Cristiano Bendinelli racconta Amanda e i suoi viaggi: “L’arte accomuna le persone, non il luogo”

Il fotografo e regista ci ha concesso un'intervista, a qualche settimana di distanza dalla presentazione del film che ha chiuso la 9ª edizione di Cinema e Ambiente Avezzano

La voglia di sconfinare, l’urgenza di raccontare quel sta oltre, la necessità di dare un respiro più ampio all’immagine immortalata, di mostrarne lo spazio, definirne il tempo, testimoniarne la verità; di questo e di molto altro ci ha parlato il fotografo e regista Cristiano Bendinelli che, al festival tenutosi a giugno, Cinema e Ambiente Avezzano, ha presentato il suo lungometraggio, Amanda, opera che racconta la vita di una ragazza indio Mapuche Huilliche in una remota isola nel sud della Patagonia Cilena, sullo sfondo degli scontri sorti a Santiago a causa dello sfruttamento intensivo delle risorse da parte delle multinazionali del pesce.
Nato a Lucca nel 1969, Bendinelli si è fatto prima conoscere come fotografo, sia lavorando nel campo della moda e del cinema sia, soprattutto, spingendosi verso altre realtà, per raccontare mondi al limite e mostrare l’umano all’interno di contesti totalmente dissimili dal nostro (dall’Afghanistan alla Siria, da Haiti al Kenya).
Tramite una lunga chiacchierata, l’oggi cineasta ha dimostrato tutta la passione travolgente che lo muove verso queste realtà altre, tutta la fame che lo porta a voler indagare l’umano in ogni sua sfaccettatura – non più solamente tramite un’immagine, ma tramite il movimento di essa e tramite una maggiore drammaturgia – specialmente nelle zone in cui l’umano è più a rischio o in cui si avverte un diverso rapporto con la natura, con il luogo e con la sua temporalità.
Aneddoti ai limiti del conoscibile e ricordi di viaggi passati accompagno il racconto di come il fotografo sia divenuto regista e di come si sia sviluppata la produzione di Amanda, dal lavoro fatto dalla protagonista Sabina Sesenna Aziz all’accoglienza e al rapporto con gli abitanti del luogo.

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Cristiano Bendinelli dalla fotografia al cinema

Cristiano Bendinelli cinematographe.it

Partiamo dalla passione per la fotografia e dal conseguente passaggio al cinema; perché ad un certo punto hai sentito l’esigenza di fare questo salto? Raccontaci del tuo percorso.

“Il linguaggio fotografico è un linguaggio a cui io sono sempre stato legato, però a un certo punto ho sentito l’esigenza di sviluppare in altro modo una storia che stavo raccontando, quel linguaggio ha cominciato a starmi un po’ stretto. Non rinnego la fotografia, ancora scatto, ma ci sono alcuni progetti che hanno bisogno di più respiro. C’è un bellissimo reportage che ho fatto in Afghanistan, all’ospedale di Emergency, che ha un suo linguaggio, differente da miei soliti lavori perché ho voluto sperimentare. Da lì ho cominciato a pensare che potessi realizzare un cortometraggio, costruire una drammaturgia che non andasse a stravolgere le realtà delle cose; tutti lì avevano storie incredibili da raccontare.
Ad esempio c’era questa bambina con gli occhi azzurri – come tanti giovani figli dello stupro di massa verificatosi durante la guerra contro la Russia – a cui il padre aveva sparato sei colpi di kalashnikov perché si era fermata a giocare con il coetaneo che viveva dall’altra parte della strada, ma faceva parte di una fazione nemica.
Quello che non mi piaceva per la fotografia è il concetto di storytelling; dal mio punto di vista la fotografia si deve sorreggere da sola, se hai bisogno di spiegarla significa che non hai fatto così bene il tuo lavoro. Essa va però inserita all’interno di un reportage, per il quale si mandano oltre 20 foto, di cui ne vengono pubblicate solamente 5. Tutto questo iniziava a non bastarmi più: avevo bisogno di raccontare quello che lì si vive in prima persona.

Ho quindi deciso di provare con il cinema e il mio primo lavoro, una decina di anni fa, è stato per un amico che teneva dei corsi in una scuola per muratori immigrati. Ho realizzato un documentario di circa 45 minuti che racconta la loro quotidianità, d’altronde le mie tematiche sono sempre legate all’uomo, ai suoi pensieri e alle sue decisioni in situazioni complicate, problematiche”.

A caccia di altri mondi

Quando arrivi a conoscere queste realtà quanto è difficile tornare alla tua vita qua?

