Alexandrina Turcan su We Want to Live Here: con Sean Penn per raccontare i bimbi ucraini “precocemente strappati all’infanzia”
Incontriamo alla rassegna Alice nella città la cineasta Alexandrina Turcan, autrice di un corto dedicato all'educazione 'militare' di alcuni bambini ucraini, pronti a combattere per difendere il loro Paese. Un'indagine su un modello di mascolinità che non possono far altro che interiorizzare.
Ad Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma dedicata alle giovani generazioni, debutta Alexandrina Turcan, cineasta moldava classe ’93, con il suo primo cortometraggio We Want to Live Here, indagine sulle conseguenze della guerra russo-ucraina attraverso le riflessioni di un gruppo di ragazzini di dieci anni di Borodyanka, insediamento rurale ucraino nel distretto di Buča, nell’oblast’ di Kiev: tra i segni lasciati dal tragico conflitto, di cui proprio quello di Borodyanka, nei suoi primi mesi, è stato uno dei teatri – il sobborgo, alla periferia di Kiev, è stato più volte attaccato dall’aviazione russa –, c’è la precoce maturazione dei bambini.
Chiedendo ad alcuni di loro di condividere i loro pensieri sull’esperienza vissuta, Turcan scruta il non detto, setaccia quel che resta fuori dalla trama di parole che si fanno discorso: la paura della perdita non solo delle persone amate, ma anche dell’infanzia, di quella parte di sé ancora incorrotta, immune dalla coscienza dall’imponderabilità del reale spietatamente erompente della violenza bruta, arcaica e infuturante insieme, della guerra, una violenza non del tutto ascrivibile a un ordine di senso. “Vorrei che Putin morisse”, dice uno di loro, candidamente, e noi vorremmo insieme a lui che bastasse quello, che fosse tutto così semplice. Alla regista – moldava di nascita, ma cosmopolita d’elezione, con un passato di attrice e modella – sta senz’altro a cuore lanciare un messaggio di pace, ma anche fare del film un’occasione per riflettere intorno alla resistenza di modelli di mascolinità che ingabbiano gli stessi uomini fin da quando sono piccoli, spesso piccolissimi, ancora neanche ragazzini.
Turcan: “Io, moldava cittadina del mondo, ho voluto mostrare, con Sean Penn al mio fianco, i bambini di un villaggio ucraino bombardato dai Russi, bambini che non possono piangere né mostrarsi spaventati dalla guerra.”
Congratulazioni per il tuo film, è molto riuscito.
Alexandrina Turcan: “Grazie. Sono incredibilmente felice di essere qui a Roma. Questo è il mio primo film in assoluto. Mi sembra quasi assurdo che così tante persone abbiano potuto vederlo.”
Tu sei una cineasta moldava che ha studiato anche a Mosca. Come credi che la tua madrepatria, la Moldavia, un Paese diviso tra più identità e ancora oggi alla ricerca di un’unità nazionale, consideri la guerra in Ucraina? Pensi che la tua storia – una giovane donna nata in Moldavia che, per ragioni di studio, ha frequentato la Russia di Putin – abbia influito nel modo in cui hai rappresentato il conflitto?
“Sì, è vero, sono nata in Moldavia, un Paese che ancora fatica a trovare una sua identità nello scacchiere postsovietico. Io credo che noi Moldavi vogliamo un’unica cosa, che la guerra finisca. La pace è ciò che ciascuno di noi auspica. Rispetto alla Russia, ho studiato per poco più di un anno lì, è vero, ma non direi che questo fatto abbia esercitato su di me un’influenza preponderante. La mia formazione artistica è avvenuta grazie a un mix di apporti. Sono nata in Moldavia, ed è davvero un luogo grandioso in cui nascere, ma l’ho lasciata a quattordici anni, ero molto giovane. Abito da dieci anni a Parigi e mi considero cosmopolita: ho vissuto in tanti posti diversi e parlo tante lingue diverse, per questo credo che il mio punto di vista sulla questione sia il risultato di tante influenze e di nessuna in particolare. Ho guardato alla guerra da una posizione di assoluta singolarità.”
In effetti, colpisce la scelta fatta di concentrarti sui ragazzini, i ragazzini maschi: indugi sui loro volti, su quel che trapela dei loro sentimenti, ascolti le loro parole così assennate. Ci accorgiamo, noi che guardiamo, che questi ragazzini sono spaventati, ma ugualmente affascinati dall’idea di combattere. Frequentano lezioni di boxe, mostrano grande curiosità nei confronti della routine quotidiana dei soldati in guerra. In uno dei momenti più struggenti, scoprono un’opera di Banksy che rappresenta due duellanti di arti marziali. Perché hai adottato proprio questa angolatura nell’accostarti al soggetto della guerra?
“Sì, il mio obiettivo era di filmare i ragazzini, i ragazzini maschi. Nella mia prospettiva, la guerra è per i maschi. Certo, anche le ragazzine soffrono le conseguenze di un conflitto militare, ma non ne mostro nessuna, perché quello che m’interessava era rappresentare l’imposizione di un modello di mascolinità adulta ai bambini; volevo mostrare quanto la guerra costringa i bambini a maturare e quanto i bambini, i bambini maschi, non abbiano scelta. Combattere è, culturalmente, qualcosa che deve piacer loro. C’è una costrizione: è questa costrizione che, pur nel breve tempo di un corto, volevo indagare. Loro hanno interiorizzato modelli maschili adulti: hanno paura, ma non devono darlo a vedere. Nessuno di loro ha dubbi sul fatto che risponderà coraggiosamente alla chiamata alle armi in difesa del Paese, qualora la guerra dovesse continuare.”
La fede sembra essere una delle principali risorse psicologiche su cui contare, il principale appiglio per alleviare angosce e paure generate dalla guerra. Come credi che sia gli Ucraini sia i Russi affronteranno il trauma di questa guerra fratricida, una volta finita?
“Questa è una domanda troppo grande per me, a cui non so rispondere. Sicuramente questa guerra è una follia: sono sicura che anche dall’altra parte, quella russa, ci sia una storia da raccontare, una visione del conflitto da esplorare. Sarebbe bello andare là per capire e magari realizzare il film anche dal punto di vista dei Russi. Anche perché questa guerra ha lacerato dei legami, spaccato a metà delle famiglie. Ce ne sono molte ‘miste’ e sarà molto complicato per loro ricucire. Sì, nelle nostre società cristiane a confessione ortodossa, la religione diventa importante soprattutto quando i tempi si fanno duri: ci piace andare in Chiesa e pregare, è una forma di consolazione che ci appartiene. Nel mio film ho voluto mostrare anche questa ricerca di sollievo spirituale.”
Sean Penn produce il film. Come sei entrata in contatto con lui e come vi aspettate venga accolto il film dal pubblico che lo vedrà?
“Io e Sean Penn abbiamo la stessa compagnia di produzione a Kiev. Penn è venuto spesso negli ultimi anni a Kiev per realizzare il suo documentario[Superpower, in cui compare anche un’intervista al Presidente Zelensky, incontrato in un bunker, NdR]. Quando ha visto il mio film, mi ha detto che lo avrebbe prodotto senza alcun dubbio. Gli sono molto grata, perché il suo nome dà lustro al film ed è un traino perché possa girare ai festival ed essere visto dalla gente. Alla fine, l’unica cosa che conta è questa: che il pubblico ‘veda’ la guerra e capisca che l’unica cosa da fare è impegnarsi per fermarla.