Videogame e Cinema di Genere – Una storia d’amore
Sono molti i fili rossi che collegano il cinema al videogame, molti di questi fili si intrecciano per dare vita ad un solido e robusto intreccio di interscambio stilistico e mediale. Dalla drammaturgia all’uso dell’attore, il videogame si è spesso ispirato alla settima arte, utilizzando questo stretto legame per dar vita ad una nuova estetica e ad una nuova forma espressiva. Un aspetto che spesso viene ignorato, o comunque viene ritenuto di poca importanza, è quello che lega alcuni storici videogiochi al cinema di genere.
Durante lo sviluppo del linguaggio videoludico, infatti, vi sono stati tre momenti caldi in cui il videogame ha attinto a piene mani al cinema di genere: la prima parentesi di questo legame è rintracciabile durante l’esplosione dell’arcade all’inizio degli anni ottanta. In questi anni il genere entra prepotentemente nel medium videoludico.
Cosa accomuna il videogame al cinema di genere?
Questa tendenza viene inaugurata dal primo grande autore della storia dei videogame, Shigeru Miyamoto, padre di giochi come Super Mario e The Legend of Zelda, che è tra i primi ad assimilare idee dall’immaginario cinematografico di genere: il risultato è Donkey Kong (1981), ispirato al King Kong del 1933, diretto da Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, e al successivo remake del 1976, diretto da John Guillermin. Questa ispirazione si palesa chiaramente all’inizio del gioco, in cui è presente un’animazione preliminare in cui il gorilla scala un palazzo, portando con sé la ragazza rapita, ricalcando la medesima situazione che vede King Kong scalare l’Empire State Building nelle due opere cinematografiche. Difatti la Universal Studios non gradisce affatto tale operazione e avvia un’azione legale contro la Nintendo per plagio, poi conclusasi con la vittoria dell’azienda nipponica, la quale riesce a dimostrare che i diritti del personaggio non erano detenuti dalla Universal, poiché ideato oltre quarant’anni prima.
Negli stessi anni a pescare formule vincenti dal cinema di genere è anche l’Irem Corporation col suo Kung-Fu Master (1984), opera celebre per aver introdotto nei giochi beat ‘em up la difficoltà crescente dei nemici, basata sulla sconfitta dell’avversario e il successivo avanzamento di stage. Il gioco viene pubblicato come tie-in del film d’azione Il mistero del conte Lobos (1984, con Jackie Chan), anche se la struttura di gioco viene ispirata da L’ultimo combattimento di Chen (Game of Death), un film scritto, diretto ed interpretato da Bruce Lee, ma lasciato incompiuto a causa della sua morte improvvisa, e riadattato dal regista statunitense Robert Clouse nel 1978. Dietro i combattimenti di Lee si cela una forte componente filosofica e nella sceneggiatura sono individuabili svariati elementi autobiografici. Il protagonista, Billy Chen Lo, un affermato attore cinematografico e campione di arti marziali, per raggiungere il proprio obiettivo è chiamato ad affrontare degli avversari sempre più forti all’interno di una pagoda: salire i vari piani corrisponderà ad un’ascesa spirituale per la quale il protagonista dovrà lottare più con sé stesso che contro i suoi nemici. Questo tipo di immaginario viene perfettamente ricalcato in Kung-Fu Master che diventa una vera e propria pietra miliare dello sviluppo videoludico.
Kung-Fu Master e Donkey Kong racchiudono appieno lo spirito che si respira nelle sale arcade in quegli anni, in cui prende vita il mito di poter interagire con personaggi appartenenti all’Olimpo della settima arte.
La crisi e l’evoluzione portano il videogame su altri binari, fino a quando all’inizio degli anni novanta la grafica tredimensionale e l’introduzione dell’attore – attraverso il doppiaggio e la motion capture – rafforzano il filo rosso tra videogame e cinema. Hideo Kojima, da grande appassionato di cinema, è subito attratto dalle potenzialità tecniche della prima Playstation e dalla possibilità di poter costruire una drammaturgia dai tratti archetipici di genere: nasce così Metal Gear Solid (1998), un’opera dotata di una sceneggiatura imponente per l’epoca. Lo svolgersi della vicenda è incalzante, la realtà dei fatti è costantemente coperta da un gioco di spionaggio che ricorda da vicino le prime pellicole dedicate al personaggio di James Bond, anche se l’ambientazione futuristica e gli elementi di fantapolitica lo rendono più facilmente affiancabile ad opere come 1997: Fuga da New York (Escape from New York, 1981) di John Carpenter e al sequel Fuga da Los Angeles (Escape from L.A., 1996). Infatti il debito stilistico di Kojima è pagato in continuazione attraverso omaggi e citazioni: ad esempio in Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty (2001) Solid Snake si camuffa da soldato semplice e, per non farsi riconoscere, utilizza lo pseudonimo di Iroquois Pliskin, omaggio al protagonista dei due film di Carpenter, Snake Plissken (nella versione italiana Jena Plissken). In generale in tutta la saga di Metal Gear i personaggi di Solid Snake e Big Boss sono ispirati a Snake Plissken, dal carattere irascibile al vizio del fumo, dalle azioni in solitario al look.
