Willy Wonka: storia ed evoluzione un personaggio dai mille volti

Il personaggio creato da Roald Dahl ha avuto diversi volti, e dietro ad ognuno c'è un riferimento culturale...

Willy Wonka è un personaggio ideato da Roald Dahl che l’ha reso protagonista di due libri, La Fabbrica del Cioccolato (1964) e il seguito Il Grande Ascensore di Cristallo (1972): nonostante questo – o forse proprio per questo -, è un personaggio che si presta perfettamente a rispecchiare il mondo intorno a lui e i cambiamenti sociali attraverso le sue diverse incarnazioni.

Prima di tutto, pare che il cioccolatiere più famoso della letteratura abbia un suo corrispettivo reale, perché un personaggio simile è esistito e si chiamava Forrest Edward Mars Sr, fondatore della ditta Mars. Incorporated – nascono qui le famose barrette omonime, le Mars, ma anche le Bounty al cocco e le Maltesers rotonde – noto per la sua eccentricità e il suo lato maniacale.
Negli anni Sessanta Dahl lo rese immortale con la sua creazione, che ebbe poi ben tre interpreti in tre film differenti: Gene Wilder (nel film Willy Wonka e La Fabbrica del Cioccolatodi Mel Stuart, 1971), Johnny Depp (La Fabbrica del Cioccolatodi Tim Burton, 2005), e Timothèe Chalamet (Wonka, di Paul King, del 2023).

Roald Dahl: nascita di un personaggio

I libri di Dahl sono, di anno in anno, sempre più depredati da cinema e tv: dai recentissimi piccoli capolavori di Wes Anderson (La Meravigliosa Storia di Henry Sugar, Il Cigno, il Derattizzatore, Veleno) fino a Matilda e seguiti, ma anche Le Streghe di Robert Zemeckis, Il Grande Gigante Gentile di Steven Spielberg, Fantastic Mr. Fox sempre di Anderson.
Quello di Dahl è un genere facilmente riconoscibile, nel solco di quella letteratura per bambini valida anche per gli adulti grazie ad un tono grottesco che si presta per qualsiasi tipo di metafora anche su temi azzardati: e con al centro, sempre storie in cui i bambini viziati finiscono male al contrario di quelli calmi ed equilibrati, che alla fine escono vincitori.

Willy Wonka, insomma, è un brillante quanto esile pretesto per la storia: e nel libro è basso, grassoccio, con un vistoso pizzetto nero appuntito e con il viso illuminato di divertimento e risate, vestito con cappotto viola e pantaloni verdi mentre saltella come uno scoiattolo e si muove con gesti singolari. Un inventore brillante e intelligente, entusiasta, loquace e amichevole quanto affascinante.

Gene Wilder: Wonka e l’anarchica follia della rivoluzione

Nel film di Stuart (che ha avuto il solo merito di imbroccare autore e attore per il suo film che altrimenti sarebbe stato dimenticato come il resto della sua filmografia), Wonka differisce dalla sua controparte cartacea a parte che per l’altezza e l’età, ma soprattutto per l’inquietudine nascosta e scivolosa che emerge soffusa dallo sguardo liquido di quel genio che era Gene Wilder.

Perché nel film del 1971, ad esclusione del bambino vincitore Charlie, non c’è un personaggio che sia buono o completamente positivo, neanche lo stesso Wonka che non mostra nessuna pietà nei confronti dei bambini, seppure odiosi.

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Anzi, è un’opera con sussulti horror (e dalla struttura di genere, nel momento in cui i piccoli personaggi vengono “fatti fuori” uno ad uno come in uno slasher) con un ‘istinto di fondo profondamente psichedelico: per di più, con un’ambientazione tanto insolito quanto vincente, ovvero una Monaco di Baviera molto fiabesca e cromaticamente avvincente che rende la location fuori dal mondo.
Da non dimenticare che buona parte della riuscita emotiva del film viene dalla circostanza per cui molto di quello che accadeva sul set era reale: fiori, fiumi e oggetti realmente commestibili, con una valanga di cioccolato e panna fino a 150.000 litri; e Wilder geniale improvvisatore, perfetto a restituire un personaggio così ambiguo da essere davvero imprevedibile, come nella sequenza in cui esce dalla sua fabbrica per salutare i vincitori del Golden Ticket zoppicando facendo credere a tutta la troupe che si fosse davvero infortunato.

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Mentre invece fingeva tutto. Willy Wonka e la Fabbrica del Cioccolato è insomma perturbante e sinuoso, con una ironia profondamente crudele e cinica, che lo rende più adatto o meglio più fruibile da un pubblico adulto.
Dahl era autore anche della sceneggiatura del film, ma non mise la sua firma per disaccordi con la produzione: quello che era venuto fuori, alla fine, era un film su Willy Wonka, e non sui bambini come voleva lo scrittore. È per questo che non concesse mai i diritti di sfruttamento per il seguito.  

Jhonny Depp: Wonka e la finta trasgressione

Nel film di Stuart, non viene mai chiaramente precisato che i bambini perdenti abbiano lasciato la fabbrica del cioccolato vivi: uno sforzo di immaginazione pura e spaventosa, in perfetta controtendenza rispetto a quanto succede oggi con la cultura woke sovrastante in fin troppe produzioni mainstream. Quando nel 2005 Burton decide di riprendere il personaggio creato da Dahl, sceglie un Johnny Depp reduce dai suoi primi flop, in mezzo al primo grande cambiamento della sua carriera.

