Fabio Massimo Capogrosso svela i segreti dietro la soundtrack di Rapito e quella potente idea di musica
La nostra intervista al compositore Fabio Massimo Capogrosso, autore della colonna sonora di Rapito e di Esterno Notte, per cui ha vinto il prestigioso Apulia Soundtrack Awards 2023.
Quando non compone musica, Fabio Massimo Capogrosso è “un ragazzo come tutti gli altri, a cui piace passare il tempo con la sua famiglia e ascoltare musica, non solo classica”. Il motivo che ci ha attirati a lui non ha nulla a che fare però con la normalità, poiché si insinua in quel dedalo di melodie capaci di estraniare lo spettatore e trasportarlo in un mondo alieno alla realtà, in cui le note sembrano materializzarsi e accorparsi alle immagini, conferendogli autenticità e anima. Quel mondo è intrappolato, nel caso specifico, in Rapito, l’ultimo film di Marco Bellocchio ispirato a un’eclatante storia vera, che segna la seconda collaborazione tra l’autore romano e il regista. La loro prima sinergia ha preso forma invece quasi per caso.
Come ci spiega lo stesso Capogrosso, Marco Bellocchio ha avuto modo di ascoltare le sue composizioni, dopodiché “mi ha contattato dicendo che pensava che la mia musica aveva una potenza, una drammaticità, una forza ideale per raccontare la vicenda su Aldo Moro. Non avendo mai lavorato insieme mi ha fatto leggere la prima puntata di Esterno Notte e ho scritto i primi pezzi, lui ne è rimasto molto colpito. Per me è stato davvero un grande onore, perché Marco ha una sensibilità e un modo di vedere le cose veramente geniale, quindi per me è stato un privilegio”.
Ma facciamo un passo indietro: da dove nasce questo amore per la musica? Dietro il genio di Fabio Massimo Capogrosso c’è l’intuito della sua insegnante che alle scuole elementari, osservando il modo in cui memorizzava facilmente le melodie, spinge i suoi genitori a fargli studiare musica e a introdurlo, all’età di 9 anni, a scoprire la magia del pianoforte.
Come tutte le menti geniali, però, anche Fabio intorno ai dodici anni iniziò a soffrire la staticità dello studio, al punto da cimentarsi con cambiamenti di note e prime composizioni, pur non avendone ovviamente ancora le basi tecniche. “Intorno ai tredici anni iniziai a comporre le prime melodie; chiesi a mio padre di portarmi in uno studio di registrazione – in quegli anni c’erano le prime tecnologie che consentivano di riprodurre i suoni dell’orchesta – e orchestrai queste musiche per pianoforte da solo; il proprietario rimase molto sorpreso dal sapere che le avevo fatte io, perché ero piccolo anche fisicamente! Così iniziai a maturare l’idea di fare il compositore e a diciotto anni entrai in Conservatorio all’Aquila, dove studiai col maestro Sergio Prodigo. Lui per me è come un padre, perché seppe capire che avevo bisogno di essere lasciato libero, ma fece un grande lavoro sul contrappunto e sulla forma musicale. A lui devo tantissimo!”.
Fabio Massimo Capogrosso parla dello stato dell’arte in Italia
È carica di sogni, la voce di Fabio, mentre ci racconta del suo passato, delle sue passioni e delle sue defezioni. Si racconta come un vecchio amico, accogliendo spunti e opinioni. Ciò che ne esce fuori è un confronto che parte dalla sua carriera per approdare alla situazione del nostro Paese.
“In Italia è complesso riuscire a lavorare con la musica,” – ammette – “fino ai ventisette anni, per quanto avevo fatto cose importanti nell’ambito della musica da concerto, con esecuzioni da parte di gruppi come il Sestetto Stradivari dell’Accademia di Santa Cecilia o Sentieri Selvaggi di Carlo Boccadoro, comunque faticavo veramente e non c’era alcun guadagno, ma non ho mai mollato perché nella vita volevo fare questo. Poi è arrivata la chiamata al Conservatorio e quello ti dà anche una stabilità per poter pensare al futuro tuo e della tua famiglia”.
