Veloce come il vento: la storia vera del film con Stefano Accorsi
Veloce come il vento è azione e sentimenti, ritmo, adrenalina, ma anche famiglia, amore e dedizione. Ecco la storia vera.
Corre veloce Giulia De Martino (una strepitosa Matilda De Angelis) sulla strada. Strizza gli occhi per vedere meglio la meta, tiene saldo il volante tra le mani quasi a voler infondere in esso tutto il suo coraggio e la sua adrenalina. Prende le curve, mangia l’asfalto, tenta di guadagnare una posizione in più, nei box c’è suo padre che attende e spera. La corsa non va come Giulia avrebbe voluto, arriva solo settima, e neanche la sua vita da quel giorno lo avrebbe fatto.
Suo padre, suo allenatore, muore, e lei e il fratellino Nico, vengono dati in custodia al fratello maggiore Loris (uno Stefano Accorsi calato come non mai nel ruolo), una leggenda dell’automobilismo da rally ora tossicodipendente. Parte da qui Veloce come il vento (2016); il film di Matteo Rovere realizza un’opera di genere (una pellicola sull’automobilismo in Italia sembrava una vera e propria sfida) che ha come protagonisti una giovane donna coraggiosa, indipendente e piena di talento che non arretra mai e non si fa comandare da nessuno, che vive in un mondo di uomini, e un uomo infarcito di problemi e droga che sotto tutto questo nasconde un buon cuore.
Veloce come il vento è azione e sentimenti, ritmo, adrenalina, ma anche famiglia, amore e dedizione; ogni corsa, ogni lite, ogni lacrima versata riverbera di verità e di sincerità. Questo succede anche per il fatto che Rovere ama quella terra – l’Emilia Romagna di cui conosce molto perché i suoi nonni erano di Imola -, ha dentro di sé la lingua, le persone, gli umori. Tale “odore” di sincerità è dato soprattutto dal fatto che Veloce come il vento prende ispirazione dalla vita di Carlo Capone, vincitore del Campionato Europeo di Rally nel 1984, a bordo di una Lancia Rally 037.
Veloce come il vento: Loris, un ballerino sulla strada
Rovere affonda le mani, per costruire Loris, nei racconti di un meccanico, Tonino (Antonio Dentini) che ha conosciuto e lavorato con Carlo Capone, di cui con le sue parole ha sviscerato ed eviscerato la storia. Dovevano essere non solo dei campioni ma un po’ degli dei e le macchine non dovevano solo correre ma volare nei circuiti; e tutto questo esce perfettamente dal film del giovane regista e produttore che riesce a far percepire l’odore della benzina e dell’asfalto sequenza dopo sequenza.
Loris, nonostante la droga che lo eccita e lo sovrasta, è sempre il De Martino con tuta e casco perché lui di olio e di carburante ha le vene intrise; basta poco – mentre Giulia corre, il richiamo della pista per il fratello è troppo forte, prende in mano le cuffie per dirle cosa fare -, e tutto torna al punto di partenza. Insegna ciò che sa a sua sorella Giulia, le insegna a danzare con la macchina – movimento che gli è valso il soprannome di “ballerino”-, armoniosa, perfetta nella sua imperfezione (le urla anticipale quelle curve, tagliale), ad essere veloce e “sporca”. Giulia apprende, ingloba ogni piccolo trucco, anche se il loro è un rapporto complicato, duro, fatto di urla, odio ma anche di abbracci e amore; è una relazione che si infiamma la loro, è un elastico che si stringe e si rilascia. Rovere corre dietro le macchine, entra dentro all’adrenalina e alla paura, registra la polvere e la fatica del pilota e così segue, entra dentro e registra le frizioni, le rotture e i “ti voglio bene” detti a denti stretti tra i suoi due personaggi principali.
Veloce come il vento: De Martino e Capone, punti in comune e differenze
Loris è bolognese mentre Capone torinese, il primo è diventato tossicodipendente, l’altro è depresso (a causa della morte della figlia nel 1984 per un banale rigurgito), entrambi però sono abitati da una profonda e struggente malinconia che non offusca mai il loro essere dei miti. Il talento dei due è lo stesso, inarginabile, dirompente, come simile è la figura di Loris e di Capone: del vero campione si raccontano il fisico magro, segaligno, l’altezza media e i capelli piuttosto lunghi, caratteristiche che ha anche quello di celluloide. Il corpo di Accorsi si piega all’originale riecheggiandolo e appare sullo schermo con vari chili in meno, capelli arruffati, alle spalle, denti rovinati e smangiati e con un forte accento regionale – elemento fondamentale nel film perché per il regista era necessario che il film fosse “in lingua originale”: Stefano Accorsi è di Budrio, Paolo Graziosi (il meccanico) di Rimini, Matilde De Angelis di Pianoro – .
