Come faremo senza Woody Allen? Il genio e il suo, prossimo, ultimo film
Il genio di Manhattan ha annunciato un suo possibile ritiro dal cinema
Woody Allen, sul set del suo film n. 50, ha dichiarato che questo potrebbe essere il suo ultimo film.
Nel suo strano e frastagliato percorso, pubblico e privato si intrecciano inesorabilmente e imprevedibilmente, per uno dei geni indussi del cinema moderno, autore di almeno dieci capolavori e regista instancabile: ma proprio mentre è in Europa per girare il suo cinquantesimo lunometraggio, dichiara che questo “september project” (titolo provvisorio di lavorazione per ogni sua pellicola, giustificato dal fatto che lui gira quasi sempre in autunno) potrebbe essere l’ultimo, decidendo di volersi dedicare alla scrittura.
Leggi qui le dichiarazioni di Woody Allen
Sicuramente, una perdita enorme per il cinema e la cultura
Dopo Elisabetta, Jean-Luc Godard, David Bowie e Michail Gorbaciov, sembra che il Novecento ci stia morendo addosso: speriamo allora fino all’ultimo che il proclamo di Allen sia una provocazione, o più probabilmente lo sfogo di un artista assediato da tanti anni a questa parte che non regge più una pressione mediatica che esonda i suoi (eccellenti, altissimi) risultati cinematografici per toccare la sua vita privata oltretutto in maniera oscena, furiosa, fuori luogo e quel che è peggio bugiarda.
Ma andiamo con ordine.
Genealogia sessuale
Woody Allen è uno di quei (pochi) registi divenuti iconograficamente celebri in tutto il mondo non soltanto per la loro opera ma per la loro stessa immagine -novero nel quale possiamo inserire anche solo forse Dario Argento e Alfred Hitchcock.
Questo ha fatto si che la sua notorietà si allargasse a dismisura, e che per fortuna o purtroppo chiunque, sapendo chi fosse anche solo per una calligrafica conoscenza del volto, si sentisse in dovere di esibire la propria opinione sul suo cinema.
Cinema che molto spesso, o quasi sempre, e nonostante i suoi tentativi di negarlo, ha portato sullo schermo gli intrugli della sua vita personale, le pericolose derive emotive e sessuali.
Dopo due relazioni celebri, la seconda delle quali con un’attrice di talento unico e vulcanica espressività come Diane Keaton, Allen intreccia un rapporto con Mia Farrow nel 1980. All’epoca, la donna era reduce da due matrimoni falliti: con Frank Sinatra -marito più grande di lei di ben trent’anni- e con Andrè Previn -di “soli” sedici anni più vecchio-, che le avevano portato quattro figli adottivi tra cui Soon-Yi Previn di sei o otto anni (non si conosce la sua data di nascita precisa) e Moses Farrow.
Allen e Farrow, mai sposati né conviventi, continuarono a vivere nei loro rispettivi appartamenti ai lati opposti del Central Park: e nel 1985, Mia decise di adottare Dylan, appena nata. È invece del 1987 il primo e unico figlio biologico tra i due, Ronan.
Che inizialmente si chiamava Satchel O’Sullivan Farrow, per evitare che fosse l’unico a portare il nome Allen davanti agli altri fratelli che per il padre Woody erano tutti uguali; e che da più parti, nel corso degli anni, è stato al centro di numerosi pettegolezzi che lo volevano in realtà figlio di Sinatra, a cui lo legava una grande somiglianza fisica e che era stato, fino alla sua morte, molto amico dell’ex moglie.
Tutto questo noioso preambolo genealogico per arrivare alla conclusione che Allen e Soon-Yi non avevano nessun legame biologico, e mai avevano vissuto da padre e figlia, neanche nella stessa casa: eccessive e pretestuose le accuse di incesto quando nel 1992 si scoprì che avevano intrapreso una relazione.
La relazione quindi finì con una Farrow avvelenata dal rancore che iniziò una battaglia legale per l’affido di Moses, Dylan e Ronan: fu proprio Woody però a chiedere la custodia quando il pediatra dei bambini denunciò presunti abusi sessuali dell’uomo nei confronti della piccola Dylan. L’indagine che ne seguì, operata dall’Ospedale di Yale-New Haven e dai servizi sociali infantili dello stato di New York, arrivò alle conclusioni che non ci furono molestie sessuali.
