitudine che scontrandosi con la disfunzionalità sociale e più nello specifico di una disfunzionalità familiare, esplicita meglio di qualsiasi altra opera esistente, il reale significato di due termini: auto sabotaggio e comprensione, che si portano su di sé i tre personaggi femminili del film, rispettivamente Ellie, Mary e infine Liz, l’unico personaggio che più di tutti risponde alla definizione più assoluta e universale di comprensione.

Darren Aronofsky e Samuel D. Hunter consegnano al pubblico un film incredibilmente divisivo, complesso ed estremo, che attraverso un linguaggio crudo e spietato sceglie di non fare sconti a nessuno, pur tenendo in considerazione l’inaspettato misticismo spirituale conclusivo. Ogni personaggio corrisponde ad una o più colpe, senza alcuna esclusione. Non c’è buono o cattivo, soltanto comprensione.

Presentato alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e al Toronto International Film Festival, The Whale è finalmente in uscita nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 23 febbraio 2023, distribuzione a cura di I Wonder Pictures.