L’attore, infatti, si era costruito un percorso perfetto a cominciare da Edward Mani di Forbice (1990), vero e proprio capolavoro di Tim Burton, elegia dei perdenti e dei dropout che Depp prenderà a modello per i suoi futuri ruoli. Buon Compleanno Mr. Grape(1993, di Lasse Hallstrom), Ed Wood(1994, sempre di Burton), Dead Man(1996, di Jim Jarmusch), Paura e Delirio a Las Vegas(1998, di Terry Gilliam): sono solo alcuni dei suoi film, in un decennio – gli anni Novanta – che lo vede protagonista assoluto prima della scena indi, poi di produzioni via via sempre più importanti anche e soprattutto proprio per la sua presenza.

Ma si sa, più in alto sali più forte è lo schianto. Già il fiasco nel 2001 del Blow di Ted Demme era stato un brutto colpo: c’è poi La Maledizione della Prima Luna (di Gore Verbinski) che va bene al botteghino ma per la critica e i fan va in controtendenza con il mood di Depp, abituato a ruoli più oscuri. Il remake del film di Stuart arriva allora proprio mentre l’interprete preferito del genio di Burton deve rifarsi una carriera: e così è, perché il cambiamento di rotta si consolida (con i sequel del film del pirata Jack Sparrow e tanto altro), anche se quel fascino maudit degli inizi è definitivamente sparito.

La Fabbrica del Cioccolato è comunque un progetto rischiosissimo: perché a parte la fama di cult assoluto del film originale, il libro di Dahl oltreoceano è amatissimo, così come il personaggio, quasi al pari di Mary Poppins. Anche la carriera di Burton, in quel periodo, non attraversava un buon momento, impigliata nello stesso bacino popolare (insieme ad un discorso sullo storytelling) sul quale vuole invece fare leva. Il film segue allora un doppio percorso: da una parte, aderenza ossequiosa all’originale filmico, dall’altra innesta novità che cercano di essere in linea quanto più possibile.

L’estetica del regista è sempre cresciuta sulla poetica della deformità: in questo film del 2005 è però declinata in versione bonaria e con un impulso alla baracconata straripante ed eccessiva, al punto da trasfigurarsi in altro. L’anima del progetto sarebbe dovuto essere proprio Johnny Depp, che con la sua versatilità avrebbe dovuto interpretare l’ennesimo freak.
Ma la prova risulta sottotono, perché l’ambiguità del Wonka wilderiano (visto che oramai è quello il prototipo cinematografico, essendo come abbiamo visto il carattere letterario esile e invisibile) è lontana se non irraggiungibile, mentre l’attore ammicca al dark ma lo evita, prova ad esagerare ma si frena, vagando con insipido candore distribuendo battutine moscette alternate a sguardi stralunati.

Il Wonka di Depp nasconde un politico dietro…

La natura irrisolta del personaggio è chiaramente lo specchio di un film nato per il pubblico: con una storia che avrebbe dovuto perfettamente incarnare le ossessioni burtoniane ma alla prova finale rimane in superfice, costruendo un’opera a tema che cerca di conquistare un mercato quanto più possibile trasversale.
Per questo Depp non basta e affonda con tutta la nave: basta pensare alla finta problematicità aggiuntiva del personaggio (Burton inventa un conflitto irrisolto con il padre dentista che lo allontanava dai dolci), risolta senza un vero percorso in un finale posticcio e riappacificatore sulla necessità di chiudere le trame in un timing congruo.

Timothèe Chalamet: Wonka e il perbenismo ammaestrato

Insomma, anche se La Fabbrica del Cioccolato riesce in parte ad eccitare la critica con il suo felice sovraccarico citazionista, tramutandosi (inconsapevolmente o meno) in una magnifica, onirica sfilata felliniana di straordinari visi e vizi; Willy Wonka appare sempre più slegato dal suo contesto, sempre più personaggio centrale autoreferente.
Se quindi la situazione era così nel 2005, dopo quasi vent’anni di aggiustamenti di carreggiata, sceneggiature politicamente corrette e pistolettate woke, Wonka del 2023 è un tuffo nel vuoto, in un meccanismo ectoplasmatico che si riempie di tanto costruendo sul niente.

Wonka: guida al cast del film!

Il personaggio rifatto malamente da Chalamet ha perso definitivamente ogni suo motivo di essere: non più vicino al modello di Dahl, non più vistoso come quello di Depp, men che meno ambiguo e/o inquietante come quello di Wilder. Rimane un manichino senza peso, longilineo e flessuoso, che vola leggiadro tra una CGI e un’altra, smantellando la perturbante goffaggine del cioccolataio per eccellenza.
Là dove Wonka si muoveva disarticolato per essere sorprendente, Chalamet è aggraziato e vellutato; là dove c’era lo sguardo sardonico quanto enigmatico, nel 2023 risaltano due occhi semichiusi e piacioni; e dove il caschetto squadrato di Depp richiamava ad un personaggio costretto in qualcosa di innaturale, qua c’è l’acconciatura di un Wonka modaiola e civetta.

Wonka è un musical sotto mentite spoglie: non c’è meraviglia nelle prelibatezze al cacao del protagonista, addirittura in una sequenza che appare quasi di sbieco si svelano i trucchi del prestigiatore (peccato mortale e, qui, morale). Timothy Chalamet è un belloccio fuori luogo che non sa ma neanche vuole essere minimamente problematico o addirittura cattivo come Wilder o Depp; un’ombra colorata che canta a bocca chiusa senza neanche sforzarsi di mimare un playback, perché non c’è neanche più la voglia di stupire, neanche più la capacità di nascondere la magia. Il meccanismo, l’algoritmo, è svelato non noncuranza, tanto il pubblico ammaestrato accorrerà ugualmente.
Non è un caso se Wonka esce nei giorni in cui Bob Iger, CEO della Disney ammette che la deriva woke ha trasformato i film in manuali di buonismo progessista, con esempi talvolta forzati di inclusione, personaggi gender fluidi e cliché tipici del politicamente corretto.

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