Un altro Ferragosto e le commedie cult che hanno raccontato l’Italia
Come la commedia italiana, dagli anni '50 fino a Un altro Ferragosto, ha saputo raccontare l'Italia che cambia. Una carrellata di classici e titoli cult, da riscoprire.
Con Un altro Ferragosto, in sala dal 7 marzo 2024 per 01 Distribution, non torna al cinema soltanto Paolo Virzì, o un cult invecchiato benissimo del cinema anni ’90: con Un altro Ferragosto, torna al cinema la commedia all’italiana. La cara vecchia commedia all’italiana, fraintesa ai suoi tempi e celebrata retrospettivamente, improvvisamente sparita perché la nuova commedia ha scelto strade diverse, meno malinconiche, meno taglienti, meno disposte a conciliare dramma e risate, meno propense al rischio. Un altro Ferragosto è il sequel spirituale del classico del 1996 Ferie d’Agosto, sempre Virzì, insieme al fratello Carlo e a Francesco Bruni. Commedia all’italiana, perché non si accontenta dell’esplorazione delle psicologie ma fa satira di costume; perché la superficie è grottesca e divertita, ma su un fondo di dramma.
La commedia italiana, la commedia all’italiana, ha colto umori e segreti dell’Italia in trasformazione, dal dopoguerra ad oggi, con un’esattezza che è mancata al cinema d’autore più celebrato, forse perché il suo sguardo era rivolto altrove. La vita del paese e la vita degli italiani, vizi e virtù, eroismo maldestro e clamorose cialtronerie; la commedia come terapia di un paese, tracciando i contorni di un’evoluzione che è insieme psicologica, storica, sociale e antropologica. Si potrebbero isolare, volendo, anche solo una manciata di titoli. Basterebbe, per definire un’ideale evoluzione del costume degli italiani e capire in che modo il nostro cinema abbia interpretato, inscenato, criticato e accolto il cambiamento. La storia di quello che siamo diventati, la storia del nostro cinema.
Un americano a Roma (1954), Il sorpasso (1962) e L’ombrellone (1965), una nuova Italia per nuovi italiani
Si comincia con un’eresia perché Un americano a Roma non rientra nei canoni della commedia all’italiana, restando il film – nei toni e non solo – saldamente ancorato al terreno del comico puro. Comico l’intreccio, comica l’atmosfera, comica l’ormai leggendaria caratterizzazione di Alberto Sordi; il personaggio di Nando Moriconi/Mericoni, già evocato in Un giorno in pretura (1953) è poco più che un macchietta, no? Neanche per sogno. La lucidità corrosiva della messa in scena di Steno (Stefano Vanzina) e l’esuberanza di Alberto Sordi portano la storia a un livello superiore. Molto più di una collezione ben congegnata di gag su un tema (allora) di stretta attualità, Un americano a Roma è comicissima satira di costume. Come riferirsi altrimenti alla curiosa psicologia di Nando Moriconi, romano di Roma soggiogato dal sogno americano (c’entra anche il cinema) al punto di sbarazzarsi delle sue radici e farsi “altro”? Sì, Un americano a Roma è il primo film sull’Italia globalizzata e in via di “americanizzazione”, l’Italia che cerca di essere e diventare, con esiti tragicomici, qualcosa di diverso da se stessa. Stordita dalle promesse di benessere e ricostruzione dopo le fatiche della guerra, fragile democrazia, non ancora travolta dalla frenesia del boom.
La frenesia del boom, la retorica – vitale e cialtrona – del progresso veloce e della ricchezza a tutti i costi sono al centro della commedia all’italiana più cinica, puntuale e scrupolosa nell’intrecciare analisi psicologica e quadro d’ambiente. Il sorpasso esce nei cinema italiani nel 1962, ma per l’esattezza delle sue conclusioni un film del 1992 non avrebbe saputo fare meglio. Bruno Cortona (Vittorio Gassman), arrogante affabulatore ma pieno di voglia di vivere, carica sulla sua Lancia Spider (la macchina degli arricchiti, spiega chi c’era) il timido e represso Roberto Mariani (Jean Louis Trintignant). Insieme se ne vanno, su e giù per la dorsale tirrenica, a esplorare i riti consumisti e i vezzi un po’ cafoni dell’italia ferragostana travolta da un benessere che non sapeva di meritare. Commedia all’italiana all’ennesima potenza, perché l’on the road estivo sceglie la via della commedia e dell’apparente disimpegno, ma nel tragico finale anticipa la fine delle promesse (e del miracolo economico) e il ritorno a una stagione più cupa. Senza per questo tornare indietro, perché l’Italia è irrimediabilmente cambiata.