Leggi anche La docu-serie di HBO pro Farrow
Ombre e nebbie su Woody Allen
Questa bufera mediatica non intaccò la fama e la notorietà di Allen: anche se, va detto, nei primi anni Novanta non c’erano i social ad inquinare tutto, e non c’era il web a rendere nota ogni inezia in un secondo in tutto il mondo.
Eppure, è proprio in quella frattura che si inserisce la nuova fase del cinema di Allen, la terza dopo gli esordi -più o meno dal 1965 al 1975, Amore e Guerra (Love And Death)- e la consacrazione -da Io & Annie (Annie Hall) del 1977, a Ombre e Nebbia (Shadows And Fog) del 1992-, che accentua un disincanto che diventa cinismo, che a sua volta si trasforma in tragedia.
Dopo che tutti i tribunali e ogni giudice adito ha comunque scagionato Woody da qualsiasi accusa di abuso sessuale, non si può dire che per lui sia tutto finito.
Perché arriva il nuovo secolo, che lui attraversa artisticamente indenne con quella trilogia-capolavoro assoluta ed apocalittica formata da Hollywood Ending (2002), Anything Else (2003) e Melinda & Melinda (2004) dall’ironia icastica, acuta e sottilissima che confluirà in Match Point (2005); che con le sue ventate postmodernista scoperchia anche altarini e segreti con il #metoo.
Un movimento che ha suscitato fin dall’inizio entusiasmo ma anche diffidenza: e che è sicuramente servito nel percorso verso una società realmente egualitaria, ma che purtroppo come tutte le mobilitazioni di massa si è prestato a strumentalizzazioni ottuse e per certi versi addirittura dannose alla credibilità del movimento stesso.
Le ragioni del #metoo sono di natura tutt’altro che spettacolare, anche se a volte il clamore serve o è servito a destrutturare una società vecchia dai meccanismi opprimenti; e dovrebbe servire a lasciare a chiunque la libertà di potersi sentire in diritto di ribellarsi a uno stato di cose malsano e illecito senza nessun tipo di paura di ritorsioni.
Nel caso di Woody Allen, tornato nel centro del mirino proprio perché chiamato in causa dal #metoo e da dichiarazioni prevalentemente opportunistiche (come quella di Kate Winslet), si è trattato purtroppo di occasioni a personaggi e attori di aderire ad una moda coprendosi del fregio di stare dalla parte del giusto, come paladini dell’etica, quando altro non sono che dubbi moralisti.
Le dichiarazioni di Kate Winslet per ripudiare il set con Allen
A proposito di questo
A Proposito Di niente (ed. La Nave di Teseo) è l’autobiografia di Allen uscita nel 2021, che mette un punto alle polemiche. È certo un punto di vista soggettivo e quindi inevitabilmente parziale: ma è anche piena, oltre a tanto altro, di innegabili fatti giudiziari e legali che avrebbero dovuto mettere a tacere voci e dicerie.
Quel che le parole -brillanti, irresistibili, emozionate, sempre precise e lucidissime- restituivano dell’autore era però un uomo realmente stanco, demotivato, deluso da uomini e cose e da uno showbiz che non perdona.
È più o meno dall’ultimo decennio che la filmografia di Allen si costella di lungometraggi che sono divertissement di gran classe, recitati benissimo e scritti ancora meglio, e che come al solito non disdegnano di inabissarsi in vertiginose profondità d’animo.
Alla luce oggi delle sue ultime dichiarazioni (che però, a onor di cronaca, sono letteralmente meno pessimistiche di quanto tanta stampa vuole far capire: “La mia idea è di non realizzare più film e concentrarmi sulla scrittura” dice lui, senza quindi appendere definitivamente la macchina da presa al chiodo), occorrerebbe una volta per tutte spezzare quell’indolenza critica che ultimamente copre i suoi film e il suo sguardo.
Contestualizzando i suoi ultimi lavori -che vanno più o meno dal 1993 e Misterioso Omicidio a Manhattan (Manhattan Murder Mistery) in poi, giudicandoli per la loro rilevanza all’interno dell’immaginario e della poetica alleniana e individuarne la funzione non solo autoriale ma anche sociale e culturale. Al riparo da pettegolezzi e cattiverie.