Purtroppo questa situazione riguarda un po’ tutto il settore dell’arte e molto spesso tanti talenti si perdono e finiscono per mollare, sia per mancanza di risorse che per mancanza di forza di determinazione. È un vero peccato! A tuo parere cosa bisognerebbe fare?
“Bisognerebbe iniziare dalla scuola, in Italia la musica è un’arte che non viene coltivata come si dovrebbe. E pensare che siamo il Paese che in un certo senso ha inventato la musica e l’ha portata nel mondo, lo stesso linguaggio musicale è in italiano, i segni della musica sono in italiano, quindi è assurdo pensare che abbiamo perso questa nostra indole; l’ora di musica viene intesa come l’ora di ricreazione, c’è anche la questione che chiunque abbia intenzione di fare musica debba fare un percorso a parte (a pagamento) e poi la convinzione che con l’arte non si mangia, quando in Paesi come l’America è un vero e proprio business. Mi è rimasta impressa questa frase di Confucio di quando studiavo storia della musica, che recitava: ‘Volete sapere se un popolo è ben governato e ha buoni costumi? Ascoltate la sua musica’, questo è un po’ lo specchio dei nostri giorni; si teme la complessità musicale; la musica viene vista come un passatempo, quando invece dovrebbe essere anche uno strumento di indagine sociologica, personale, ideologica”.
Fabio Massimo Capogrosso parla di Rapito: “non volevo deludere Marco Bellocchio”
Tornando al sodalizio con Marco Bellocchio, Fabio Massimo Capogrosso ci svela che quando ha letto la sceneggiatura di Rapito ha avuto l’impressione di trovarsi davanti a un capolavoro. “Non sono riuscito subito a entrare dentro questo lavoro, devo essere sincero.” – ci svela – “Non volevo deludere Marco. I primi lavori che gli ho portato non gli sono piaciuti molto, non li riteneva abbastanza potenti. Mi chiamò all’inizio del percorso e mi disse ‘pensa a una grande musica, a una grande orchestra: pensa a Šostakovič (la Sinfonia 7 scritta durante l’assedio di Leningrado)’. Non a caso all’interno della colonna sonora di Rapito sono presenti alcuni brani di repertorio come la Chamber Symphony di Šostakovič, il Cantus in Memoriam Benjamin Britten di Arvo Pärt, L’isola dei morti di Rachmaninov, quindi anche avere la responsabilità di scrivere una musica che si accostasse a questi grandi compositori è stato impegnativo.
Stando alla storia, mi ha colpito il modo profondo in cui Bellocchio è riuscito a raccontare questa vicenda così sconvolgente, anche dal punto di vista psicologico, penso alle crisi di Edgardo ad esempio”.
Calandoci in alcune sequenze del film, ce ne sono alcune davvero singolari musicalmente. Prendiamo ad esempio la scena iniziale, quella in cui Edgardo gioca a nascondino con i fratelli: vedendo le immagini è solo un gioco, eppure la musica ci lascia intuire che sta per accadere qualcosa, che nascondersi e non farsi trovare sia necessario. Le note sono come cocci di cristallo che si schiantano sul pavimento e subito si tramutano in sublime.
“Il regista vedeva in quella scena un momento di spensieratezza familiare, quindi mi ha chiesto quel tipo di musica, poi come sempre io lavoro di dissonanze. Il pubblico ha paura delle dissonanze” – dice sorridendo – “ma è il modo in cui la musica riesce a scavare dentro, anche nei momenti più ironici. Non è melodia che accompagna, ma che riesce ad addentrarsi anche nella psiche di chi l’ascolta”.
La costruzione della colonna sonora di Rapito, dai canti popolari alla Sinfonia n. 7 di Beethoven
Ho letto che quando componi musica ti lasci ispirare talvolta dalla visione di opere d’arte, quali ti sono state di supporto nella realizzazione della colonna sonora di Rapito?
