Dadapolis: i registi raccontano il film oltre Napoli, da Geolier alla linguistica

La nostra intervista a Carlo Luglio e Fabio Gargano, autori di Dadapolis – Caleidoscopio Napoletano. In sala dal 2 al 4 dicembre

In sala per soli tre giorni, dal 2 dicembre 2024, dopo essere stato presentato in anteprima nazionale alle Giornate degli Autori di Venezia 81, Dadapolis di Carlo Luglio e Fabio Gargano, distribuito da Europictures, ci racconta Napoli con sguardo atipico e inedito, capace di cogliere bellezza e magia dell’inafferrabile oggetto del desiderio e dell’amore, che di fatto è, per raccontarne poi le ombre, la conflittualità e l’abbandono. Ne abbiamo parlato con gli autori del film, Carlo Luglio e Fabio Gargano.

La nostra intervista

Dadapolis: intervista agli autori del docufilm Carlo Luglio e Fabio Gargano

Sulla dimensione linguistica, dapprima come elemento privo di futuro e poi come forma vitale dall’incessante evoluzione. Qual è la verità sulla linguistica napoletana?
F. G – “Come avrai notato, noi questo concetto lo abbiamo inserito nel capitolo del film che racconta la città e le sue trasformazioni. Quindi è un elemento identitario della città. Il suo idioma, il modo in cui si esprime. E come la città è piena di contraddizioni, così anche la lingua. Perché come dicevamo è una lingua antica, che però si rinnova sistematicamente. Perché è viva, come rispondono i nostri stessi autori. Infatti a me faceva un po’ ridere questa cosa, perché proprio mentre montavamo il film, c’era quella grande polemica su Geolier, I P’ ME, TU P’ TE. A Napoli era tutto un dibattito sul fatto che Geolier avesse improvvisato, trasformato, sognato di adoperare una lingua che di fatto è scritta in maniera diversa, immaginandola nuovamente a modo suo, senza rispettare quella originale. Questa polemica evidentemente fa parte di questo filone. Perché fu proprio una polemica molto forte. Si dibatte sulla vivacità vera della lingua, così come sulla battuta che fanno i nostri autori all’inizio, che diventa spiazzante sì, ma al contrario. Loro dicono: “Questa è una lingua che non ha il futuro”. Loro lo dicono in termini grammaticali puramente, ovvero, il napoletano il futuro grammaticalmente lo ha, ma è totalmente desueto. Non si adopera. Per questo motivo sorge una considerazione di una linguistica che si fa prolungamento del pensiero. Per cui sostanzialmente non avere la coniugazione del futuro, significa non immaginare il futuro, oppure anche vivere in un eterno presente? Che non è non immaginare il futuro, ma nemmeno negarlo. Sostanzialmente noi pensiamo che sia nella lingua, sia nella quotidianità, il futuro non venga negato. Sinteticamente possiamo parlare di eterno presente.

La scelta che avete compiuto rispetto al raccontare Napoli esclusivamente dal suo porto, è inusuale e interessante. Come è nata e perché?

C. L – Non è solo il porto, ma è tutta la linea costiera. Quello che si vede nelle immagini del film, non è soltanto il porto di Napoli, ma c’è altrettanto Bagnoli, c’è la Zona industriale est. Quindi non abbiamo girato esclusivamente dal porto, ma dalla linea costiera tutta, sul mare quindi. Quando abbiamo fatto i sopralluoghi, con gli artisti e i ragazzi dell’Accademia di Belle Arti, con i quali abbiamo realizzato questo progetto anche a livello laboratoriale, volevamo appunto vedere prima l’area est dove c’è questo grande abbandono, poi dopo guardando quella che è diventata una delle location principali del film, ci siamo resi conto gradualmente, che era proprio questo l’aspetto che sarebbe diventato protagonista, tanto quanto i personaggi. La linea costiera. Dalla bellezza, all’abbandono. Dalla rovina, allo splendore. Quindi abbiamo pensato, anziché utilizzare le location interne oppure del centro, proprio di arrivare a fare tante ambientazioni, tante canzoni e performance, radicate solo nei luoghi detti in precedenza. Quindi è nato tutto in divenire. Questa sensazione data dalla varietà di artisti, è una sorta di codice genetico che ha prodotto qualcosa di diverso e nuovo, vivendo proprio il mare come aspetto fondamentale per l’immersione nella creatività e nell’arte, in ogni sua sfaccettatura. Per rappresentare questo codice genetico, rispetto alle emigrazioni, a tutto ciò che ha a che fare con gli scambi commerciali, la dismissione anche di questa città e delle sue aree più abbandonate, alla fine diventa proprio co-protagonista. Noi guardiamo alla costa, che racconta la città e che a sua volta racconta la storia. Però forse inconsciamente per entrambi, il motore primo è quello di vedere una costa meravigliosa, abbandonata in compagnia della sua area industriale.

Il concetto di fuga si lega a quello di appartenenza. Quando è bene fuggire per voi e ancora, cosa significa realmente appartenere a Napoli?