Evolvi o muori
Dei dodici film fatti da Allen fra il 2002 e il 2014: in tre casi gli attori sono stati candidati agli Oscar, due hanno ottenuto la statuetta (Cate Blanchett e Penelope Cruz); tre dei suoi copioni sono stati candidati all’Oscar nella categoria “miglior sceneggiatura originale”, e Match Point l’ha vinta; Midnight in Paris è stato candidato come miglior film; e sommando alla fine tutti i premi e le candidature agli Oscar, ai BAFTA, ai Golden Globe, agli Screen Actors Guild Awards e ai Writers Guild Awards, i film di Woody hanno ricevuto 199 candidature e 131 premi. E attualmente, con le sue 16 nomination come sceneggiatore e 7 come regista, è terzo pari merito come numero di candidature alla regia.
Anche le pietre lo sanno: Allen nasce come dialoghista comico, imponendosi subito e restando immediatamente nella storia per quella sua comicità (oggi stravista e quasi banale) yiddish e intellettuale, grottesca e surreale insieme.
Sono più di quattro le decadi coperte dai suoi film, da quel primo Prendi I Soldi E Scappa fino al portentoso La Ruota Delle Meravigliee l’ultimo, incompreso Rifkin’s Festival, una sorta di smaccato & ½ in chiave alleniana, testimonianza prodigiosa si un regista fortemente vivo e vitale, la cui visione del cinema continua ad essere lucidissima e precisa e addirittura riesce anche a stupire con sinuosi movimenti di macchina, grazie anche alle luci avvolgenti e cangianti di Vittorio Storaro.
Ad ogni modo, il suo cinema, come dicevamo, è ben legato all’attualità ed è un lungo percorso di riflessione su un unico personaggio che prende su di sé passaggi esteriori e paesaggi interiori: che poi sia la storia americana o la Storia di ogni uomo dipende dall’angolazione da cui ogni film si vuole o si deve guardare.
Sbagliando, i media, dopo le tormente sentimentali e legali di sopra, hanno spostato l’attenzione (anche di quel pubblico distratto e talebano di cui sopra) dall’arte al privato, depistando e decentrando la critica ufficiale: e il cambiamento, a volte repentino, dell’Allen regista, attore e artista, ha contribuito al “grande fraintendimento”: che cioè il suo cinema, più o meno varcando gli anni Duemila, si sia stancato e abbia intrapreso la china discendente. Niente di più sbagliato.
Anzi, stessa identica presa di posizione di quando verso la fine degli anni Settanta il regista di Manhattan passò dalla comicità pura di Il Dormiglione al dramma interiore di Interiors (1978). Ma appunto, evolvi o muori, e Allen l’ha fatto. Arrivando, negli anni Dieci, a sfornare ben tre capolavori come appunto il citato La Ruota Delle Meraviglie, Blue Jasmine e Irrational Man.
Insomma, i 49 film che vedono la sua regia sono un corpus unico e irripetibile, frutto di un genio del Cinema che non smette di stupire, di evolversi, di maturare e di mostrare cosa sia il cinema, purissimo.
I film “incriminati” vedono come capofila Criminali Da Strapazzo, La Maledizione Dello Scorpione di Giada, Hollywood Ending: film minori in effetti, ma divertissement che rappresenta(va)no la pacificazione esistenziale dell’uomo Allen dopo le tempeste sentimentali degli anni passati.
Eppure già dal successivo, Anything Else, un geniale sliding doors sui generi, i detrattori sono clamorosamente smentiti, per non parlare poi dei capolavori successivi, come Match Point e Sogni E Delitti, (che bello il titolo originale, Cassandra’s Dream) straordinari recap di una poetica che continua a declinare le sue fondamenta (vita e rappresentazione, dramma e commedia) in vista del totem emotivo su cui Allen sta costruendo la sua filmografia di oggi: l’illusione.
“L’uomo ha bisogno delle illusioni come dell’aria che respira”, dice la voce off sul finale di Incontrerai L’Uomo Dei Tuoi Sogni (You Will Meet A Tall Dark Stranger, 2010): proprio le illusioni sono diventate il mezzo fondamentale e unico attraverso cui riuscire a vivere e anzi sopravvivere nel mondo. L’ebreo errante intellettuale di Manhattan (id., 1979) e Hannah e Le sue sorelle (Hannah & Her Sisters, 1986) oggi non ha che due alternative: abbandonarsi ad atti vandalici e alla violenza più insensata verso una società che l’ha sempre respinto, come accade in una delle scene più insoliti ma più significative dell’intero corpus alleniano all’interno del film Anything Else; oppure crogiolarsi nel suo essere un dinosauro sopravvissuto in un’era che non gli appartiene ormai più, come in Basta che Funzioni (Whatever Works, 2009).
