Domenico Iannacone: “Che ci faccio qui può essere l’intensità del cinema e la verità del documentario”
La nostra intervista a Domenico Iannacone, ideatore, conduttore e regista di Che ci faccio qui, docu-reality in onda su Rai 3.
Il giornalista italiano Domenico Iannacone torna a raccontare, nel docu-reality Che ci faccio qui, le problematiche legate all’immigrazione e la conseguente integrazione, alla criminalità organizzata e alle dinamiche sociali legate al lavoro. Racconti di coraggio, di resistenza e lotta, ma anche storie di chi non è riuscito a realizzare un progetto di vita e che, dopo anni, non ha ottenuto i primi diritti degli esseri umani. Accanto a questo Che ci faccio qui affianca sempre l’altra faccia della medaglia: chi è riuscito nel proprio intento, chi ha dato vita a un sogno, dove il sogno era quello della propria dignità e identità umane. Quello di una casa e di un lavoro e di un futuro diverso per i propri figli. Successivo a I dieci comandamenti, Che ci faccio qui, dal 2019 porta in televisione momenti drammatici e figure modello d’esempio per tutti, diritti conquistati e piccoli traguardi che si raggiungono, insieme, ogni giorno. Per la 6ª edizione Domenico Iannacone torna al Sud, in Calabria e incontra ancora una volta Bartolo Mercuri, che lo accompagnerà a scoprire cosa è cambiato a Rosarno, dove una Tendopoli, 11 anni fa, ospitava più di 400 persone. Nella seconda parte Iannacone incontrerà la figura di Antonino De Masi, da anni sotto scorta dopo aver denunciato l’ndrangheta, e che mai ha ceduto al ricatto, sacrificando la sua stessa vita. Che ci faccio qui, prodotto da Rai 3 e dalla Ruvido Produzioni si articola quest’anno, nel 2024, in 3 serate, con la seconda puntata in onda il 6 giugno 2024 e la terza e ultima il 13 giugno 2024, sempre alle 21.30 su Rai 3. Ecco di seguito la nostra intervista al regista e conduttore Domenico Iannacone.
Intervista a Domenico Iannacone, ideatore e conduttore del programma Che ci faccio qui, nuovamente in onda su Rai 3
Che ci faccio qui ha avuto molte edizioni ed è successivo a I dieci comandamenti. Cosa l’ha spinta prima di iniziare con I dieci comandamenti ad affrontare queste tematiche e a focalizzarsi sul giornalismo d’inchiesta?
“Io ho avuto un percorso variegato in Rai, i primi programmi avevano la tematica del lavoro più come sfondo, sono stato ad esempio inviato di Ballarò, ho collaborato come autore con Presadiretta, e poi c’è stata come un’evoluzione. In questi anni e precedentemente volevo approfondire maggiormente alcuni temi e ho cercato uno spazio congruo per poter raccontare queste storie. Prima mi mancava la metrica per poter affrontare le problematiche delle quali ho parlato negli ultimi anni. C’è stata una presa di coscienza, e questa ha sempre bisogno di un tempo necessario, perché sennò si rischia di parlare in maniera superficiale. All’inizio è stato anche un investimento, per preservare la mia idea di televisione“.
C’è una necessità in particolare che l’ha riportata a intraprendere un viaggio nei luoghi dove era già stato, incontrando le stesse persone che anni prima avevano dato la propria testimonianza.
“È una modalità sistemica, perché le idee non possono terminare con un passaggio televisivo, sono radicate nel territorio, hanno la propria profondità sociale e culturale. E il servizio pubblico lo deve fare, è un mandato, un obbligo morale: se io vado in un luogo e poi come sono arrivato lì vado via, come giornalista non ho affrontato a pieno ciò che accade, non so davvero come vivono le persone in quelle determinate situazioni. Per capire in maniera chiara, netta, inequivocabile, la trasmissione diventa politica, parlandone quindi sempre“.
È anche importante per Che ci faccio qui arrivare ad anni di distanza. I dieci comandamenti, nel 2013, era successivo ai fatti del 2010 che hanno avuto un forte risalto mediatico. Mentre adesso, anche senza degli episodi specifici, che spesso possono colpire l’opinione pubblica, le situazioni drammatiche esistono lo stesso.