“Cose come queste ti rimangono dentro e la parte più difficile non è andare ma appunto tornare, gestire tutto quello che hai assorbito, visto. Per citare un altro esempio, una volta sono stato con il giornalista Fabio Gibellino a fare un lavoro sul colera ad Haiti, dove c’era questo prete che ogni giovedì passava per gli ospedali a raccogliere i cadaveri, per seppellirli nelle fosse fuori città. Egli ha acconsentito ad un nostro reportage a patto che lo aiutassimo in questo suo lavoro e così è stato; c’era da aprire un’enorme cella frigorifera – che avrebbe dovuto essere refrigerata, ma non lo era a causa dei continui salti di corrente – all’interno della quale i ragazzi, bardati di tuta e mascherina, si versavano addosso il rum per contrastare gli odori. La cella era piena di cadaveri sino al soffitto e, ad un certo punto, ad un ragazzo che ne stava spostando uno, sono rimaste in mano solamente delle gambe. In realtà come queste diventa tutto estremamente surreale, un’assurda normalità.
Di storie come queste potrei raccontarne un’infinità, come quando sono finito in Siria – non posso esattamente raccontare come – a scattare, a 100 metri dalla prima linea, ritratti di ragazzi sotto i 20 anni che, mentre mi raccontavano dei loro sogni, vivevano la guerra con estrema naturalezza.
Ma la guerra è veramente terribile, la gente ne parla ma chi non l’ha vista non può capire quanto lo sia. Basti pensare a Don McCullin, fotoreporter britannico straordinario che, tornato dal Vietnam, non ha più scattato per circa 20 anni e adesso fa solamente landscape”
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Amanda Cristiano Bendinelli cinematographe.it

E a te questo è mai successo? Non hai mai avuto un blocco?

“No, innanzitutto perché mi sono sempre rifiutato di fotografare i morti; sono sempre stato più interessato all’uomo che alla sua fine, più a che cosa lo spinge verso quella fine, cosa lo motiva, anche se stimo moltissimo alcuni miei colleghi che hanno, invece, scelto quel linguaggio; James Nachtwey è uno dei più grandi fotografi viventi e il suo libro, Inferno, uno dei più grandi capolavori di sempre”.

La tua attrazione per questi mondi lontani come nasce? Ti ricordi la prima volta che sei andato oltreoceano?

“Da giovane ho fatto il nautico, prima una scuola a Venezia, poi a La Spezia e, quando ho terminato gli studi, ho trovato un imbarco, per sei mesi, su una nave mercantile che trasportava banane. La tratta era Genova – Puerto Limon, in Costa Rica, e con essa ho attraversato l’oceano 12 volte, con viaggi durati 21/22 giorni. L’esperienza mi ha letteralmente cambiato la vita, mi ha mostrato un mondo nuovo. Evidentemente già la scelta di fare il nautico era mossa da questa mia spinta a voler andare, a volermi spingere oltre. Nel frattempo mia madre mi aveva regalo una macchina fotografica a pellicola e io avevo cominciato a scattare e a stampare; così è nata la mia passione. Il primo reportage l’ho realizzato alla fine degli anni ’90, quando è scoppiata la guerra in Kosovo, e ho subito compreso quanta componente psicologica e umana ci sia nell’arrivare in un posto nuovo e avere la fiducia degli altri; solo quando qualcuno si fida di te ti regala un’immagine, una fotografia. Lo stesso vale per Amanda”.

Cristiano Bendinelli e Amanda: tra umanità e atemporalità

Parlando appunto di Amanda, soffermiamoci su questo aspetto umano: com’è stato per l’attrice protagonista, Sabina Sesenna Aziz, essere catapultata in una realtà come quella? E come si sono comportati gli abitanti del luogo?

“Innanzitutto è giusto ricordare che lei arriva dal teatro e passare alla camera è tutt’altro che semplice; le ho inoltre chiesto di ingrassare 6 kg, ha dovuto studiare lo spagnolo per un anno e l’accento cileno per circa tre mesi, pur avendo poi pochissimi dialoghi all’interno del film. Lei peraltro era maggiorenne, ma da poco, e sono quindi andato a presentare il progetto alla famiglia, per dimostrargli che alla base c’era una produzione seria ed affidabile.
Inoltre era il periodo del Covid, con tutte le chiusure e le limitazioni, e non è stato affatto semplice né realizzare riprese in cui non potevamo mostrare le persone con le mascherine – non volevo che venisse identificato quel periodo storico – né gestire il fatto che Sabina dovesse sempre girare senza. Per lei questa è stata una grande sfida, ma l’esperienza le permette di essere oggi a New York, a studiare in una delle migliori scuole di recitazione che ci siano.
Gli abitanti del luogo credo invece che per la prima settimana abbiano pensato che fossimo matti, ma sono stati molto disponibili; io poi ho questa personalità abbastanza travolgente che mi porta a non fermarmi mai quando voglio ottenere qualcosa e infatti lì non ho mai ricevuto un no. Da parte loro c’era comunque molto entusiasmo
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Hai qualche aneddoto da raccontare per far capire quale rapporto si sia instaurato con loro?

