Emanuela Rossi parla di Buio: “Nel film si intrecciano lotta al patriarcato e al consumismo”
Intervista alla regista Emanuela Rossi e alla protagonista Denise Tantucci su Buio.
È disponibile dal 7 al 21 maggio nella sala cinematografica virtuale di mymovies.it il lungometraggio d’esordio di Emanuela Rossi, Buio. Un film indipendente dai caratteri particolari che sfida il cinema italiano assumendo le forme di un’opera fuori dal comune, una sorta di fiaba dark con una forte impronta femminista, dove realismo e onirismo si mescolano, toccando però molti temi del nostro presente. La storia racconta di tre sorelle, Stella, Aria e Luce che vivono rinchiuse in una casa dopo la morte della madre. Il Padre esce ogni giorno per procurarsi il cibo in una realtà esterna che descrive come apocalittica, in seguito ad una eruzione solare, e nella quale non è permesso a loro avventurarsi. Una storia di costrizione e sopraffazione dove prendono piede passo a passo consapevolezza e speranza, ma anche una riflessione sul mondo d’oggi. Ne abbiamo parlato con la regista Emanuela Rossi.
L’intervista a Emanuela Rossi, la regista di Buio
Qual è stato il percorso che ha portato alla realizzazione del film Buio e da dove nasce l’idea alla base di un film così particolare nella forma e nella sostanza?
Emanuela Rossi: “Come primo film, volevo fare qualcosa di libero. Poi, immaginando di non avere grossi budget, restare la maggior parte del tempo in una casa era la cosa più naturale. Certo mi premeva raccontare un universo familiare chiuso, claustrofobico. Ho un’idea un po’ distopica della famiglia stessa. A questo si è unita la preoccupazione che ho per il mondo da diversi anni: un mondo sporco, malato, l’hanno distrutto, come dice il Padre del film, interpretato da un attore potente come Valerio Binasco. Che si contrappone al bisogno di libertà della maggiore delle figlie, Stella, la splendida Denise Tantucci. No, non siamo messi bene nel pianeta, anzi malissimo, e volevo esprime questa mia angoscia nel film. Però, preferivo restare in una dimensione intima, personale, lontanissima dal disaster-movie. Per il budget ovviamente, ma non solo. Mi piaceva l’idea di un Apocalisse percepita da bambine, con il loro vissuto, il loro immaginario. Qualcosa d’intangibile, d’invisibile, tutto fuori dalla porta di casa, in un fuori cui loro non hanno accesso. Ma che si nutre, anzi si concretizza proprio attraverso le loro fantasie. Di bambine chiuse in in una quarantena strettissima da anni, al punto da non arrivare a vedere la luce del sole. Incredibilmente (anche se per fortuna non in termini così estremi), questa dimensione dopo pochi mesi è diventata reale, concreta nel nostro nel nostro mondo”.
C’è un continuo riferimento all’Apocalisse nel corso della narrazione cinematografica di Buio. Un’Apocalisse evocata anche per creare paura, una paura che diviene strumento di controllo. Di che fine del mondo vuole parlare il film?