“Marco Bellocchio mi ha mostrato un quadro di Francesco Paolo Michetti come ispirazione per quella scena in cui c’è il funerale popolare di un bambino, quella in cui Edgardo si sveglia mentre sta sulla barca perché sente delle voci, come delle litanie. Mi fece vedere questo quadro perché lo aveva evidentemente colpito e mi chiese di avere in scena anche queste donne che cantavano. Dal canto mio ho fatto una ricerca sui canti popolari, anche grazie all’aiuto di una mia amica che insegna storia della musica a L’Aquila; lei mi ha fatto ascoltare alcuni canti popolari di fine ‘700, fine ‘800. Tuttavia tanti compositori del passato hanno accolto l’elemento popolare, perché ha un grande fascino che va oltre l’idea di comporre quel tema, quello non è difficile perché in fondo si tratta di una scala discendente, ma l’idea di prendere quel tema comporta il portare dentro la colonna sonora una storia. Quello stesso tema viene trasfigurato e usato in altre scene del film, diventa orchestrato, dissonante nel momento del processo, in cui Momolo si dispera”.
Dopo aver snocciolato questa scena, Capogrosso si lancia subito a capofitto in quelle sequenze inerenti la visione del Cristo: “inizialmente non riuscivo a capire che tipo di musica fosse giusta per rappresentare questa visione, così entravo nelle Chiese, guardavo il Crocifisso per trovare ispirazione.
Nella scena della marcia funebre del Papa, quella finale, Bellocchio mi ha chiesto una grande musica, una grande marcia funebre. In quel caso ho optato per una melodia da requiem, che accompagna tutto il rituale cristiano, traendo spunto anche dalla Sinfonia n. 7 di Beethoven. In questa sequenza c’è poi l’assalto al feretro del Papa, quindi la musica diventa pian piano più contemporanea, fino all’esplosione finale dove c’è solamente elettronica, con questi suoni che descrivono la pazzia di Edgardo. È stato un lavoro difficile per me ed è forse la traccia a cui sono più affezionato”.
Ci sono altre tracce a cui sei legato a parte questa?
“Sicuramente quella del processo, cui Momolo perde il controllo e si prende a pugni la testa, che è stata anche una grande intuizione di Stefano Mariotti, che ha montato il film insieme a Francesca Calvelli; quella del battesimo di Edgardo poiché è vera e propria musica diegetica: c’è un quintetto in scena ed è molto complessa, al punto che da qui ho ricavato della musica per altre scene; c’è complessità nell’uso del contrappunto, delle voci…”
Quali strumenti hai usato per la colonna sonora di Rapito?
“Il regista voleva una grande orchestra sinfonica, quindi l’organico è ampio: ottoni, 4 corni, 3 tromboni, 3 trombe, tanti archi, 12 violini, percussioni (molto, perché mi piace usarle) e poi c’era anche una componente più intima, come quei temi composti solo col violoncello; quel tema di Edgardo e Marianna nella scena in cui sono a letto e pregano insieme; il tema del finale nella sequenza in cui la famiglia fa lo Shabbat e contemporaneamente Edagardo impara le preghiere, che è una scena bellissima! Qui ho cercato di usare delle tecniche come i glissandi; il regista era molto interessato anche a un confronto musicale tra le due religioni, quindi ho cercato anche di scrivere della musica prettamente cristiana, basti pensare alla musica del battesimo di Edgardo, al punto che qualcuno pensava si trattasse di musica di repertorio; qui ho usato addirittura dei controtenori, perché a quel tempo le donne non potevano cantare, così ho usato tre controtenori, un quintetto d’archi e Filippo Timi che in sottofondo intona delle note (gli ho cucito un pezzo ad hoc su richiesta di Marco Bellocchio)”.
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Spinti dal contrasto tra la religione ebraica e quella cristiana, che si rincorre in lungo e in largo in tutta la pellicola, ci è venuto spontaneo chiedere a Fabio se avesse fatto delle ricerche anche sulla musica ebraica.
“Dato il mio percorso di studi, conosco bene la musica cristiana, mentre non ne sapevo molto di quella ebraica. Ho ascoltato molto e ho capito che l’uso di questi intervalli di seconda aumentata sono tipici della musica ebraica, al pari dell’uso di alcuni strumenti, come il clarinetto nel registro dello Shalom; il cimbalom per esempio è uno strumento molto utilizzato in quella scena. L’idea iniziale era quella di aggiungere un tema popolare ebraico, così come ce n’è uno popolare cristiano, ma alla fine non c’è stato motivo di inserirlo”.
