Fabio Lovino: intervista al regista di Mothers. L’amore che cambia il mondo
Mothers. L’Amore che cambia il Mondo, presentato al Taormina Film Festival 2016, è un documentario che mette sotto i riflettori le donne nella loro sfumatura più naturale, quello dell’essere madre, ma in situazioni di disagio troppo spesso oscurate dalla poco informazione. Noi di Cinematographe abbiamo avuto l’occasione di parlare con Fabio Lovino, fotografo per professione (nel suo portfolio personale anche Robert De Niro, Al Pacino, Benicio del Toro, Terry Gilliam, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Isabelle Huppert, David Cronemberg, David Lynch, Marco Bellocchio) e regista per spirito etico e volontà di raccontare storie che non possono e non devono rimanere sedimentate nella quotidianità di chi le subisce. Il suo è un viaggio che parte dalle periferie di Palermo, Napoli e Torino, per dilatarsi verso le favelas brasiliane, i villaggi del Nepal, della Cambogia, in un rincorrersi di scatti e interviste inedite che denunciano e annunciano la brezza profumata di un cambiamento che deve ancora del tutto compiersi.
Mothers. L’Amore che cambia il Mondo sopraggiunge all’attenzione del pubblico in un periodo alquanto delicato, in cui si parla sempre più spesso di donne e femminicidi. Abbiamo chiesto a Fabio Lovino come è nata l’idea di creare questo documentario e in quale spazio si colloca, dal momento che molti film affrontano la questione ma pochi riescono ad apportare concretamente dei cambiamenti. “Eh si, purtroppo il numero dei femminicidi e di violenze supera di molto ciò che si immagina e che si può raccontare”. – afferma il regista – “La nostra non è una fiction, raccontiamo queste storie per dare una voce alle persone che evidentemente non possono raccontare ciò che gli succede. In casi di violenza c’è infatti sempre vergogna di raccontare ciò che si è subito, in secondo luogo c’è la paura di denunciare – perché solo in pochissime percentuali avviene – e quando le donne riescono ad affrancarsi e a denunciare la violenza subita c’è sicuramente un passo avanti. Mothers è nato da un rapporto tra me e WeWorld, la Onlus milanese con la quale ho lavorato e insieme alla quale sono andato in giro per il mondo per raccontare le storie di queste donne. Ho conosciuto questa onlus quattro anni fa per intraprendere un lavoro contro il femminicidio, raccontato però con una presa di posizione da parte degli uomini, ossia dal loro punto di vista. Perciò avevamo fatto una doppia copertina per Io Donna con una quindicina di attori italiani molto famosi e poi abbiamo fatto un’altra campagna per il Corriere della Sera in cui a parlare erano anche Moratti, Prandelli e quindi non solo persone legate al mondo dello spettacolo”.
Andando più nello specifico, grazie a Mothers. L’amore che cambia il mondo hai girato il mondo: dall’Italia, in cui spesso ed erroneamente si reputano impensabili certe situazioni, fino a paesi come Brasile e Nepal. Secondo te in quale misura l’Italia è disagiata e cosa ancora deve fare per l’emancipazione femminile?
Le storie che abbiamo raccontato sono, purtroppo, molto simili, perché unificate dalla similitudine di situazioni che abbiamo incontrato. Che sia Napoli, Palermo, ma sicuramente anche Roma, Milano… Noi abbiamo raccontato una parte di queste città e sicuramente c’è una differenze con la Cambogia, il Nepal e altri paesi. Il Italia ad esempio ci sono più mezzi, come il Telefono Azzurro e il Telefono Rosa, mezzi creati per dare un aiuto civico, mentre in altri paesi chi subisce violenze domestiche non ha i mezzi per denunciare e comunicare, specie poi se non c’è una rete di informazione anche educativa. Dall’altra i casi sono invece molto simili… ci sono donne di 60 anni con figli di 47 anni, quindi li hanno fatti a 13 anni e adesso non è cambiato nulla, anzi i numeri sono aumentati.