“Ha detto qualcuno in questi ultimi mesi che una catastrofe naturale è il sogno di un tiranno, perché attraverso la paura si può far passare qualsiasi legge e qualsiasi restrizione della libertà. Lo credo fortemente, il mondo ha avuto clamorosi esempi di questo nell’ultimo periodo. D’altro canto rispetto a certe cose bisognerebbe invece avere più paura. Noi viviamo adesso in un periodo spaventoso dell’umanità, i ghiacciai si stanno sciogliendo, potrebbero verificarsi davvero grandi catastrofi per l’umanità, ma in fondo su questo dormiamo sonni tranquilli. Come mai? Chi pilota le nostre paure? C’è un regista occulto? Il tema del controllo mi ha sempre affascinato, solo che non potevo ovviamente fare un film orwelliano, su un Grande Fratello. Diciamo che Buio è un Grande Fratello in piccolissimo. Ma in questo film, l’Occhio che scruta tutto, “Colui che tutto vede e tutto ascolta”, non è quello del Grande Fratello, né, se vogliamo, neppure quello di Dio, anche se il Padre lo evoca spesso. L’occhio che scruta è quello del Padre, per il suo piacere ma anche per un bisogno di controllo fortissimo, maniacale. Anche perché – sono convinta che questo personaggio in fondo parta da buone intenzioni – quest’uomo è atterrito dal Mondo che vede attorno a sé, nel fuori. Le paure millenaristiche ci sono sempre state, dalla notte dei tempi, io stessa nel dicembre del 1999 ero terrorizzata da quel “mille e non più mille”, dalla paura che allo scoccare dell’anno 2000 ci fosse la Fine del mondo. Fa parte dell’uomo, del suo senso di colpa atavico, che è qualcosa di veramente ancestrale, rispetto al peccato. Se vogliamo, forse nasce già dalla cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino dell’Eden, quando il Paradiso è finito. E tutto questo si concentra nel testo dell’Apocalisse, che andrebbe riletto perché è davvero la summa di tanti concetti e di tante paure “horror”, con tutte le profezie di invasioni di cavallette, pestilenze, carestie e fame riservate ai peccatori.
Sembra la sceneggiatura di un terribile disaster-movies! Poi, ovvio, rispetto all’oggi dobbiamo un po’ accordarci su cosa sia l’Apocalisse e la Fine del mondo. Probabilmente, per fortuna, tutte queste cose non ci sono e probabilmente anche se arrivassero l’uomo riuscirebbe a controllarle, a sconfiggerle. Però ci sono già degli aspetti della nostra civiltà che sono già Apocalisse e fine. L’ha mostrato bene ultimamente un film come Burning-L’amore brucia. Non c’è un’immagine distopica o apocalittica in questa opera straordinaria di Lee Chang Dong tratta da un romanzo di Murakami. Eppure, per quanto mi riguarda, con le sue case di due metri quadrati e le persone che parlano con gatti virtuali, mi è sembrata una delle opere più fantascientifiche che abbia mai visto.”
Emanuela Rossi: “Credo nella religione di Papa Francesco, attenta agli ultimi e all’ambiente. Il Padre del film è un vero sovranista d’oggi”
La religione è una presenza sostanziale, usata anche mezzo di controllo da parte del Padre. Qual è il tuo rapporto con la religione e se ci parli del ruolo di essa all’interno del film?
“Io vengo da una famiglia tradizionale marchigiana, in cui la religione era molto presente e anche la triade Dio/Padre/Famiglia. Sono grata alla mia famiglia per il senso del sacro che mi ha dato e per la conoscenza di alcuni elementi che ho della religione, che del resto è stata una delle fondamenta della nostra cultura. Secondo me non conoscerla è un peccato, oltre che una limitazione alla comprensione di tanti aspetti della nostra società. Ovviamente sappiamo tutti che spesso la religione si è legata al controllo dell’individuo, lo vediamo bene ora in cui i sovranisti cercando di appropriarsi della parte peggiore della religione per cercare un consenso nella parte della popolazione che ha bisogno di superstizione e di capi che evocano paure infantili. Se vogliamo, il Padre del film è davvero un sovranista, tanto che ha creato uno stato autonomo, tutto suo, all’interno della sua casa, ad uso di bambine facilmente spaventabili. Se mi chiedi del rapporto mio, con la religione, adesso, debbo dire che mi interessa la religione di Papa Francesco, attenta al mondo, agli ultimi, alle catastrofi ambientali. E’ l’unico oramai che ne parla, di queste cose, lui e Greta Thunberg. La seconda parte del film in qualche modo esprime questo cammino verso un senso di rinnovamento, di rinascita, di cambiamento. Di luce. La stessa figlia Stella, prima così adepta del Padre, alla fine lo sbugiarda pure sulla fede. Vedendolo in ginocchio gli dice: “Tu non hai mai pregato”. E dopo aver conosciuto il buio, cerca finalmente il Bene. Sì, Stella per fortuna va verso un senso di giustizia e autonomia personale che mi piace molto.”