Tra note, strumenti e melodie, Fabio Massimo Capogrosso ci tiene a sottolineare il lavoro certosino fatto dalla montatrice Francesca Calvelli, che con Marco Bellocchio condivide la vita e il set: “per me è una figura di riferimento, è una persona dalla sensibilità musicale straordinaria. Se avesse fatto degli studi musicale secondo me sarebbe diventata una grande musicista! Il suo supporto è stato prezioso, anche per la sua schiettezza nel dirti le cose”.
La vita difficile (ma non impossibile) della musica classica contemporanea secondo Fabio Massimo Capogrosso
Se la colonna sonora del film riesce a rapire letteralmente lo spettatore, dunque, il merito non è solo di Capogrosso, ma anche di chi ha dato fiducia al suo talento, permettendogli di farsi largo nella Settima Arte e raggiungere l’udito di un pubblico diverso da quello a cui mediamente è abituato. Tuttavia anche lui sa bene che il cinema da solo non basta a promuovere ulteriormente la musica classica contemporanea.
“Personalmente sono orgoglioso di aver portato in prima visione con Esterno Notte, grazie a Marco Bellocchio, una colonna sonora in cui i rifermenti sono compositori come Stravinskij. Per me questo è motivo di grande gioia, perché sposa quello che ho sempre pensato, ovvero che, al di là della complessità musicale, se c’è un bel contenuto emotivo la musica arriva, quindi bisognerebbe avere anche più coraggio nel programmare più prime esecuzioni; coraggio dei direttori artistici ma anche dei compositori. Mi meraviglia il fatto che tanti compositori bravissimi abbiamo poche possibilità di esibirsi, bisognerebbe far ascoltare un brano di musica classica contemporanea a ogni concerto per aiutare anche il pubblico a rapportarsi con un linguaggio più complesso e pensato ma non per questo meno profondo. Certamente è difficile proporre un brano di questo tipo se la media sono brani pop basati sui soliti tre/quattro accordi, ma se uscissimo dalla mentalità che la musica deve essere necessariamente conforto e svago potrebbe avere magari un futuro differente”.
Nell’attesa che qualcosa davvero cambi, c’è una parte del mondo della critica che ha apprezzato e premiato l’accurato lavoro fatto da Fabio Massimo Capogrosso per la colonna sonora di Esterno Notte, conferendo al compositore il prestigioso Apulia Soundtrack Awards 2023, per il quale si dice orgoglioso e felice, anche per l’onore di aver ricevuto lo stesso riconoscimento conferito ad artisti come Howard Shore (il compositore de Il Signore degli Anelli, vincitore degli Oscar), Justin Hurwitz (autore della soundtrack di Babylon, che avrebbe dovuto vincere l’ambita statuetta).
Leggendo le motivazioni che hanno indotto la commissione a premiare Capogrosso si legge che ne è stata apprezzata la qualità, l’originalità e la raffinatezza di una composizione che, a parere dell’ASA, “contribuisce a dare un decisivo apporto narrativo grazie ai colori nuovi, alle trame sonore inedite ma perfettamente in linea con il racconto”.
Un’analisi che non può che trovarci concordi e che ci spinge altresì a sperare di riascoltare le melodie di Capogrosso in altre opere cinematografiche e a chiedere al compositore un’ultima curiosità: lui che ha iniziato il suo percorso in questo mondo con uno dei più grandi registi italiani, con chi altro vorrebbe collaborare? La sua risposta non è fatta di nomi, bensì di regole ben precise, sintomo che ciò che Fabio Massimo Capogrosso rincorre non è la volatile idea del successo, bensì la profonda consacrazione della sua arte, la stessa che fin da bambino ha riconosciuto, inseguito e perseguito con intuito, genialità e umiltà.
E così, senza neanche starci troppo a pensare, ci spiega: “Vorrei lavorare con registi che trattano il cinema come arte e non come intrattenimento, non perché non ami l’intrattenimento, ma perché è il mio modo di scrivere. Vorrei sempre avere modo di esprimere la mia arte, non di fare il compositore come se fossi un jukebox, bensì trovare un regista che voglia una musica che dia enfasi a ciò che il film racconta. Voglio essere un autore riconoscibile!”