Un altro game designer decisamente ispirato dal cinema di genere negli anni novanta è Shinji Mikami. Nel 1994 è da poco approdato alla Capcom e la software house nipponica gli concede la possibilità di scrivere il concept del suo primo gioco. Mikami è un grande appassionato del cinema di George A. Romero e trae ispirazione dalle opere dell’autore statunitense, soprattutto da La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968), Zombi (Dawn of the Dead, 1978) e Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985), i primi tre film della tetralogia dei morti viventi. Mikami è infatuato dalla lettura che Romero dà al mito haitiano e decide di ricalcare il suo stile nella sua opera prima: Resident Evil (Biohazard, 1996). Il videogame rende celebre il genere del survival horror (definizione inventata da Capcom e Mikami, ma in cui sono inscrivibili alcuni esempi cronologicamente precedenti come Alone in the Dark, del 1992, gioco ispirato alle opere di H.P. Lovecraft), un tipo di approccio all’azione caratterizzato dalla sopravvivenza, con pochi oggetti a disposizione, in luoghi chiusi e inquietanti.
Nel 1999 Mikami tira fuori un altro asso dalla manica e, ricalcando le meccaniche di Resident Evil, dà vita a Dino Crisis. Stavolta ad ispirare il game designer nipponico sono due film di Steven Spielberg, Jurassic Park (1993) e Il mondo perduto – Jurassic Park (The Lost World – Jurassic Park, 1997): Mikami si appropria ancora una volta dei parametri del cinema di genere, sfruttando sia la scia di successo delle opere di Spielberg, sia il sistema di gioco già collaudato da Resident Evil.
Probabilmente oggi a dominare l’archetipo di genere attraverso il videogame sono principalmente Neil Druckmann e Bruce Straley, rispettivamente creative director e game director di The Last of Us, che nel 2013 provano a fondere il gusto diegetico interattivo a meccaniche di gioco tipiche dei survival horror in un’opera che condensa perfettamente l’estetica cinematografica a quella videoludica. L’opera, sviluppata da Naughty Dog, è un videogame post apocalittico, il cui fulcro non è l’epidemia zombie che perversa sulla terra, ma la relazione emotiva che si instaura tra i due protagonisti, ovvero “una storia d’amore con un rapporto simile a quello che intercorre tra padre e figlia” come dichiarano i creatori del gioco.
Druckmann e Straley concepiscono l’idea per The Last of Us guardando una puntata della serie BBC Planet Earth, che mostra una formica infettata da un cordyceps, un fungo che aggredisce il cervello producendo escrescenze da esso: il concetto che tale fungo possa infettare anche gli esseri umani diventa il “what if” alla base dell’universo in cui vivono i protagonisti. Maggiori ispirazioni artistiche derivano dai film Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men, 2007) dei fratelli Coen e The Road (2009) di John Hillcoat. Molte idee narrative sono inoltre riconducibili al fumetto The Walking Dead di Robert Kirkman, al romanzo di Richard Matheson, Io sono leggenda, e ai film tratti da quest’ultimo.
Gli autori di The Last of Us hanno anche preso in mano lo sviluppo di Uncharted 4, il cui legame cinematografico è portato all’estremo, provato da noi proprio in questi giorni. Qui potete trovare la recensione.
In questo articolo abbiamo solamente toccato la superficie di una tendenza che ciclicamente ha caratterizzato un gran numero di videogame, menzionando solamente opere che sono entrate positivamente nella storia del medium interattivo, ma ci sarebbero altri esempi altrettanto leggendari quanto funesti. Come l’adattamento flop di E.T. di Atari, diventato simbolo della crisi del videogame del 1983, le cui copie invendute vennero sepolte nel deserto di Alamogordo e poi ritrovate nell’aprile 2014 con degli scavi. Possiamo quindi immaginare questo rapporto come una storia d’amore, fatta di alti e bassi.
Una storia d’amore destinata a morire o a trasformarsi? Sta di fatto che oggi, al fianco a giochi intrisi di genere come Uncharted 4, vi sono videogame che si stanno comunque lentamente distaccando dall’immaginario del cinema di genere per percorrere nuove strade narrative: giochi come Journey, Ico e Okami hanno aperto una strada estetica parallela, che ha interiorizzato gli insegnamenti della settima arte e che portano il videogame verso una propria indipendenza artistica.