Guardando il film mi è venuto in mente Room, per la similare condizione che opprime i protagonisti e per la dualità tra interno ed esterno, ma anche ho trovato riferimenti al cinema di Lanthimos, per il tipo atmosfere e di impianto narrativo. Quali sono i riferimenti cinematografici che hanno portato al film?
“Room non l’ho visto, quindi non posso dirti, però avevo letto un libro che credo l’avesse ispirato. Quanto a Lanthimos, sì, amo molto il suo Dogtooth, mi ricordo che l’ho visto appena uscito in una saletta a Parigi. Del resto, pure Dogtooth ha preso spunto dal film El castillo de la pureza del regista sudamericano Ripstein. È una storia archetipica sulla costrizione della famiglia e della società, in cui la famiglia è una metafora della dittatura. Però credo che rispetto a Lanthimos nel mio film sia cambiato completamente il punto di vista. Lì era quello del Padre, visto come un mostro ma in qualche modo glorificato come figura di riferimento e di potere. Io invece ho girato la macchina da presa verso Stella e le altre due sorelline, Luce ed Aria. Ne ho fatto un film ad altezza di ragazzine, seguendo idealmente la grande lezione dei film sull’adolescenza iniziata da I 400 colpi di François Truffaut. Poi, se mi chiedi i film che mi hanno influenzato di più in realtà sono Stoker di Park Chan Wook, nella concezione stilistica, e Lasciami entrare di Thomas Alfredson, per quel senso disperato di adolescenza, con un ragazzino che soffre e trova in un appiglio stranissimo, in questo caso una vampira, un motivo per sopravvivere e crescere. Anche The witch, di Robert Eggers. Da notare che questi film sono di genere. Io prima non vedevo mai thriller o horror, poi facendo come co-regista la serie Non uccidere ho scoperto un cinema che non fosse necessariamente d’autore. E mi è piaciuto. Anche se Buio è un film d’autore con un crossover nei generi.”
Emanuela Rossi: “Colori, ambienti e costumi hanno un ruolo fondamentale nella lettura di ciò che il film vuole comunicare”
Nonostante si tratti di una produzione indipendente a piccolo budget, il film è molto curato anche nei suoi aspetti tecnici e nel lato estetico. C’è un’attenzione importante alla fotografia e alle ambientazioni, al ruolo di luci e colori. Ce ne parla?
“L’attenzione ai colori ci voleva, perché diceva Goethe i colori sono salvifici, e questa è una storia in cui le protagoniste cercano salvezza. Sentivo che il desaturato classico del cinema d’autore avrebbe tolto forza a queste immagini. La mamma bellissima, bionda, tutta d’oro, che le ragazze ritualmente evocano nei loro giochi, Elettra Mallaby, è la loro cura del male quindi doveva indossare quel bel costume giallo che mette in risalto la sua figura di mannequin, o quella favolosa camicia di seta gialla! Poi certo, ognuno ha la sua tendenza, e la mia è estetica, è qualcosa che ha curato me per prima, quindi è chiaro che ho proiettato questo sulle ragazze e sulla storia. Nell’arredamento volevo creare un ambiente fatto a strati, caotico come la mente del padre, spaziando dalle candele al neon spinto. Forse il modello è stato il fumetto. Anche sui costumi, con la costumista Carola Fenocchio, abbiamo cercato un mix di stili dagli anni quaranta al punk. Perché sui costumi si gioca tutta la vicenda, e di Stella in particolare.