“Ne ho moltissimi. Una notte Marco Mazzoni, il direttore della fotografia, si è impossessato della radio locale e ha trasmesso tutto il cantautorato italiano, da Mina a Lucio Dalla, facendo impazzire l’isola intera.
Poi mi piace sempre raccontare di come una volta ci siamo dovuti procurare la benzina andando a casa di una signora di 90 anni, che la teneva in casa in dei grossi container. La stessa armada, la capitaneria di porto, spesso è costretta a rifornirsi in questi modi non del tutto legittimi, perché rappresenta l’unica possibile soluzione per spostarsi; lì gli spostamenti, oltre che necessari, sono molto più lunghi e faticosi rispetto a quelli a cui siamo abituati qua (per andare da Santiago all’isola ci vogliono 54 ore).
Anche a noi capitava di essere sempre in movimento e questo, peraltro, mi ha costretto ad adattarmi continuamente al clima e alle variazioni metereologiche”
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Amanda cinematographe.it

Rispetto al tempo, questa sua dilatazione e questa sua sospensione si avvertono moltissimo anche nel film; è effettivamente percepito in maniera così tanto differente dalla nostra?

Amanda è senza dubbio un film lento, ma perché racconta una dimensione lenta. Attraverso il montaggio lo si può rendere un po’ più ritmato, ma è importante non snaturarlo. La protagonista nella sua piccola isola ha tutta una serie di tempistiche che sono completamente diverse da una quelle di una ragazza di vent’anni di oggi. Per intenderci nel film non c’è neanche un cellulare, ma non perché non esistano sull’isola, piuttosto perché, pur essendoci, non ci si fa molto affidamento, dato che spesso non prendono la linea. Questo ci aiuta a comprendere quanto si tratti di una realtà dissimile dalla nostra, ritmata da tempi tutti suoi, e quanto il personaggio di Amanda sia fondamentale per accompagnare lo spettatore in questi tempi morti”.

È un personaggio fondamentale sia per questo discorso sia per il fatto che vedendola non capiamo se sia un’attrice o se abiti quelle zone, sei d’accordo?

“Assolutamente! Sabina ha un viso molto particolare, il nonno era sudanese ma lei sembra quasi indio, anche se più snella nel portamento. Ecco perché le abbiamo chiesto di ingrassare e perché lei, da celiaca quale è, si è dovuta portare valigie piene di pasta senza glutine.
Io credo, infatti, che lei meriterebbe molti riconoscimenti per il lavoro che ha fatto, per l’impegno, per l’attenzione e per il coraggio che ha dimostrato nel decidere di partire per un’esperienza come questa a soli 18 anni”
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L’oltreoceano di Cristiano Bendinelli tra presente e futuro

Sabina Sesenna Aziz  Amanda cinematographe.it

Il film, prima di approdare in Italia, ha girato diversi festival tra il Centro e il Sud America, come sono andati? Com’è il confronto con quelli che abbiamo qua?

“È chiaro che un film low budget, con un difficile linguaggio, non vada ai grandi festival ma a quelli più piccoli, che si rivelano sempre molto interessanti. Siamo stati presi in Cile, in Colombia e in Argentina, non al festival di Buenos Aires, ma ad uno organizzato nei quartieri periferici, molto underground e davvero bellissimo.
In realtà io non sono mai stato molto attratto da un mercato italiano, il film è infatti in lingua spagnola e lo sarà anche il prossimo. Mi sento italiano come sguardo, come visione, ma non mi sento legato all’italianità in senso stretto e non l’ho mai avuto come obbiettivo.
I Festival comunque sono abbastanza simili dal primo mondo al terzo, perché credo che sia l’arte il motore che accomuna le persone, non tanto il luogo. Se parli di cinema con un sudamericano o con un europeo non c’è molta differenza, semplicemente ti mostrano diverse culture. Amanda è infatti profondamente legato ad una cultura sudamericana e la mostra, la racconta.
In Italia siamo stati ad Avezzano, ad Ischia e a Gallio e devo dire che l’esperienza è sempre stata positiva, ho sempre trovato volontari, persone che ci credono e non si fermano mai, pur con tutte le difficoltà economiche del caso”
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Chiudiamo con uno sguardo al futuro: cosa vuoi e puoi dirci rispetto ai tuoi prossimi viaggi e progetti?

Il mio prossimo progetto sarà a Cuba e c’è la possibilità che il protagonista lo interpreti un attore molto importante, di cui però non farò il nome. Riguardo alle tematiche rimango sempre, bene o male, sulle stesse: si parla di attualità e dell’essere umano, poi in Amanda c’è una forte componente contestuale green, che sarà presente anche nel prossimo film ma con diverse sfaccettature, più soggettive, più riflessive, con l’obbiettivo chiaro di installare dubbi nella mente dello spettatore, di suscitare domande e incertezze.
È ovvio che ognuno tenti di evolvere di progetto in progetto; ogni lavoro comporta problemi, errori, ripensamenti e, analizzandoli, si pensa subito a come migliorarsi con il lavoro successivo. Ma, in realtà, se si considera il cinema, o l’arte in generale, come forma d’espressione, tutti i progetti sarebbero da percepire come figli propri; perciò, non è che un lavoro sia meglio di un altro, o viceversa, perché il risultato di ognuno di essi dipende da tanti fattori”
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