Rovere non fa però un biopic su Capone, racconta invece l’atmosfera di quel mondo lì, con pennellate sapienti ritrae un uomo prima all’apice, poi dimenticato e messo da parte – e che si mette da parte. Capone, riservato, chiuso, dal carattere complicato, ha raggiunto la vetta proprio nell’anno in cui la vita lo mette di fronte alla prova più lacerante e dolorosa (la perdita della figlia) e così l’anno dopo lascia l’automobilismo e cova dentro di sé lo strazio per cui nulla sarà più lo stesso. Poco valgono le vittorie come le sconfitte, poco vale l’essere emarginato dalle corse, senza più ingaggi né scuderie, poco vale l’essere lo “sfasciamacchine”, per lui non c’è più futuro. Loris dal canto suo dorme in una roulotte, si fa per soffrire di meno assieme alla compagna, sembra non esserci più futuro anche per lui.
Entrambi hanno una seconda possibilità ma poi alla fine la storia dei due prende strade diverse (Loris alla fine in qualche modo si risolleva). Loris prepara Giulia, atleticamente – la vediamo sudare, accumulare massa, faticare per essere pronta a “portare” la macchina -, le insegna tutto ciò che sa, la stessa cosa fa Capone con una giovane pilota (il primo per aiutare la sorella e la famiglia intera, il secondo per sconfiggere i suoi incubi).
Veloce come il vento: un’eroina piena di verità e di fragilità
In Veloce come il vento c’è anche Giulia in cui e su cui riverbera luce di verità. Rovere è da sempre narratore del femminile e qui fa un lavoro pazzesco nel dipingere una ragazza piena di fragilità eppure molto tosta, con i capelli rasati e blu, come la tuta che indossa quando va in macchina ma pur sempre una diciassettenne. Giulia è un ossimoro in carne e ossa, è chiusa in quel suo volto dolce, tenero, in crescita, piena di contraddizioni, figlie anche della sua giovane età, ma non ha tempo di essere così, deve risolvere tutto ciò che “le compete”: il fratellino, la casa, le gare e Loris, un bambino irruente, impulsivo e senza regole. Deve piazzarsi sul podio e per fare questo deve scendere a patti prima con se stessa, con il suo carattere e poi con suo fratello Loris, imprevedibile e irresponsabile.
In lei ci sono tutte le altre donne pilote, prima fra tutte Michela Cerruti – figlia di Aldo Cerruti, campione di automobilismo – che vanta un brillante curriculum nelle gare Turismo, Endurance, Superseries, Gran Turismo. Ha collaborato attivamente alla costruzione di Giulia, del suo personaggio, raccontando cosa si provi ad essere una donna in un mondo maschile, cosa accada nei box, come ci si prepari alla gara.
In lei ci sono anche Luli Del Castello e Valentina Albanese, ci sono le vittorie e le sconfitte, ci sono gli attimi di sconforto di chi si trova su un ring popolato da uomini. Giulia, come le sue fonti di ispirazione, si rimbocca le maniche e si fa strada in un mondo dominato dal testosterone ma che è capace anche di mettere sul podio uomini e donne. Matilde De Angelis, da sempre “paladina” della indipendenza femminile, della libertà a tutti i costi, dell’essere e accettarsi per come si è (racconta lei stessa di essere stata anoressica da adolescente), si presta alla perfezione a questo racconto, imparando da queste donne e donandosi senza risparmiarsi – è straordinaria pensando al fatto che questo è stato il primo lavoro dell’attrice resa nota al grande pubblico per il personaggio di Ambra in Tutto può succedere.
La sua interpretazione è diretta, naturale, senza fronzoli e sembra dare del filo da torcere al suo compagno di lavoro con una carriera di molto più lunga alle spalle; la sua Giulia è viscerale e piena di sentimento e ogni cosa, dal sudore alle lacrime, dalla rabbia agli abbracci, ha un senso che esce dal senso, arriva all’essenza del suo personaggio andando oltre ad esso.
Veloce come il vento: un “prototipo” che fa bene al cinema italiano
Rovere, è chiaro, attinge alla storia di Capone usando ciò che pensa essere più giusto per la sua storia e dà vita così ad un “romanzo” che conquista fin dai primi istanti grazie anche al suo coraggio – dice che per lui Veloce come il vento è come se fosse il primo film, sua è l’idea “strampalata”, suo il sudore versato per rendere reale il progetto –, quello di portare sullo schermo un film che rompe gli schemi, tingendo di colori nuovi il cinema italiano.
Veloce come il vento è quasi un unicum nel nostro cinema, un film che è stato un progetto complesso, difficile da mettere in scena, non solo “fattivamente” – per le tante sequenze action, girate interamente dal vero – ma anche per la forza emotiva (Accorsi dice che questa è stata una delle prove più impegnative della sua carriera) che sta dietro. È una pellicola non solo importante di per sé ma anche per il cinema nazionale in genere, dimostra che un gruppo di lavoro è in grado di fare grandi cose e di sparigliare le carte. È capace di portare in sala un mondo di donne ribelli e intrepide, di uomini fragili ma anche eroici, di macchine da corsa e di sentimento, di spettacolo e di relazioni, di storie inventate ma con un profondo senso di realtà.