Nei paesi occidentali, che si reputano più civilizzati, si parla sempre più spesso dell’emancipazione femminile in rapporto alla posizione professionale. È certamente una necessità differente: l’affermazione lavorativa da una parte e la sopravvivenza dall’altra. C’è un collegamento tra queste situazioni e se si quale?
Credo che nella storia umana i cambiamenti necessitano di molto tempo, solitamente si parla di ere. Penso che il grande cambiamento che c’è stato nel mondo è che quasi tutte le donne lavorano, quindi questo ha obbligato le scuole a tenere i bambini fino alle 16.30. Questo per la donna ha rappresentato un’emancipazione ma anche una grande lotta, dal momento che i diritti delle donne sul lavoro in alcuni casi non sono riconosciuti come per gli uomini. È chiaro che nei villaggi il lavoro delle donne è minore o meglio si occupano d’altro, si dedicano all’agricoltura, al cucito. Vengono però aiutate anche dal microcredito: un piccolo fondo che le aiuta a crearsi dei lavori, considerando che spesso si trovano in situazioni in cui i mariti non lavorano. E per l’idea macista in cui riversa il mondo spesso il mancato lavoro dei mariti porta a violenze e gelosie. Poi sono le donne che portano avanti il ménage famigliare e hanno la responsabilità dei figli.
Continuando a palare delle problematiche che affliggono il gentil sesso, spesso legate a un mancato sostegno da parte delle istituzioni, Fabio sottolinea come per le donne sia fondamentale il benessere dei figli, che le porta a mettersi in secondo piano e a non pensare alla loro situazione. “Il femminicidio costa allo stato, alle donne e a chi esercita violenza. C’è una spesa di centinaia di milioni di euro e chi poi agisce di solito sono le associazioni private, lo stato al massimo dà dei fondi. C’è inoltre da considerare che in questi casi c’è anche dispersione scolastica, quindi spesso non hanno la capacità culturale e dialettica di difendersi. A questo di aggiunge che le associazioni impiegano anni per cercare di farsi capire e integrarsi nel territorio. L’idea di avvicinarsi agli altri paesi sembra essere nata con gli europei ma in realtà c’era già da prima; andare in certi luoghi credendo di essere portatori della verità non giova a nessuno, bisogna saper ascoltare”.
Passando a un discorso più artistico, qual è la differenza che hai riscontrato nel passaggio dalla fotografia alla regia?
È in realtà un passaggio sempre condiviso, io continuo sempre a fare il fotografo ma giro anche documentari. Il questo filmato c’è certamente un filtro estetico dal quale non potevo prescindere, nel senso che in tv si vedono immagini sempre più piatte senza nessuna profondità e cura; noi invece abbiamo cercato di tenere alta anche l’immagine cinematografica. Ci siamo mantenuti spesso fuori fuoco per rendere il documentario una fiction, per non tenere la macchina ferma e le persone ferme. Loro spesso ci narrano le loro storie e camminano quindi ogni tanto volutamente ci sono delle sfocature, che servono a legarci alla realtà.
Fabio, essendo un fotografo, hai immortalato molte personalità famose e le tue opere hanno spesso abbellito le copertine delle più importanti riviste italiane e non solo. Chi ti è piaciuto maggiormente fotografare e chi invece vorresti immortalare con la tua macchina fotografica?
Il destino mi ha portato a incontrare un sacco di gente che stimavo molto, specie nella musica. Ho lavorato e lavoro ancora adesso con i Dire Straits, Morrissey, Elisa, Caparezza … sicuramente mi piacerebbe fotografare Bob Dylan, te lo dico di getto perché è un grandissimo artista che è riuscito a legare tre generazioni di amanti della musica e ha anche legato movimenti di protesta.
Uno dei visi ai quali sono più legato è quello dell’attrice svedese Tilda Swinton, credo sia uno dei volti più belli che io abbia mai incontrato. Poi in Italia sono amico di Claudia Gerini, Claudio Santamaria, Claudia Pandolfi, quindi c’è anche un piacere nello scambio artistico che si crea tra noi, io faccio ogni anno delle foto ispirate a Fellini.