“Sì, io torno in quel luoghi nel momento in cui non c’è sovraesposizione mediatica. A volte è come se queste li contaminasse, si arrendesse alle storie, le appiattisse, rendendole note solo in quel momento. Nei due anni e mezzo in cui sono stato fermo, ho rallentato e cercato un approfondimento sempre più serio attraverso l’indagine sociologica“.
Che ci faccio qui è arrivato anche in teatro. Secondo lei il palcoscenico e il contatto diretto con un pubblico sono un buon veicolo per il racconto d’inchiesta?
“Il giornalismo d’inchiesta è una forma di resistenza civile, che viene congelato dalla televisione, per proteggere le storie. La scelta più idonea è quella libera per antonomasia, perché andando in scena con la parola c’è un contatto più diretto, ma in televisione ci sono le immagini della trasmissione, mostrate nella loro nudità, al massimo della propria trasparenza. Stessa cosa che ho cercato di fare e riportare in teatro attraverso le mie emozioni, quelle che ho provato recandomi in quei luoghi“.
Che ci faccio qui è un programma che viene classificato come documentaristico, però in realtà è molto cinematografico.
“Sì, mi fa piacere che questo si noti. Perché il cinema ènelle mie corde, per come lo intendo io è uno dei modi più nobili per raccontare delle storie. C’è un rigore nelle immagini, una densità emotiva, un’importanza e ricerca dei silenzi. I miei silenzi nel programma sono sempre elevati al racconto, non è importante essere solo un giornalista che parla, c’è sempre bisogno di molte pause, per riflettere, e le pause sono estremamente cinematografiche. Credo che il programma Che ci faccio qui sia cinematografico nella metodologia, rappresenta l’essenza naturale di ciò che si racconta, non si recita il soggetto. E la realtà è tutta vera. A differenza del cinema, dove le persone si dimenticano delle videocamere e si affidano a me, io faccio allo stesso modo, perdo di vista la telecamera. Io so qual è il registro narrativo, è nella regia della scena, però si innesca poi quel meccanismo naturale, senza rifacimenti, quindi con un cinema in presa diretta puro. E questo consente di avere l’intensità del cinema e la verità del documentario“.
Che ci faccio qui offre uno spunto di riflessione, tra gli altri, molto drammatico, relativo alla speranza, che è stata tolta a queste persone. Però poi nella prima puntata, nella seconda parte, quando lei incontra De Masi, è come se questa speranza abbia modo di riaccendersi. Perché passa il messaggio che combattere sia sempre importante e che lo sia soprattutto non farlo da soli.
“Sì. Perché spesso in tv i programmi sono monocorde, mantengono sempre la stessa linea, o nera o bianca. Con questo viaggio nel profondo Sud, non c’erano alternative se non di decodificare questa metodologia. É un viaggio duplice quello nel nostro mezzogiorno. Si entra in contatto con le cose più dure, crude e complicate della vita, e al tempo stesso c’è possibilità di cogliere tratti di bellezza estasianti. Ad esempio nella puntata di giovedì torno a Rosarno, dove incontro una di comunità di bulgari. Molti di loro vivono stipati in quindici dentro una stanza, molte immagini hanno quella crudezza tipica di una situazione di disagio. E poi compio questo atto come di risalire la china, passando a una più visione onirica di quel luogo ed è lì che la puntata stessa si sposta sulla figura di Nick Spatari. Spatari insieme alla moglie ha fondato quella che viene chiamata la Cappella Sistina della Calabria, ai piedi dell’Aspromonte. Ed è da lì che mi ricollego a Cosenza, all’oggi: spesso non ci si aspetta che in un mondo ancorato al passato, nella città di Cosenza in questo caso, sette, otto anni fa, si è dato vita all’azienda di sicurezza informatica che è stata acquisita da una multinazionale giapponese che si occupa di intelligenza artificiale e che ne ha fatto di Cosenza uno dei tre poli al mondo. Sono state assunte quattrocento persone, tra filosofi, ingegneri ed esperti di intelligenza artificiale. Tutti dall’università della Calabria, senza dover seguire quel fenomeno che si chiama fuga di cervelli. Incontrerò anche Gianluigi Greco, uno dei massimi esperti al mondo di intelligenza artificiale, professore universitario di matematica e informatica. Quindi per rispondere alla domanda sì, io voglio mostrare come in un luogo che sembra arretrato improvvisamente possa riaccendersi qualcosa di folgorante, per raccontare nella sua pienezza una terra dai molti problemi e dalle molte facce. La Calabria è una regione che ha nel proprio DNA quella di popolo accogliente. E invece se ne racconta soltanto quello mano di vernice nera. Ad esempio la storia di Gianluigi Greco, è la prova di come i giovani siano riusciti a restare lì, è la testimonianza di un percorso di studi di livello, è il modo per trovare subito lavoro e tante società stanno nascendo attorno a quell’azienda. C’è possibilità di strutturare la tua vita lì, di iniziare ad essere autonomo“.