La combinazione estate e satira di costume è davvero nelle corde di Dino Risi. Più impreciso, più glaciale, non meno suggestivo, L’ombrellone (1965) è il fratello minore, misconosciuto ma da riscoprire, de Il sorpasso. Prende persino in prestito l’iconico incipit, la scorrazzata in macchina per le vie deserte di Roma, per raccontare il benessere di un’Italia che, archiviata la parentesi del boom, si scopre benestante e prende le misure al nuovo status. Non c’è più spazio per le profetiche e ingenue fantasie di Nando Moriconi, l’America sognata sullo schermo di un cinema. A questo punto l’America siamo noi, nel rito tribale delle vacanze, nella soddisfazione materiale, nella ricchezza che è vera solo se è ostentata. Enrico Maria Salerno lascia Roma per passare un po’ di tempo a Riccione con la moglie Sandra Milo e gli amici. Saranno giorni da incubo, ansiogeni, senza un attimo di respiro, perché la vacanza è una nevrosi da consumare volenti o nolenti, un lavoro, la catena di montaggio della felicità. Tornato a Roma, finalmente a letto, il protagonista lascia accesa la radio che trasmette l’elenco dei morti e feriti sulle strade del ritorno a casa. Sembra proprio, anzi è, un bollettino di guerra.
C’eravamo tanto amati (1974) e La terrazza (1980): Ettore Scola congeda trent’anni di storia e saluta la commedia all’italiana
A metà degli anni ’70 è tempo di bilanci e l’esito è contrastato, perché con le luci molte ombre, ma la sensazione è che non sia tutto perduto. Ettore Scola, che prima di essere regista è stato uno dei padri nobili del movimento in qualità di sceneggiatore, prepara il terreno per la fine della commedia all’italiana. Complicato ingabbiare sotto un’etichetta qualunque un film “mostruoso” per ambizioni e volontà totalizzante – negli occhi dei personaggi, la storia di un paese – come C’eravamo tanto amati (1974), ma come si fa a tenerlo fuori? Apoteosi del cinema generazionale – c’entra anche qui Dino Risi perché il sottogenere l’aveva sdoganato lui con Una vita difficile (1961) – trent’anni di vita italiana con Vittorio Gassman, Stefano Satta Flores e Nino Manfredi. Fratelli partigiani, tutti innamorati della stessa donna, che sarebbe Stefania Sandrelli, ciascuno su una via diversa: Gassman cinicamente arricchito, Satta Flores intelletuale sterile e sconfitto dalle circostanze, Manfredi coerente ma umile portantino. Cronaca dolceamara di sogni e disillusioni di una generazione di italiani che ha sperimentato le fatiche della ricostruzione, i primi incerti passi della democrazia, l’ebbrezza del boom e la lenta e silenziosa fine delle ideologie e delle grandi narrazioni.
Non è tutto. Serviranno altri sei anni e un clima se possibile più sinistro, a Ettore Scola, per cucinare l’appropriato funerale a un certo modo di fare commedia e, cosa più importante, a un certo modo di spiegare l’Italia. Non sono anni felici, per il paese, quelli a cavallo tra i due decenni. La disillusione senza resa incondizionata di C’eravamo tanto amati lascia spazio all’amarezza, alla rabbia e al senso di impotenza di La terrazza (1980). Seguito ideale, controcampo, terzo tempo funereo del film del 1974, generazionale ma sorretto da una micidiale unità di spazio e tempo. Un’elegante terrazza romana ospita le serate di un minestrone di intellighenzia, personalità politiche e nomi vecchi e nuovi del cinema italiano. Si riflette sul tempo perduto, si misura il vuoto politico e culturale, si sta insieme mentre si aspetta non si sa bene cosa e fuori infuria il temporale; non resta che trincerarsi dietro l’illusoria magia di una vecchia canzone. Cast clamoroso (foto sopra), la centralità del film – capolavoro sottovalutato dal suo stesso regista – non sta tanto in quel che racconta del paese, ma nell’onestà e nella forza con cui rilegge la stasi creativa di una generazione di intellettuali e cineasti. La commedia all’italiana ha perso mordente, i suoi autori invecchiano e c’è bisogno di un linguaggio che dia corpo e voce al cambiamento. La svolta è dietro l’angolo.
