Andrea Bruschi oltre Lidia Poët: “Quel che conta è la storia”

L'attore è nel cast della seconda stagione di La legge di Lidia Poët, presentata in anteprima alla 19ª edizione della Festa del Cinema di Roma, e non solo...

Quando una passione è tale da farsi prolifica significa che ad accompagnarla c’è del talento; è questo il caso di Andrea Bruschi, navigato cantante ed attore, noto per le numerose partecipazioni sia cinematografiche che televisive, che abbiamo avuto la fortuna di intervistare al termine della 19ª edizione della Festa del Cinema di Roma, dove è stata presentata in anteprima la seconda stagione de La legge di Lidia Poët, la serie tv con protagonista Matilda De Angelis che racconta della prima celebre avvocata donna d’Italia. Entrato a far parte del cast per il secondo capitolo, l’attore nato a Genova, ci ha raccontato del suo approdo a questo progetto a quelli sviluppatisi parallelamente, dalla seconda stagione della serie anglo-tedesca The Empress, sulla figura della principessa Sissi, all’attesissima M. Il figlio del secolo, l’opera su Mussolini diretta da Joe Wright e tratta dai romanzi di Antonio Scurati.
Lasciando da parte il lato musicale della sua carriera, assieme ad Andrea Bruschi abbiamo approfondito temi legati al suo approccio, al suo rapporto con autori di altissimo calibro, alla cinefilia che da sempre lo muove, alla difformità delle grandi e piccole produzioni a cui ha preso parte; il tutto lasciando continuamente trapelare quanto la passione per il mestiere continui a spingerlo verso una molteplicità di occasioni e continui ad arricchirlo, a stimolarlo.

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Andrea Bruschi su La legge di Lidia Poët: “È una serie importante per il panorama italiano”

Andrea Bruschi cinematographe.it
Andrea Bruschi, Ph. Silvia Menegon

Che personaggio interpreti nella seconda stagione de La legge di Lidia Poët? Cosa ne pensi del progetto? Lo seguivi già?
“Interpreto il Duca Marchisio, un personaggio reazionario, con grande influenza all’interno della società sabauda di Torino di fine ‘800. Il figlio di lui si innamora della nipote di Lidia Poët, dando così origine al rapporto tra le due famiglie che si sviluppa per l’intera stagione, con il duca che rimane per tutti gli episodi come personaggio trasversale. Si creano divertenti situazioni che danno un bello spaccato di quello che poteva essere il relazionarsi tra le varie classi dell’epoca.
Io mi sono trovato benissimo, in particolare con Pier Luigi Pasino che conosco da tanti anni e questo ci ha sicuramente aiutati, inoltre avevo seguito ed apprezzato la prima stagione e la chiamata per la seconda è stata una bellissima sorpresa. Credo che sia una serie importante per il panorama italiano, sia per la produzione, che per la scrittura e l’ambientazione – io adoro lavorare a Torino”.

In generale com’è stato lavorare con il resto del cast?
“Il cast è molto affiatato, e credo sia una delle armi vincenti di questa serie. Sono una ventata di novità e sono stati molto accoglienti con noi che siamo subentrati nella seconda stagione. È stato stimolante e divertente”.

E per quanto riguarda la regia? Cosa pensi del lavoro che è stato fatto?
“Mi sono trovato molto bene sia con Letizia Lamartire che con Pippo Mezzapesa, che ha diretto un episodio. Per capire quanta cura c’è dietro al progetto: il secondo episodio parte con un grande valzer nel palazzo dei Marchisio, per il quale abbiamo fatto più di un mese di prove con maestri dedicati a tutti noi attori impegnati nella scena. Quest’attenzione sicuramente mi ha aiutato ad immedesimarmi e poi avuto modo di confrontarmi, di conoscer pian piano tutti e di parlare del personaggio con Letizia, il che ha evidenziato ulteriormente una cura che in Italia non sempre si vede”.

Questa serie sembra essere la riprova del fatto che attraverso cinema e televisione, pur raccontando storie del passato, si possono affrontare tematiche estremamente attuali; sei d’accordo?
“Sicuramente c’è questa volontà e spero che aumenti sempre più l’interesse e la voglia di andare a cercare, anche nel nostro passato italiano, storie interessanti, che possano essere d’insegnamento riguardo a come si è sviluppata la nostra società. Una serialità fatta con più accuratezza può essere molto più efficace di un semplice biopic realizzato troppo frettolosamente per una rete generalista. Allo stesso tempo, chiaramente, si deve ricercare una storia che possa raccontare anche il moderno e il quotidiano. L’uomo fondamentalmente ha sempre quelle stesse dinamiche da affrontare: l’espressione di sé, il sentirsi inclusi in una società, l’essere riconosciuti”.