Per il resto, senza le illusioni, c’è solo una giungla dove la sopraffazione è la regola, come in Match Point (id., 2005), dove il “povero” Chris, abbandonato ogni sogno d’amore per una vita di agi e ricchezze accanto ad una moglie di cui non è mai stato innamorato, decide di uccidere -metaforicamente e materialmente- ogni sogno e ogni desiderio, sparando alla donna che invece ama.
Se si scruta a fondo alla Vita per poterne carpire il Senso (che, come tutto il suo cinema ci ha insegnato, secondo Allen non c’è), non si fa altro che scrutare “nietzschianamente” in fondo all’abisso, facendo quindi in modo che anche l’abisso scruti in noi, osservando nello stesso momento lo svelamento dell’orrenda e vertiginosa vacuità del Male.
Successivamente a queste derive laceranti e amare da un punto di vista etico, nei film di Allen sembra (ri)tornare la “pace”, attraverso un venire a patti con l’esistenza solo accettando di vivere illudendosi di avere ciò che invece non si avrà mai. E’ il motivo per cui le ultime produzioni alleniane si sono fatte più solari e meno desolate: sono esemplari, in questa direzione, due piccoli gioielli come Midnight In Paris (id., 2011) e To Rome With Love (id., 2012).
Da Allen con amore
Midnight in Paris, acclamato fin dalla sua presentazione allo scorso Festival di Cannes, è un film leggero e soave, intenso e soffuso, malinconico senza essere mai triste, un bellissimo trattato sul sogno e sulla nostalgia, intrecciando Arte e Vita come al solito e mostrando come l’Una debba essere ineluttabilmente intrecciata con l’Altra.
Il film è perfetto nella sua insostenibile levità, per come invita lo spettatore a perdersi nelle strade piovose di una Parigi mai così romantica: ma contemporaneamente, mostra che se il presente non sembra il posto ideale dove vivere, è solo questa insoddisfazione a renderci incapaci di rimetterci sempre in gioco alla ricerca di quello che non c’è, quello splendido nulla che ci ostiniamo a chiamare “felicità”. In pratica, bisogna saper sognare e saper vivere pervicacemente in quel sogno per riuscire a vivere bene.
Massima di vita che sembra suggerirci anche To Rome With Love, inspiegabilmente malvisto dalla critica per aver dato di Roma un’immagine stereotipata, ma dove un evidentissimo filo rosso lega le storie messe in scena, e che a sua volta lo lega agli ultimi di Allen: il sogno come unica strada per la felicità.
Le bugie che ci raccontiamo ci salvano oggi da una realtà nella quale non riusciamo più a riconoscerci, o che più semplicemente rifiuta di integrarci per quello che siamo nel profondo. E in fondo lo dice anche Justin Timberlake, in La Ruota Delle Meraviglie per bocca di Eugene O’Neill: ci raccontiamo bugie per poter vivere.
Proprio Wonder Wheele sembra un’ulteriore approdo che percorre le stesse strade e mostra paesaggi diversi: con quell’immagine finale che nega ogni possibilità di happy end, quasi a negarlo a tutto il cinema rincorrendo da vicino Antoine Doinel in riva al mare e mostrandone invece il riflesso oscuro, quell’infanzia negata che produce una rabbia che brucia tutto intorno a sé. Figlio di un padre dissolto in un rullo di tamburi e di una madre irrimediabilmente persa nell’illusione di un passato perduto e di un presente negato.
Partendo allora dal Virgil Starkwell di Prendi i Soldi e Scappa (Take the Money and Run, 1969), passando per il Cliff Stern di Crimini e Misfatti (Crimes & Misdemeanors, 1989), e finendo alla nominata, portentosa Virginia di La Ruota Delle Meraviglie, è questo l’approdo ultimo del drop-out ebreo intellettuale alleniano, sempre contro e sempre “fuori” da ogni coordinata sociale, come ancora Gatsby Weeles .nomen omen- alias Timothèe Chamalet in Un Giorno di Pioggia a New York (2019) e Louis Garrell in Rifkin’s Festival.
Sempre più preoccupato ad inseguire i propri sogni trasfigurando una realtà indifferente in un luogo felice. Che, appena trovato, già non c’è più.