La storia di un Padre aggrappato al passato, e di una figlia che guarda al futuro. Più nello specifico, per gli abiti del fuori ho pensato al cyberpunk anni novanta, e per le camice da notte a Wendy di Peter Pan e alle illustrazioni di Nicoletta Ceccoli, che compaiono nel film. Quanto alla luce, con il direttore della fotografia Marco Graziaplena, abbiamo passato giorni a dire cose tipo: un po’ The others ma meno caravaggesco, Park Chan Wook (Stoker, Mademoiselle) ma non così leccato…Carrelli la prima parte e macchina a mano nella seconda, un po’ Fish tank ma anche un pizzico di Rosetta… Sì, lo ammetto, la cura di questi aspetti è stata maniacale, anche se visto che siamo una piccola produzione low budget – e ogni attimo con la troupe scatta il tassametro – se ti dico il tempo di preparazione non ci credi (dieci giorni per fare tutto dalla casa ai costumi). Normalmente occorrono mesi! Per non parlare della presenza di effetti speciali importanti, alcuni a livello americano. Senza il contributo della società di effetti speciali Frame by frame, che si è innamorato del film, sarebbe stata dura. In generale comunque c’è un’estetica un po’ fashion che pervade tutto il film. C’è un motivo. Nella mia strana biografia si nasconde un segreto. Dopo il Dams volevo andare a Roma a fare il cinema ma non ne ho avuto il coraggio. Così sono andata a Milano dove ho lavorato dieci anni come giornalista appunto nei magazines femminili, Marie Claire, Glamour, Casa Vogue… Così, le stratificazioni di stili che vedi nel film servono a capire la storia di questa famiglia, ma sono anche una sorta di mia storia “vestimentaria”, seguono l’evoluzione del mio gusto.”
Emanuela Rossi: “Nella storia non c’è nessun rimando alla mia vita, ma nell’estetica del film e nei messaggi contenuti ci sono il mio background, le mie riflessioni, paure e desideri”
Quanto c’è di personale all’interno di questo film?
“Chiarisco subito. Rispetto alla trama del film non c’è nulla di personale, per fortuna, niente di ciò che racconto mi è successo. Però, c’è tanto di me nei caratteri delle sorelle, nella sensazione di costrizione rispetto a certi aspetti dell’istituzione famiglia, specie quando si lega al patriarcato. C’è di me tanto, come ho detto, nell’estetica e nella voglia di fuggire, sempre. E l’ho detto, nella paura ambientale. Quale genitore, vedendo il mondo che abbiamo, non sente istintivamente il desiderio di sbarrare il portone di casa? Il discorso è sempre quello: liberismo sfrenato o sostenibilità.”
Nel racconto infatti traspare anche una riflessione sul consumismo e il capitalismo odierno, è possibile scorgere anche un riferimento alla crisi ambientale. Cosa puoi dirci in merito?
“Il discorso sul patriarcato s’intreccia a quello sul consumismo/globalizzazione, sistemi che accomuno nella rapacità, nel bisogno di “prendersi tutto”. In realtà questi sistemi stanno già crollando, sono agonizzanti, ce ne siamo accorti in questi mesi, ma purtroppo non si sa come uscirne. Il Padre continua a ripetere che l’Apocalisse sta arrivando, ma forse non è già arrivata nei nostri centri commerciali più distopici di una navicella spaziale? Nel film lo mostro con chiarezza. Solo che non facciamo nulla per ribellarci. Certo, se leggi Ballard, Dick, Gibson o Il recente Il libro di Joan di Lidia Yuknavitch entri più in quest’ottica. Ma non starci per me vuol dire essere ciechi (in Buio faccio proprio un discorso sulla cecità/visione). Io dico, c’era bisogno di arrivare all’attuale pandemia per accorgersi che qualcosa non andava? Non c’erano già i segni prima? Dipende da cosa uno vuol vedere. Ma purtroppo, come dice Amitav Ghosh nell’immenso recente saggio La grande cecità, noi occidentali siamo rimossi, ancora immersi nell’idea antica della centralità dell’uomo/logos che domina tutto, compresa la natura. E quindi, ad esempio, releghiamo il discorso della catastrofe naturale alla letteratura e al cinema di serie b, il cosiddetto “genere”, mentre gli autori seri parlano di ben altro. Ebbene, forse è arrivato il momento di capire che questo è un grande abbaglio.”