La deriva seriale

La legge di Lidia Poet cinematographe.it

A proposito del confronto tra biopic e serie, vista la tua variegata esperienza, cosa pensi della deriva seriale che ha preso l’industria ormai da tempo?
“Da cinefilo e da attore penso che sia più avvincente un racconto però ritengo che serie come queste siano importantissime perché portano il pensiero ad essere approfondito nella maniera corretta; sono opere allo stesso livello dei grandi film. Spero che gli investimenti continuino ad andare in questa direzione, che si investa per raccontare la storia e che sia un racconto epico, destinato a tutte le fasce d’età, che possa incuriosire anche i più giovani.
Un buon esempio piò essere Ferrari di Michael Mann, del quale ho avuto la fortuna di far parte; in quel caso parte del pubblico è rimasta disorientata perché si aspettava un biopic, un’epopea vincente, e invece quello è un film di uno dei più grandi autori viventi, che racconta lo spaccato della vita di un uomo. Una serie, invece, ti può permettere di raccontare un’epopea in maniera più lunga”.

A partire da M. di Joe Wright, ti va di parlarci delle altre serie a cui hai preso parte e che stanno per arrivare?
“M. è stata un’altra esperienza straordinaria; vedere Joe Wright e Marinelli lavorare è stato un piacere assoluto. Lì interpreto il ministro liberale del primo governo di Mussolini, colui che si occupava delle infrastrutture.
Il 22 novembre, invece, uscirà la seconda stagione di The Empress, la serie sulla principessa Sissi e sugli Asburgo – la cui prima stagione si è aggiudicata l’Emmy come miglior serie internazionale nel 2023 – in cui io vesto i panni di un tenente dell’esercito rimasto ferito e quindi non più in attività.

Sostanzialmente ho tre uscite in costume una dietro l’altra”.

Andrea Bruschi e l’arte di fare cinema

Andrea Bruschi cinematographe.it

Quando si tratta di progetti di questa portata trovi grandi differenze tra produzioni di diversi paesi?
“Io metterei The Empress, M. e Lidia Poët sullo stesso piano perché si tratta sempre di grandi produzioni, di altissimo livello; hanno tutte avuto l’intelligenza di mantenere la lingua madre attraendo un pubblico internazionale non attraverso il linguaggio ma attraverso la qualità e l’importanza del racconto; le scenografie e i costumi sono sempre incredibili, le storie avvincenti, in generale trovo ci siano una cura ed un impegno differenti rispetto alle serie più generaliste”.

Sembra ti piaccia metterti alla prova con opere di carattere storico ed in costume; è così?
“L’attore cerca sempre un racconto da interpretare che sia stimolante, poi bisogna anche avere fortuna. In questo caso è stato bello essere coinvolto in tre progetti di questa portata, ed è stato possibile anche perché io, avendo vissuto a Berlino e avendo lavorato tanto sia in inglese che in tedesco, vengo spesso interpellato in progetti internazionali. Adesso, per esempio, è uscito da pochissimo al cinema, e si trova già sulle piattaforme americane, Here After di Robert Salerno che, dopo aver prodotto film come Smile e 21 grammi, ha realizzato la sua opera prima, un horror girato a Roma in lingua inglese a cui ho preso parte e, inoltre, ho appena finito di girare anche l’opera prima di Anna Antonelli, Spyne, che è invece un thriller ambientato a Genova”.

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Ma quindi, con una carriera lunga e corposa come la tua, cosa dee avere un progetto per conquistarti?
“Ci sono tanti aspetti da considerare, dipende da che progetto è e da chi è a propormelo; principalmente, per me, la cosa più interessante è la sceneggiatura, la storia che si va a raccontare. Ho avuto la fortuna di lavorare con geni di questo mestiere e con registi e sceneggiatori alle prime armi e, comunque, la cosa fondamentale rimane la qualità di ciò che si racconta. Queste cose si capiscono leggendo e incontrando le persone, d’altronde è un mestiere fatto anche di incontri, in cui ci si deve incontrare e ci si deve capire.
Se potessi scegliere io, mi piacerebbe molto interpretare il personaggio di un noir alla Melville, uno dei miei registi preferiti – non amo fare classifiche ma Le samouraï (Frank Costello faccia d’angelo) è sicuramente un film che merita i primi posti”.

E i “geni di questo mestiere”, dopo tanti anni di carriera, quanto riescono ancora a darti? A trasmetterti?
“Mi danno tutto, io credo che avere l’opportunità di lavorare con persone con questa visione e questa conoscenza sia il massimo per un attore. Ognuno è diverso, ognuno approfondisce il proprio mondo talmente tanto che ti ci porta dentro. Al di là di quanto un film possa avere successo o meno, l’esperienza rimane totalizzante; quest’arte di fare il cinema, che ha ormai 130 anni, è sempre incredibile e ancora oggi, nonostante gli streaming, sedersi in una sala cinematografica a guardare il film di un maestro non ha prezzo”.