Editoriale | Un affare di famiglia: neorealismo ed emarginazione firmati Kore-eda Hirokazu
Il maestro del cinema giapponese Kore-eda Hirokazu torna al cinema il 13 settembre dopo la Palma d’Oro vinta a Cannes con un’altra profondissima osservazione del suo paese.
Nessuno è stato capace di raccontare così bene la società giapponese nostra contemporanea come Kore-eda Hirokazu. Il maestro orientale di un neorealismo tra i migliori al mondo conferma con Un affare di famiglia quella sensibilità sobria che spalanca ogni suo film su piani narrativi e personaggi pulsanti e sinceri, frutto di costruzioni autoriali intrecciate ad arte con la continua osservazione del suo paese. Il cinema di questo autore illuminato resta sempre il modo migliore per conoscere il Giappone senza andarci, ma stavolta l’erede di Ozu ci porta in una famiglia problematica e molto modesta.
Osamu è un ometto che porta il figlio preadolescente a rubare nei negozi al posto di mandarlo a scuola. Tutta la famiglia tira a campare tra i malloppi per i furtarelli e la pensione dell’anziana nonna, una Kiki Kilin magistrale. Un giorno Osamu e sua moglie decidono di adottare una bambina trovata in una casa vuota. Così inizia per lei l’affiancamento ai piccoli crimini del fratellino acquisito. Kore-eda avvolge di mistero i legami precisi dei sei membri della famiglia, sciogliendo ogni nodo soltanto nell’ultima parte rivelatoria del film.
Un affare di famiglia: il Giappone e il piccolo micromondo degli invisibili
Il tema dell’abbandono familiare si ribalta rispetto al suo Nobody knows, del 2004. Ma a prescindere, qui si tratta l’emarginazione urbana riprendendo quasi sempre spazi angusti. Una claustrofobia registica a suo modo sempre più avvolgente che stringente, tutta poggiata sull’indigenza di questi poveri cristi. Pensioni rubate, i confini del mondo hobo e la famiglia legata da piccoli crimini fanno pensare al Brutti, sporchi e cattivi di Scola, anche se la salacità corrosiva di Manfredi, più modulata su un atteggiamento da commedia, era molto distante al padre arraffone ma bonario di Lily Franky. Dall’attore cinese ci arriva diretta una tenerezza verso la famiglia modulata sul quotidiano in maniera pacata e rassicurante, anche se dietro la maschera il passato tornerà a chieder conto. Siamo nel micromondo dove poveri disgraziati che campicchiano in un paio di stanze succhiano rumorosamente spaghetti in brodo e condividono gioie e dolori restando invisibili alla città che si muove affollata e distratta intorno a loro.
Tirando ancora l’elastico del tempo e del mappamondo, ricordano pure, come ipotetiche controparti, Ladri di biciclette di De Sica, o i baraccati in Accattone di Pasolini. Però qui la disonestà non funge da deterrente, bensì all’unione famigliare, cementandola d’affetto. E si salda risplendendo di organicità un cast che lavora con perizia e verosimiglianza tali da lasciarci a volte l’impressione di essere nel bel mezzo di un documentario intimamente immersivo. Invece siamo nella pura finzione scenica. Un attore su tutti che intenerisce e racconta moltissimo con il suo attento mutismo prima e dopo ogni furto è il giovane ladruncolo con il viso furbo e buono di Jyo Kairi. Attore dodicenne, per espressività schietta ma a volte sfuggente, si pone a metà strada tra lo storico Monello chapliniano Jackie Coogan e un piccolo River Phoenix cinese. La sua carriera potrebbe avere un futuro sorprendentemente positivo.
Un affare di famiglia: un’avventura socio antropologica
Povertà e illegalità attraversano parallelamente questo lavoro che si è guadagnato la Palma d’Oro al Festival di Cannes. L’avventura socio antropologica offerta dall’autore è frutto di un’osservazione lunga un decennio, ma il racconto è diretto a esplorare certosinamente i legami familiari anche in una situazione del tutto borderline. I colori restituiti dalla fotografia di Kondo Ryuto si stampano vividi nella memoria. Accantonano il grigiore metropolitano per fuoriuscire da un mondo di oggetti, dentro casa o nei negozi puntati per i colpi. In entrambi, i concetti di proprietà e condivisione sono molto relativi. La natura invece resta timida in anfratti e aiuole verdi dove a volte respirano le riflessioni dei personaggi. L’idillio controverso di Kore-eda è totalmente urbano, ma le gesta, dei suoi character, spesso di un’incoscienza disarmante, non attirano un giudizio duro e immediato del pubblico. Anzi, cercano una partecipazione di composta empatia, non piegandosi mai a pietismi o drammatizzazioni mirati all’eccesso. Insomma, Un affare di famiglia, gioiello in sala dal 13 settembre, si fa voler bene come un altro piccolo grande viaggio cinematografico nel Giappone di oggi.