Il cast racconta Echo: “La Marvel è al suo meglio quando lascia che siano i personaggi a condurre le danze”
Incontro con il cast di Echo, la serie spin-off di Hawkeye, su Disney+ con tutti gli episodi in contemporanea a partire dal 10 gennaio 2024.
Si può misurare la novità di Echo in molti modi. La serie tv, spin-off di Hawkeye (2021), appartiene al Marvel Cinematic Universe e sarà disponibile su Disney + a partire dal 10 gennaio 2024 con tutti gli episodi fruibili in contemporanea; è la prima volta che succede. A cambiare sul serio le carte in tavola – protagonista è Maya Lopez/Echo, che nello show principale è una villain e qui è molto molto ambigua – è la modernità e l’inclusività della rappresentazione. Non soltanto lo sfondo, siamo in Oklahoma, nel cuore della Nazione Choctaw; anche il vissuto dell’interprete principale, Alaqua Cox, trasmette un forte senso di novità.
Detto questo, non c’è storytelling Marvel senza famiglia. Echo è la storia di una giovane donna in bilico tra due famiglie, sintetizza efficacemente Alaqua Cox, “una biologica e l’altra adottiva. Maya è una ragazza indigena (Choctaw, ndr) non udente che cerca di ricostruire un rapporto con la sua famiglia biologica dopo essersi resa conto di essere stata tradita dall’altra, dallo zio in particolare”. Tra l’attrice e il personaggio c’è un forte parallelismo, costruito “sul trauma. Siamo entrambe cresciute con il trauma. Ho subito un’amputazione, da bambina. Ho affrontato diverse operazioni che mi hanno forgiata, facendo di me una guerriera. Anche Maya ha perso prematuramente la madre e ha sperimentato molte situazioni traumatiche. Ci sono anche differenze tra noi, ma credo che in questo ci somigliamo: siamo due guerriere”.
L’azione di Echo richiede preparazione, disciplina e addestramento. Nulla di tutto questo ha spaventato la protagonista, cresciuta “facendo molto sport. Ho un fratello più grande che è un tipo atletico. Lottavamo, ha solo un anno e mezzo più di me, mi ha resa più forte”. Un aspetto su cui ha dovuto lavorare tanto, invece, “è stata tutta la parte degli stunt. Mi allenavo cinque giorni a settimana con il mio team. Venendo dal mondo degli sport, non ne sapevo niente. Ho imparato la coerografia, i colpi, le piccole mosse. La parte migliore delle riprese, fantastica e molto eccitante”.
Echo: tutta questione di famiglie buone e famiglie cattive
Se Maya abbandona New York per l’Oklahoma, è per lasciarsi alle spalle il doloroso tradimento di cui è responsabile lo zio adottivo, Wilson Fisk/Kingpin. A interpretarlo è Vincent D’Onofrio. Se qualcuno gli fa i complimenti per il suo lavoro nello show, risponde schernendosi. “Beh, già nei fumetti il personaggio è molto stimolante. Grazie a un ottimo lavoro di scrittura ho potuto fornire la mia versione di Kingpin. Senza gente brava a scrivere, non potrei fare molto di più che presentarmi la mattina sul set”. Del suo passaggio su Echo apprezza la sottigliezza psicologica di Kingpin, “mi sembra che il personaggio entri nella storia di Maya nel modo giusto. Il mio rapporto con lei è emotivamente intenso e il tono è molto grintoso. In queste condizioni posso dare il meglio”.
Vincent D’Onofrio, schivo se deve ricevere complimenti, è molto generoso quando si tratta di farli. Della partner di set dice, “Alaqua? Sa quello che fa. Non è passato giorno senza che ne fossi impressionato. Ovviamente, la qualità della scrittura ha contribuito”. La relazione tra Maya e Wilson ha tratto beneficio dal mix di realismo e spettacolarità. “Di base, è un rapporto padre e figlia, meglio, zio e nipote, al cui interno abbiamo trasferito l’intensità tipica di queste relazioni nella vita reale. Nello stesso tempo, abbiamo aggiunto un iconico ingrediente Marvel, che sarebbe lo scontro tra bene e male. Se il mix funziona, è perché alla base ci sono emozioni autentiche”.