Gli opposti si attraggono? Vacanze di Natale (1983) e Palombella rossa (1989)
Il nuovo linguaggio, a guardarlo da vicino, somiglia molto al vecchio. Vacanze di Natale (1983) passa alla storia come il progenitore del più famigerato (amato dal pubblico) e discusso filone della commedia italiana, il cinepanettone, ma non è così semplice. L’Italia, abbandonata la stagione dell’impegno e della violenza politica, scavalcati gli anni ’80 e timidamente immessa nel sistema una nuova generazione di talenti comici, tra il boom delle tv private e il tramonto delle ideologie ha bisogno di nuovi codici per ingabbiare e far satira dei suoi difetti. Vacanze di Natale intercetta la volontà di cambiamento, intrecciandola a un sapiente recupero della tradizione. Ideazione di Enrico e Carlo Vanzina, figli del grande Steno, nel cast un mix ragionato di volti relativamente nuovi (Christian De Sica e Jerry Calà) e consolidati (Stefania Sandrelli). Nel racconto delle vacanze invernali – format ereditato dalla commedia degli anni ’50 – di un gruppo di borghesi di estrazione bassa-media-alta, si rispecchia un paese più vuoto e volgare, non meno divertente, fissato da una sceneggiatura rigorosissima e immerso in un clima di umorismo e leggerezza sdrammatizzante che ne camuffano le velleità di denuncia e satira sociale. Scatenandogli contro, in retrospettiva, accuse di complicità e vicinanza, quasi di collusione, con la volgarità messa in scena.
Oltre la vocazione ultra popolare della commedia made in Vanzina, il cinema di Nanni Moretti è un’arte più ricercata nel linguaggio e spudoratamente politica, pensata per una minoranza ma paradossalmente capace di interpretare ansie e inquietudini trasversali. Palombella rossa (1989), in sala un attimo prima del crollo del muro di Berlino, è il manifesto dell’umorismo surreale e politico, venato di malinconia e denso di suggestioni oniriche, del suo autore. Rispolverato l’alter ego cinematografico Michele Apicella, per la prima volta politico di professione (ovviamente PCI), Nanni Moretti sa, come i fratelli Vanzina, che l’Italia è cambiata. Ma se per il duo ciò che contava era rileggere il mutamento dei costumi cercando una commedia nuova per un’Italia nuova, la questione, per Nanni Moretti, alla fine del decennio, è più complessa: rendere conto della crisi delle idee e degli uomini. Riflettendo sul tramonto della cultura di riferimento, sulla difficoltà nel trovare le parole (sono importanti, va ricordato) giuste e sul bisogno di ricostruire i pezzi del puzzle dopo l’amnesia (affligge il protagonista e con lui una generazione).
Ferie d’agosto (1996) e Un altro Ferragosto (2024): viaggio nel paese reale
I Molino e i Mazzalupi sono i Montecchi e Capuleti di Paolo Virzì, ma la posta in gioco non è l’amore tormentato o il conflitto tra le generazioni, ma un più sinistro e quotidiano confronto tra le due anime del famigerato paese reale. Gli eleganti e progressisti Molino, intellettuali di sinistra con il cuore al posto giusto, snob e incapaci di fare i conti con una realtà che gli sfugge di mano. E i populisti, rustici, simpatici e ipocritamente fascisti (e razzisti, omofobi) Mazzalupo, la gente semplice che volta le spalle alla solidarietà e al bisogno di giustizia sociale per abbracciare una deriva degli ideali molto pericolosa e contraria ai suoi interessi. La linea narrativa è di estrema semplicità per entrambi i film, scritti e diretti da Paolo Virzì. Si chiamano Ferie d’agosto (1996) e Un altro Ferragosto (2024).
A Ventotene i Molino e i Mazzalupi finiscono per trascorrere le vacanze in villini adiacenti. Gli riesce solo di litigare e guardarsi in cagnesco. Morale della favola? Ferie d’agosto brillava della malinconia leggera delle sue risate, della potentissima carica spiazzante e del suo afflato profetico. Raccontare l’Italia al contrario, con i progressisti benestanti e gli operai fascisti, significava dare conto di un mutamento antropologico inedito per quel cinema ma che avrebbe finito per dominare il discorso pubblico negli anni a venire. Un altro Ferragosto alza i toni: i progressisti allo sbando, la democrazia appesa a un filo, le vacanze più caotiche e confuse che mai, i fascisti sempre più fascisti. Il film del 2024 rispolvera l’amaro umorismo della vecchia commedia all’italiana, riprende il discorso interrotto del 1996 e tenta l’analisi retrospettiva, indagando sui limiti e le trappole della nostalgia e flirtando con l’umore apocalittico di questi anni confusi, senza cedere del tutto alla disperazione. La nuova commedia all’italiana, se si avrà la forza di proseguire su questo sentiero, ha molto da offrire per la sua capacità di stabilire un rapporto costruttivo tra passato e presente.