Vermiglio NON è un “bozzetto verista”. Vedetelo, senza etichette!
Maura Delpero non è ‘figlia’ – o nipote – di Ermanno Olmi né di nessun altro: avrà padri e madri o antenati culturali, come tutti, ma il suo Vermiglio non assomiglia a nient’altro che a sé stesso. Ecco perché, allora, andrebbe visto senza pregiudizi e soprattutto sollevato dall’appropriazione antropologica.
Vermiglio, già Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia, è stato scelto per concorrere alla shortlist dei quindici film internazionali in lizza per la nomination agli Oscar. Il riconoscimento non è, come alcuni hanno malignato, il riflesso del gusto americano per la rappresentazione regionalistica di un’Italia incantevole e incantata. Il film di Maura Delpero non ricostruisce antropologicamente il passato, ma, attraverso la storia di una famiglia di ieri che oggi sarebbe irripetibile nelle sue proporzioni, ci mostra qualcosa che vale anche e ancora oggi: sentire, e non poter dire, la differenza tra uomini e donne; perdere o sacrificare la voce femminile perché si è creduto troppo alla parola del Padre; mettere al mondo di continuo vite che non sono la propria, quella di un figlio o di sé stesse al di fuori delle tenaglie, e delle strettoie, del desiderio maschile.
Vermiglio: il film trova un linguaggio personale e nuovo affidandosi a codici naturalistici modulati sulla sensibilità particolare (e raffinata) della sua autrice
Sgombriamo subito il campo da equivoci: Vermiglio, opera seconda (e matura) di Maura Delpero, decorata da premi, critica e successo di botteghino, non è la composizione manierata di un idillio perduto, la rappresentazione, nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale, della vita di una numerosa famiglia semiborghese – padre maestro elementare o di adulti analfabeti; madre ‘sfornafigli’, o forse meglio ‘sfogliafigli’, data la fatica che fa a partorirli e a mantenerli al riparo dalla morte – in un paesino trentino innevato d’inverno e infreddolito nelle altre stagioni.
Sì, è vero, ci sono le mucche da mungere, le caprette a cui fumare in faccia, le galline che lasciano i loro escrementi in pasto alle giovani penitenti, il dialetto come lingua domestica e l’italiano come lingua esotica che s’impara a scuola e lì resta, salvo per i pochi che dalla scuola escono per andare altrove: le “teste fini” come Flavia, la più piccola delle tre sorelle Graziadei che, come Ada, quella immediatamente più grande, non sa però comprendere quale sia il suo desiderio al di fuori della parola definitiva del padre che l’ha battezzata – questo, a differenza di Ada – non soltanto “volonterosa”, bensì persino pienamente dotata. Eppure la scelta di adoperare codici naturalistici non è sufficiente a ridurre l’opera al suo formalismo naturalista: se c’è verismo, infatti, o, come hanno sostenuto alcuni critici, retaggio documentaristico, è solo nell’adozione di codici realistici sorvegliatissimi, ma la drammaturgia, se proprio vogliamo, è invece segnata, forse anche sorretta, da secca poeticità, da un lirismo scabro perché scabroso, e scabroso perché esige la cautela e l’economia espressiva sempre necessarie quando si maneggia la materia delicata dei sentimenti, dei loro capitomboli e delle loro capitolazioni di fronte al linguaggio, alla sua imprecisione, alla sua impossibilità di significare e dire tutto.
Nel film, c’è anche un fuggitivo siciliano – disertore? In Vermiglio non si apostrofa nessuno, non si incidono marchiature: l’unico a scolpire la sentenza è appunto il padre-maestro, dispensatore di epiteti – da nascondere nella stalla e con cui scambiarsi furtivi bigliettini d’amore, meglio se illetterati: l’ha portato il cugino grande, che forse sa qualcosa di quello ‘straniero’, ma, anche sapendo, non dice, mantiene il segreto. Anche di segreti, in Vermiglio, ce ne sono; sono segreti piccoli, candidi: la ragazzina sessualmente indeterminata che sente che non potrà essere sposa, come la sorella più grande, né mente, come la più piccola ‘prescelta’ del padre, quel padre che lei pure imita, compulsando in sua assenza il suo album pornografico chiuso in un cassetto, imparando come lui, e come Virginia, la maschiaccia ribelle da cui è affascinata – di un innamoramento che è anche rispecchiamento narcisistico per trovare un’identità possibile, nel vuoto di desideri che gli altri le hanno scavato attorno –, a fumare per sublimare il desiderio di baciare o di mordere.