Chaske Spencer, nella parte di Henry, ricorda di “aver ricevuto una chiamata, qualche tempo fa, in cui mi veniva chiesto di partecipare al progetto. Ho accettato subito. Mi è piaciuto lavorare con tutti, con Vincent, con Alaqua che è davvero straordinaria e da cui ho imparato molto. Questa è la parte migliore del lavoro, secondo me. Trascorrere del tempo con gente di talento per creare qualcosa che poi offri al pubblico”. Del suo personaggio si può dire che sia più o meno un intemediario. “Si trova un po’ a mediare tra il passato e il presente di Maya, è testimone di questa tensione. Ovviamente, nel momento in cui lei entra nella sua vita, non ha più controllo su niente. Lo vedo come una persona normale, alle prese con una situazione eccezionale”.
Famiglia per Maya non significa solo il rapporto complicato con lo zio criminale. C’è anche il legame biologico, il retaggio Choctaw, l’Oklahoma. E la sorella Bonnie, rimasta lì mentre Maya cresceva da sola a New York. Nella parte di Bonnie, Devery Jacobs. “Era necessario che il rapporto tra Maya e Bonnie fosse tratteggiato in maniera realistica. Poco prima di andare ad Atlanta a girare la serie, mi sono fermata al Centro Culturale Choctaw di Durant e qui ho trovato un testo in cui si parlava del rapporto tra due ragazze, due cugine, vicine al punto da sembrare sorelle. Ne ho parlato ad Alaqua. Bonnie è la persona che Maya avrebbe potuto essere, fosse rimasta in Oklahoma”.
Delle virtù di una corretta rappresentazione. E del futuro della Marvel
In che modo una corretta rappresentazione abbia (positivamente) sconvolto l’architettura tematica e narrativa di Echo, ce lo racconta Sydney Freeland, regista e produttrice esecutiva. “La rappresentazione per noi era una necessità ineludibile. Prima di tutto, abbiamo chiesto ai Choctaw il permesso di filmarli, perché con i Nativi funziona così, di solito: si arriva da loro con il film già pronto. Noi volevamo coinvolgerli”. Il passo successivo è stato iniziare a dialogare con la Nazione Choctaw. “Volevamo che la rappresentazione della lingua, della cultura, dell’esperienza Choctaw riflettesse il massimo grado di autenticità”. Gli stereotipi e le banalizzazioni sono sempre in agguato. “Capita spesso di parlare delle tribù di Nativi Americani come se fossero un blocco monolitico e senza sfumature, ma non è così. Io sono una Navajo e sto raccontando una storia Choctaw. Dovevo coinvolgerli a ogni costo”.
Sul piano narrativo la sfida di Sydney Freeland consisteva nel giocare con e sull’ambiguità di Maya, cattiva in Hawkeye e qui moralmente in bilico. “Dovremmo chiederci: ma come ha fatto, questa Nativa Americana non udente e amputata dell’Oklahoma, a entrare a far parte dell’armata di Kingpin? Che tipo di persona è, a casa?“. Con la protagonista condivide un tratto importante “l’identità etnica sdoppiata, indigena e statunitense. Se a questo aggiungiamo l’elemento Choctaw, abbiamo una storia molto divertente. Tra l’altro” prosegue “abbiamo filmato scene ambientate in un’America indigena, precedente all’arrivo degli europei. Senza il contributo Choctaw, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile. Credo testimoni il nostro sforzo di raccontare una storia autentica da cima a fondo”.