Perché secondo lei, oggi, in un Paese dove il problema dei diritti esiste, ed è sentito, non si ci concentri abbastanza su quei diritti che sono primari, e che riguardano la dignità umana, che è il primo diritto, quello per eccellenza.
“Dalla dignità umana e attorno a questo diritto, ci sono quello del lavoro, dell’accoglienza e dell’istruzione. Partono tutti da quello. Eppure sono i diritti essenziali i primi a venire meno, io sono logorato dalla mancanza di quei diritti elementari, quelli della dignità umana. Ad esempio il personaggio di Alì, che io incontro nella prima puntata di questa nuova edizione, è la testimonianza dell’integrazione attraverso la lingua, che lui conosce a menadito. È qualcosa che va oltre il semplice populismo, perché Alì è un uomo integrato. Io e Mercuri nei prossimi giorni ci recheremo dal prefetto di Reggio Calabria, per arrivare a quel permesso di soggiorno, a quel documento che gli permetterà di avere la propria dignità e in modo che abbia un lavoro“.
Quindi ci sono stati dei riscontri nella pratica, a seguito di Che ci faccio qui?
“Sì, ogni puntata è come l’inizio di un periodo in un ufficio di collocamento, diventa un luogo di intermediazione. Riceviamo offerte di aiuti per le prime necessità della gente. È la cosa più gratificante e bella che possa accadere“.
Che ci faccio qui ha sempre colpito per la grande umanità che si percepisce. Secondo lei oggi si è un po’ persa? C’è meno spazio per questa sensibilità?
“Sì, analizzano di meno i bisogni della gente, si tende a rinchiudersi negli studi televisivi, a parlare. Ma sono parole che non hanno senso, se poi non trovano una loro ricognizione reale. Io sono nauseato dai talk televisivi, operano un’anteposizione demagogica. Dopo la prima puntata di Che ci faccio qui molte persone mi hanno scritto in privato. C’è stata una vera e propria tribuna elettorale che è entrata subito dopo il mio programma, ed era straniante passare dalla realtà alle parole vuote di uno studio televisivo“.
Sempre relativamente al tema della speranza, il documentario si chiude presentando una famiglia che ce l’ha fatta. Però c’è un’amarezza di fondo perché è grazie a una persona singola, un volontario, che ha deciso e ha scelto di dare loro questa casa. È quindi evidente come l’aiuto arrivi dai volontari o dai cittadini privati, e non dallo Stato.
“Sì, l’unico intervento dello Stato è stato trasformare una tendopoli in una baraccopoli, la situazione di degrado è la stessa, anzi è sempre peggio. Vuol dire che l’atteggiamento è simile a quelli che nascondono la polvere sotto il tappeto e che dicono: i diritti stanno lì sotto, teniamoli lì“.
Qual è il suo pensiero nei confronti dei prodotti cinematografici che presentano questo tema, perché finalmente la situazione dei migranti sta diventando anche di interesse per i lungometraggi o le serie televisive.
“Sì, finalmente ci sono film che ne parlano. Io amo molto il cinema, penso ad esempio a Garrone che ha fatto un lavoro straordinario. È chiaro che abbiamo vissuto un periodo in cui il cinema è tornato ad essere anche impegno civile, quando il cinema riesce a trasmettere con tanta forza e potenza delle tematiche così importanti, si capisce proprio perché queste problematiche devono essere narrate. È un’arte che si eleva, e non è più solo il documentario a farlo. Io guardo molto il cinema, mi ha nutrito fin dall’inizio, dal neorealismo, da De Sica, Elio Petri, Rosi, autore che hanno raccontato la nostra nazione. Il cinema sempre fonte d’ispirazione”.