Vermiglio è un film sull’impossibilità dell’incontro tra uomini e donne, sulla liberazione che segue la delusione femminile quando cade la maschera della potenza maschile
Dal bacio al bel soldato che Lucia, la grande, non ha saputo – voluto? – fermare e che l’ha trasformata in una sposa in grigio con un ‘dono’ nascosto al sacrificio di Ada, la mezzana, che si accantuccia per strofinarsi, alla protesta accennata da Flavia, la piccola, per un destino imposto dall’alto dell’onniscienza paterna fino al desiderio della madre delle tre ragazze, e di molti altri figli maschi, desiderio che a ogni parto si rinnova per un figlio per lei irripetibile, unico tra tanti, Vermiglio ci mostra lo scandalo della ‘differenza’ femminile da un maschile che ha ugualmente molti modi per incarnarsi, alcuni segretamente dispotici, alcuni segretamente sensibili, e che tuttavia resta radicalmente alieno alla vita delle donne, quella vita che genera sempre altra vita, se non per forza di una creatura – un “pop”, forse la parola pronunciata più di frequente nel film –, di altre possibilità di sé stesse in cui spesso la voce propria si indebolisce perché quella dell’uomo è comunque troppo forte o, al contrario, troppo flebile, troppo reticente. Asimmetrica rispetto all’attesa, inadeguata a una promessa mai formulata, eppure inconsciamente custodita.
Il Padre-Maestro, ambiguo patriarca, profeta a cui non si può replicare, compra dischi con cui “nutrire l’anima” – e gli fa idealmente eco il commento di uno dei suoi figli più piccoli che chiede cosa sia quell’anima che ha fatto volare in cielo il fratellino neonato – mentre la moglie conta le patate con cui sfamare le bocche dei loro bambini e, se il primo non versa una lacrima per i figli persi, perché tanto, come dice il medico, “si possono comprare di nuovo“, la seconda sa che ogni figlio è diverso e irrisarcibile: l’egoismo cinico di lui, mascherato da superiorità intellettuale, fa il paio con l’abilità manipolatoria che tuttavia talvolta presta il fianco all’insubordinazione della moglie, del figlio Dino – per il genitore “un asino” o “un ladro”, e solo perché non è la sua copia – o della figlia Flavia che, forse proprio grazie alla “testa” con cui l’ha inappellabilmente identificata, è in grado di sbertucciare i limiti del padre altisonante che allucina un’altezza che non ha.
Le altre versioni di mascolinità, quelle incarnate da Pietro e dal cugino Attilio, sono al contrario castrate dall’afasia: benefica, quando permette all’amore di emergere libero, e tenero, e animale, dalla contaminazione del linguaggio – a rivelarli, i segreti, pesano; non si può far più finta che non siano stati detti –; venefica, quando quella stessa parola che, non detta, aveva evitato l’aborto dell’amore, o la sua morte, la fine del sogno di una perfetta beanza, detta, avrebbe evitato la morte tout court, la fine letterale di una vita. Insomma, in Vermiglio, la rappresentazione del maschile si lega inevitabilmente a una delusione in fondo salvifica perché seguita dalla comprensione, rasserenata o scorticante che sia, che anche la fanfaronata fallica è la maschera di una fragilità, fragilità che le donne non sentono di dover mistificare o giustificare, che non le interroga mai: gli uomini tuttavia sono e restano uomini sia che scelgano di fare gli uomini sia che si rifiutino di farlo, scappando, riducendosi a buona a nulla, mentendo, tacendo, facendosi scegliere e non scegliendo a loro volta. In ogni caso, l’incontro pieno, pienamente felice e beato, tra donne e uomini è impossibile. L’urto con questa verità irretisce la vita delle donne per un po’, la blocca o la sbianca, ma poi, e Vermiglio ce lo mostra, la vita delle donne riprende. Il nome del bambino che non si sa ancora se sarà maschio e femmina viene ricamato sul bavero di un vestitino declinato al maschile: se poi è femmina, basterà aggiungere una gambetta per trasformare la o in a. Ma Maura Delpero sa, e con lei il film, che essere donna è molto più, e molto altro, che un trattino posticcio aggiunto a un segno maschile.