Gigi Proietti, ragazzo di periferia, del mistero e della rivoluzione a teatro
Noto al grande pubblico per il ruolo di 'Madrake' in Febbre da cavallo, Gigi Proietti è stato soprattutto uno straordinario uomo di teatro, se per 'teatro' intendiamo un modo d'essere che fa del gioco – e della libertà – il suo perno.
Del suo giorno di nascita, il 2 novembre, giorno in cui si ricordano e celebrano i defunti, diceva sempre «nun è il massimo, ma che ce voi fa’», e, chissà, se essere morto, a causa di un grave scompenso cardiaco, proprio nel giorno del suo ottantesimo compleanno, proprio il 2 di novembre natale, non lo farebbe sorridere, oggi, se solo potesse saperlo. Del resto, per gli Ebrei, chi se ne va a ridosso del proprio compleanno – un po’ prima, un po’ dopo, il giorno stesso – è considerato un giusto.
E Gigi Proietti giusto lo era senza dubbio, perlomeno nel mondo dello spettacolo a cui un’enormità di occasioni di riso e riflessione ha dato nei suoi sessant’anni e più di carriera (ha debuttato, appena quattordicenne, in un film di Vittorio Duse) da soggettista, attore, regista, direttore artistico, tra spettacoli di cabaret, commedie, recite d’opera, lungometraggi, sceneggiati tv, one-man-shows, drammi musicali, conduzioni televisive, doppiaggi.
Il Tufello, primo e unico maestro di vita
Cresciuto al Tufello, quartiere selvaggio e rutilante della periferia nord di Roma, dove si sentiva l’odore della povertà «misto al sugo della domenica», era figlio di un portiere-tuttofare di origini umbre. Il padre, emigrato giovanissimo da Porchiano del Monte, non esattamente una metropoli, aveva trovato fortuna – si fa per dire – nella capitale, dove si era messo a servizio di una famiglia di ascendenze aristocratiche. Di lui Proietti ricordava che non aveva mai perso le sue abitudini da umbro, la passione per la cacciagione e per le parti meno nobili dei pollami, che il pollivendolo avrebbe gettato volentieri e che invece lui ricercava, raccoglieva, mangiava: testa e zampe del pollo erano solite asciugarsi al sole nel balcone di casa Proietti, esche ingannevoli di un’abbondanza alimentare che, in verità, non esisteva.
La madre, Giovanna Ceci, proveniva, invece, da una famiglia di pastori della zona di Rieti. Trasferitasi a Roma per fare la domestica, oltre al lavoro nella città eterna trovò l’amore, quell’amore da cui sarebbe nato, nel 1940, proprio Luigi detto Gigi. Al tempo, nel primo dopoguerra, non era inconsueto che ragazze e ragazzi nel fiore degli anni lasciassero la provincia, i borghi, i recessi sperduti del Paese per riversarsi a Roma a prendere servizio nelle case delle famiglie alto-borghesi o patrizie dell’Urbe.
L’inquietudine giovanile e la fatica di trovare ruoli da protagonista
Sebbene proveniente da un ambiente famigliare e sociale umile, digiuno di cultura e di teatro, gli inizi di Gigi Proietti, quando ancora era più formalmente Luigi, furono all’insegna della tradizione e dell’accademia: cominciò, da comprimario, a misurarsi con i titoli del teatro classico o classico moderno – i Greci, Shakespeare, Ibsen, Brecht – e, per questo, non del tutto a suo agio nella palude della drammaturgia più reverenziale, cominciò a sentire desiderio d’altro, anche se, va detto, i grandi classici li avrebbe, a suo modo, continuati a rappresentare. Saltò, dunque, alla sperimentazione, alle frequentazione di buie cantine in cui si tentava il corpo a corpo con i linguaggi delle avanguardie. Ma anche questo passaggio alla riva opposta del fiume, forse a causa della difficoltà ad ottenere ruoli da protagonista, cominciò a pesargli, ridestando in lui il desiderio di cambiare ancora.
L’insofferenza è, del resto, il sintomo che permette all’artista di scoprirsi tale e a un occhio esterno di formulare la diagnosi giusta, quella di un talento che sta scalpitando per manifestarsi. L’occasione arriva, finalmente, nel 1970, dopo una già lunga gavetta nel teatro, nel cinema e in tv, quando sostituisce Domenico Modugno nella parte di Ademar in Alleluja brava gente, commedia musicale diretta da Garinei e Giovannini, in collaborazione con Iaia Fiastri. È per lui la scoperta di un teatro diverso, in cui ci si diverte pure e in cui non è detto che si debba parlare altisonante.
Il romanesco come lingua dell’anima e modo di piegare ogni cosa alla ‘romanità’
Del resto, se a Gigi Proietti dobbiamo molto, è soprattutto per la sua rivoluzione linguistica. Un muratore, a teatro, non può parlare come un professore della Sorbona, diceva sempre. Lui che andava fiero di non aver avuto maestri («non avevo idea di cosa fosse il teatro, poi ho fatto la prova pratica al Centro Universitario Teatrale della Sapienza e mi hanno detto che recitavo come Albertazzi. E chi è? Mi sono detto»), aveva intuito le potenzialità del dialetto come lingua ‘altra’ rispetto all’italiano standard o, ed è il caso del romanesco, come lente d’osservazione differente sulle cose.
Il romanesco, infatti, non è una lingua vera e propria, con regole sue proprie come il napoletano (da cui pure il romanesco è nato, nel Cinquecento, per effetto di una contaminazione col toscano), ma è un modo di piegare qualsiasi situazione alla ‘romanità’, a una visione della vita che appartiene soltanto ai Romani e che si traduce in un’ossimorica onesta cialtroneria, una forma molto alta e apparentemente insensibile di saggezza, un cinismo venato di malinconia e anche, a volte, di spicce tenerezze. «Se perdi tanto tempo per mandare qualcuno a ‘fanculo vuol dire che in fondo gli vuoi anche bene», osservava spesso Proietti, ed oggi sappiamo che è impossibile dargli torto.
La comicità è un gioco misterioso da giocare seriamente
Se la comicità, come credeva, è «un mistero», allora questo mistero ‘funziona’ solo a patto che ci si diverta. La condizione privilegiata degli attori è quella di poter continuare a giocare anche se l’infanzia è finita. Ma nel gioco c’è una serietà sconosciuta al mondo adulto, eppure rigorosamente osservata e salvaguardata dall’attore, eterno infante ed eterno giocatore-giocoliere, quella serietà che si vede nel rispetto dell’unica regola di non avere regole, di insistere a inseguire una fantasia, un guizzo, una scorreria, una trovata divertente, di insistere a fare sempre e per sempre come je pare.