F. G – Partendo dalle questioni materialistiche, questa fuga che raccontiamo e che racconta chi parte anche come ricerca – consideriamo che come viene detto anche nel nostro film, noi siamo un popolo di emigranti -, si confonde con il processo di emigrazione, quindi con una forma di necessità. Perché se resti non hai magari la possibilità di fare quello che vorresti, perché malgrado la ricchezza, c’è anche tanta povertà di proposte. Quindi è una fuga che per tanti può essere ricerca. Come dice una ragazza nel film: “Guardare da lontano, ti aiuta a prendere le misure”. Quella è la vera fuga. Così come a volte si può avere a che fare con una vera e propria emigrazione all’interno della città. Allora queste sono fughe dell’anima, che però si intrecciano con la necessità di espatrio, emigrazione. Per quanto riguarda specificatamente gli artisti, che non è un caso spesso, forse lo è anche in quel caso, l’emigrazione è anche e soprattutto voglia di scoprire il mondo per poi riportarlo anche nella creatività. C’è da dire che a Napoli, il mercato di Napoli, un altro argomento che abbiamo affrontato, è molto provinciale, difficile e ristretto. Per molti c’è bisogno quindi di andare via. Perché tutto intorno si chiude. Noi rispettiamo questa posizione, ma rispetto ancor più e non perché noi siamo tra questi, coloro i quali resistono, nonostante tutte le contraddizioni, difficoltà di essere liberi e indipendenti. Forse poi anche chi resta, non resta perché è libero. Ma perché si sente costretto a farlo. Non riesce, costringendosi a costruire a Napoli il punto di nascita e partenza per la creatività.

Come è avvenuta la scelta degli artisti, che sono poi i reali protagonisti di Dadapolis?

Dadapolis: intervista agli autori del docufilm Carlo Luglio e Fabio Gargano

C. L – Il lavoro degli studenti, quelli più direttamente laboratoriale è esterno a questo e lo ha seguito quasi interamente Carlo, che insegna all’Accademia. La scelta degli artisti in alcuni casi, è stata volutamente casuale. Noi non avevamo nessuna pretesa di scegliere il meglio, di scegliere quel tipo, o quell’altro tipo. Sicuramente ci interessava raccogliere e coinvolgere artisti, che portano avanti un discorso personale, quindi indipendenti, o almeno, questa mi sembra essere ormai la parola più comunemente adoperata. Per il resto, il principio che anima questa scelta, era il fatto che tutti gli artisti erano tali in quanto semplicemente artisti. Tutti i nostri ospiti erano semplicemente voci di un coro nella maniera più orizzontale possibile. Per quanto può esserci uno più esperto, così come uno più anziano. In ognuno di loro c’era la dignità di essere rappresentante di essere rappresentante di una categoria, a prescindere dal successo del lavoro artistico. Volevamo un parterre che potesse essere il più possibilmente rappresentativo di ciò che andavamo cercando e nulla più.

Oggi che Dadapolis ha raggiunto le sale cinematografiche, qual è il momento più significativo e che vi ha colpiti di più dell’intera esperienza?

C. L – Sono due i momenti che mi porto dentro. Il primo, quando viene coverizzata Terra Mia di Pino Daniele e quando Enzo Moscato fa questo pezzo intitolato PIÈCE NOIRE, con tutto il panorama di Bagnoli. Due momenti musicali. È ovvio che la musica stimola le emozioni, molto più di tante altre cose, però questo mi è rimasto dentro.

F. G – La tua domanda è una domanda difficile perché avendoci lavorato tanto, è chiaro che poi quello che hai fatto e che fai ti piace. A me se devo dire è piaciuto il concetto del flusso, che pensiamo di essere riusciti a realizzare. Ovvero, il fatto di adoperare frammenti diversi, che nella nostra intenzione e spero sia arrivata, perché poi l’abbiamo parcellizzata in differenti capitoli così da sottolinearne l’importanza, era quella di proporre e raccontare un discorso unitario, dall’inizio alla fine, adoperando parole miste, prese a random, inteso in senso Dada, che appartiene poi alle immagini e non al senso. Perché questo non è mai casuale, improvvisato, lasciato all’interpretazione. Piuttosto una costruzione di senso, che cerca di portare avanti un unico discorso dall’inizio alla fine, servendosi proprio di quella struttura in capitoli detta poco fa, ovvero una città con un’identità, le sue trasformazioni, il momento in cui queste trasformazioni impattano con il mercato e via dicendo. C’è poi il concetto della morte come rigenerazione e come qualcosa che appartiene molto e da sempre alla cultura partenopea. Il culto dei morti, che è fondante. A Napoli la linea di confine che separa i vivi dai morti, è sempre molto labile. Riassumendo, la cosa che a me rimane dentro è il fatto di essere riusciti a costruire un discorso unitario, con tutti questi specchi che si riflettono tra di loro, con tutti questi frammenti che rimandano da una parte all’altra. Non mi piace fare preferenze. Però se ti devo dire qualcosa che per me è significativo davvero, è il momento finale con James Senese. Mi ha colpito quella sua riflessione sul mare e continua a farmi venire i brividi. Al di là della poesia con la quale ti – e ci – racconta, un concetto così complesso e così semplice, quale è questa massa azzurra, che ti condiziona la vita, James ci confessa che: “Noi respiriamo non perché c’è l’aria, ma perché vediamo il mare”, che forse è la cosa più Dada del film. Questo salto di senso tra il vedere, il respirare e il guardare davvero. Tra l’esistere e il contemplare. Quando James parla è un flusso di musica continua, improvvisata e sensata, emotiva e potente. La sua parola è musica. Il suo modo di esprimersi è musica ed è un flusso musicale, che ti emoziona. Quel discorso finale di James per me è sì, la cosa che mi ha colpito ed emozionato di più. Un’istintiva e spontanea riflessione, che restituisce una grande verità, che sta non soltanto in un fenomeno di naturalezza, ma proprio nella più totale libertà di esprimersi. Questa cosa in James diventa apoteosi, proprio per il suo modo di esprimersi così jazz, così blues e libero.