Alfonso Cuarón: “Roma nasce da un processo in bianco e nero della memoria”
Il regista Alfonso Cuarón insieme al cast e al production designer ci parla di Roma e di come sia frutto di un lavoro attraverso il ricordo.
Alfonso Cuarón torna a Venezia e lo fa con uno dei titoli di punta del Festival. Roma, storia in bianco e nero che scava nella memoria del regista, è il racconto di un tempo che il cineasta tenta di lasciare stampato per sempre grazie anche all’aiuto di Netflix e dei suoi metodi di distribuzione. Un film sulle donne fatto con attrici inesperte o provenienti dal teatro, tutte capaci di restituire quel clima di familiarità che ancora aleggia nelle case della nostra infanzia. È infatti un processo creativo quello che ha intrapreso per scrivere il film e avvicinarsi alla sua concreta realizzazione, di cui Cuarón parla insieme alle attrici Yalitza Aparicio, Nancy García, Marina de Tavira e al production designer Eugenio Caballero.
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Alfonso, prima di tutto puoi spiegarci chi è Cloe, la protagonista di Roma, e poi puoi dirci quando è stato che hai capito che le donne alla fine rimanevano sempre sole, come viene detto nell’opera?
“Si ispira ad un personaggio reale ossia quella che è stata durante l’infanzia la mia bambinaia. Faceva a tutti gli effetti parte della famiglia. La cosa importante di questo film è che come punto di partenza ha la memoria e il ricordo. È questo ricordare che ora mi ha legato ancora di più con questa persona. Le parlavo per il film, lei ha parlato anche con le attrici, e proprio in questa situazione ho rivalutato la sua personalità. Prima la vedevo come la mia bambinaia, ma con questo film ho cercato di vederla il più possibile come donna e con tutto ciò che fa parte della sua vita: appartenere ad un livello sociale più basso, avere origini indigene, e altro. Questo mi ha fatto riflettere su cose a cui non avevo mai pensato prima. Ed è sempre da lei e dalla mia casa che ho capito che sono le donne a portarla avanti. La differenza è ovvia e te ne rendi conto già dall’adolescenza. Quindi ciò che per me è stato più sorprendente e forte è stato scoprire questa persona come una donna. Capita anche con tua madre, tu non la pensi da subito come donna proprio perché è tua madre.”
E come è stato per le attrici entrare a far parte di un progetto come Roma?
Nancy García: “Sono molto contenta che con questo film sia stato possibile far conoscere la mia lingua natia, perché fa parte della nostra cultura e vorrei si parlasse di più nella comunità. Il film tratta del nostro vissuto e Alfonso ci ha sostenuto molto per rappresentarlo.”
Yalitza Aparicio: “Io non conoscevo bene questa lingua, quella che il mio personaggio e la sua amica parlano tra loro, ed è stato un onore impararla e fare in modo che potesse rappresentarci perché ci identifica con la nostra storia. Nancy ed io non siamo delle attrice professioniste, ma questo film parla di qualcosa che ci legava e che abbiamo vissuto noi o persone che conosciamo.”
Marina de Tavira: “Mi sono resa subito conto di quanto questo film fosse personale per Alfonso, ci ha regalato diverse informazioni sulle persone a cui i personaggi si riferivano e poi, però, ci ha chiesto di dimenticarle perché voleva che fossimo noi a scoprirli durante le riprese. Io sono un’attrice principalmente di teatro e ho fatto poche cose di cinema, ma in ogni caso mai così, senza leggere la sceneggiatura completa, ma scoprendo il film giorno per giorno. Non dovevo recitare la mia parte con degli attori, ma dovevo diventare parte della storia e quindi quelle persone diventavano davvero mia madre, mio marito e via. È stato qualcosa di molto spontaneo che ci ha reso molto sorpresi. Per me è stato un regalo magnifico.”
Alfonso Cuaròn: “Netflix e la sala devono imparare a convivere con armonia.”
Alfonso, come al solito non ti diletti soltanto con la regia, ma sei sceneggiatore, produttore, montatore e, questa volta, anche direttore della fotografia. Come mai questa scelta?
“Il film partiva da tre elementi chiave: il personaggio di Cleo, il bianco e nero e la memoria. Sono stati tre elementi che non ho mai messo in discussione. Le sequenze si legano al ricordo e non volevo quindi un uso della soggettiva perché volevo che fosse come vedere qualcosa da fuori in maniera oggettiva. Osservare con la macchina senza giudicare, dare al contesto familiare e a quello sociale il medesimo spazio per non permettere che uno diventasse più importante dell’altro. Non volevo dare risposte, pur essendo il film pieno di simbolismi che poi ognuno dovrà rielaborare a proprio modo. Per quanto riguarda però la fotografia possiamo dire che si è trattato più di un incidente. Con Emmanuel Lubezki abbiamo cominciato a parlare di Roma e del processo che volevamo intraprendere a proposito del tempo e della memoria, ma alla fine siamo andati troppo lunghi con i tempi e non ha potuto prendere parte al film. È stato proprio lui a suggerirmi di farla da me, visto il clima di tradizione che volevo mantenere su questo set e non volendo prendere dunque professionisti di lingua inglese. Per farlo però mi sono comunque circondato di persone di talento.”
Per parlare attraverso la memoria c’è anche bisogno di un grande lavoro dal punto di vista del designer. Cosa puoi dirci a proposito Eugenio?
“La cosa particolare è stata che non siamo partiti dalla sceneggiatura, ma da dialoghi e conversazioni. Alfonso mi raccontava cosa voleva e così è nato il design del film, partendo prima di tutto dai piccoli dettagli. Poteva finire per essere un film storico, ma visto che non era quello l’intento siamo stati molto attenti. Questo lavorare all’inverso è stato molto interessante. Anche per il bianco e nero avevamo un’idea chiara, quando Alfonso me ne parlava si percepiva. C’è stato un grande lavoro da fare per capire le giuste sfumature da utilizzare, che avrebbero poi contribuito all’emozione del pubblico.”
A.C.: “Durante tutto il processo di elaborazione Eugenio non ha mai letto la sceneggiatura. Si trattava di un mio ricordo, ma volevo che anche i miei collaboratori contribuissero con i loro. Il bianco e nero utilizzato è di tipo contemporaneo, non ha quelle ombre lunghe degli anni ’40 o ’50 ad esempio, ma è digitale. Un formato digitale da 65 mm per raccontare il passato.”
Un film talmente imponente che passerà però solo in poche sale e finirà poi su Netflix. Non pensi sia un peccato?
“Questo film sarà distribuito in molti Stati sia sul grande schermo che su Netflix, ma mi sembra ingiusto dare dei giudizi quando conosciamo la realtà e la complessità della distribuzione e produzione di film come questo. Sappiamo che film in lingua spagnola, in bianco e nero e che non sono di genere hanno difficoltà a trovare un loro spazio. Per questo è importante Netflix ed è interessante investire a lungo termine su questa piattaforma. Ovviamente per perdurare un film deve essere di forte impatto e solo così potrà durare nel tempo , ma è importante che ci sia una coscienza come quella di Netflix che permette a questi film di esistere. E poi quando è stata l’ultima volta che avete visto un film di Antonioni o Bresson al cinema? A casa vostra invece? È bene che entrambe le cose convivano con armonia.”