Per Brad Winderbaum, produttore esecutivo, “la Marvel è al suo meglio quando gli autori lasciano che siano i personaggi, diciamo così, a condurre le danze. Avendo visto Alaqua in Hawkeye sapevamo cosa aspettarci da lei. Sapevamo che, seguendola, ne avremmo ricavato un viaggio fantastico. Echo è il nostro primo show TV-MA (non adatto a un pubblico giovane, ndr) e non è stato intenzionale. Abbiamo seguito Maya e da qui è scaturito il tono della serie, più grezzo e realistico”. Lecito domandarsi se questa inclinazione per uno storytelling più maturo, cupo e realistico sia destinata a contaminare l’universo Marvel nel prossimo futuro. Ancora Brad Winderbaum. “I fumetti sono stati chiamati la più grande storia ininterrotta di sempre. Certamente, la più lunga. E ci sono molte zone inesplorate. Maya ci ha permesso di scoprire una di queste. Dal mio punto di vista, è il futuro della Marvel. Storie inaspettate, focalizzate sui personaggi“.
Da dove parte e come si costruisce il tono della storia + l’etica professionale di Vincent D’Onofrio
Anche il resto del cast approva la rappresentazione aperta di Echo e ci tiene a farlo sapere. Alaqua Cox si dice onorata “di rappresentare una piattaforma di visibilità per tante voci indigene. Fantastico, aver trovato le persone giuste per questi ruoli e averle poi inserite in un contesto di grande autenticità”. Per Devery Jacobs, il punto focale è la mancata rappresentazione nelle storie del passato, un gap da colmare. “Per citare la comunità disabile, non puoi parlare di noi senza di noi. Vale per tutte le comunità marginalizzate. Per tantissimo tempo a Hollywood la rapresentazione della realtà indigena è stata assente, o fasulla”. Sulla stessa linea Chaske Spencer, che rievoca i giorni “a New York, da giovane attore che faticava a trovare ruoli indigeni ben costruiti. Spesso dovevo accontentarmi di brutte parti. La cosa importante è che oggi ci siano le facce giuste dietro la macchina da presa. Perché è lì che sta il vero controllo”.
Un punto di forza di Echo è l’ambigua definizione psicologica della protagonista, una villain complicata. Sidney Freeland sa che “dipende tutto dalla storia. Chi sono i personaggi? Da dove vengono? Dove vanno? Qual è l’emozione? Qui il punto di partenza era Maya Lopez, che in Hawkey era una villan. Poi c’è Wilson Fisk, criminale anche lui. La cosa più naturale era dirigersi verso il sottobosco malavitoso di New York”. Una cosa era chiara sin dall’inizio: sì all’ambiguità, ma non al prezzo di annacquare il personaggio o, peggio ancora, di preparare il terreno per improbabili redenzioni. “Non avevamo l’intenzione di trasformare Maya in Captain America”. L’etica professionale di Vincent D’Onofrio è rigorosa e sobria. “Il mio principale obiettivo è sempre stato servire la storia, sia in Hawkeye, sia qui. Evolvendo in continuazione, che è la cosa che amo di più nel mio lavoro”.
La fan base non lo spaventa per niente. “Un mucchio di gente mi ha chiesto se avere una fan base così numerosa mi spaventasse. Ho risposto di no. La vedo come un’ispirazione per le cose che faccio”. Un buon lavoro dipende da tanti fattori, avere accanto la gente giusta è fondamentale. Sempre D’Onofrio. “Molto della mia performance dipende da Sydney Freeland. Funziona così: lo script ti gratifica e il passo successivo sei tu che vuoi gratificare il regista. E Sydney ha delle qualità per cui ti viene voglia di fare la cosa giusta per lei. Poi, lasciate che lo dica” prosegue, chiaro che non vuole più trattenersi. “Devo proprio. Ci sono molte cose speciali, qui. Una è Sydney. L’altra è che la fotografia l’ha curata una donna, la scrittura è di una donna, la protagonista è una donna. L’ho detto anche ai miei figli: mai avuta una lavorazione in cui filasse tutto così liscio! Non succede spesso”.