Gabriele Mainetti su La città proibita: “Metto personaggi reali in situazioni assurde”[VIDEO]
Il regista Gabriele Mainetti, gli sceneggiatori e il cast - tra gli altri, Sabrina Ferilli, Marco Giallini, Luca Zingaretti - raccontano La città probita, il film d'arti marziali ambientato a Roma in uscita il 13 marzo 2025.
“Io? Sono appena all’inizio!”. Lo dice a voce alta, per farsi sentire da tutti, e ride anche, per sdrammatizzare. Ma il messaggio è chiaro: Gabriele Mainetti è qui per restare. Il suo terzo film da regista, La città proibita, arriva il 13 marzo 2025 per PiperFilm, in 400 sale. Scritto da Stefano Bises e Davide Serino, nella carriera del regista romano segue il clamoroso successo di Lo chiamavano Jeeg Robot (2015) e Freaks Out (2021). “Jeeg Robot mi ha sorpreso” racconta Gabriele Mainetti, “pensavo di aver girato un buon film, ma non mi aspettavo un simile successo di pubblico e critica. I David di Donatello sono stati troppo generosi con noi, tanto che mi chiedevo come sarei riuscito a esprimermi con il secondo film. Freaks Out era davvero una montagna da scalare ma, fortunatamente, ha avuto una lavorazione così complicata che, a un certo punto, la mia sola preoccupazione era finirlo! Più avanti, all’epoca della promozione, mi è tornata la voglia di essere abbracciato come era successo con Jeeg Robot; è tutta colpa vostra (parla della stampa, ndr) e del pubblico, mi avete viziato. Quando mi avvicinavano e dicevano, eh sì però, io, lo confesso, ho rosicato!”.

“Volevo ritrovare l’illusione di essere quel bambino che aveva qualcosa da dire. Il terzo l’ho vissuto con più distacco. Sono padre di tre bambini, non lo ero quando ho cominciato a dirigere, e nel film affronto il tema della paternità; ho accolto il talento di tutti e delegato di più. È un bel momento, per me, ma sono sempre tormentato, altrimenti non farei il regista!”. Protagonisti del film, Enrico Borelli e Yaxi Liu: Marcello e Mei, cuoco romano e giovane donna cinese prodigio delle arti marziali. Si conoscono a Roma, nel multietnico quartiere Esquilino, tra arti marziali, amore e vendetta. Enrico Borelli crede nell’empatia, nel valore di un cast coeso.“Con questi colleghi, con queste personalità, se non ti lasci toccare sei scemo”. Il suo personaggio è il volto sentimentale e autoironico del film, con un occhio alle pagine migliori nella storia della nostra commedia.

Lo paragonano a Nino Manfredi. “Sapere che posso ricordarlo, è bello. Quella città, la Roma del mio riferimento, Alberto Sordi, o di Manfredi, c’è ancora, ma va cercata bene. La cosa più importante era la visione di Gabriele: evitare di mostrare una Roma troppo coatta, per raccontare una città che cambia senza perdere la sua identità”. La collega Yaxi Liu non è solo un’attrice, ma anche una stunt formidabile. Ha accettato di interpretare Mei per le tante affinità con il personaggio. “Abbiamo avuto entrambe un’infanzia difficile, e tutte e due abbiamo imparato a padroneggiare le arti marziali sin da piccole”. Rispetto al mondo delle arti marziali in Cina, in Italia si gira in maniera diversa. “Da noi si girano piccole sequenze, montate per dare più forza e risalto ai colpi. Gabriele invece voleva scene più lunghe, tagli più ampi. La difficoltà era memorizzare la coreografia, essere accurata nei movimenti, fare sempre tutto allo stesso modo. Ma il risultato è stato fantastico”.
La città proibita: Gabriele Mainetti racconta la genesi del film (che ha scritto con due collaboratori inediti)
Chiedono a Gabriele Mainetti del suo metodo. “La mia ricetta sono i personaggi, mi piace pensare alle storie più assurde e metterci dentro i personaggi più veri, per portare lo spettatore verso cose nuove, anche se è una cosa po’ folle da dire. Non giudico i personaggi, gli lascio la tridimensionalità necessaria per consentire al pubblico – anche all’alieno che scende dalla nave spaziale, come in Indipendence Day – di riconoscersi”. Per arrivare a La città proibita c’è stato bisogno di soldi e di tempo. “Pensavo ad altro, ero davanti al Teatro dell’Opera con Mario (Gianani, che produce con Sonia Ravai e Lorenzo Gangarossa, ndr) e lui mi ha stuzzicato proponendomi di fare il film di kung-fu di cui avevamo parlato. Era una storia che, in realtà, immaginavo di produrre e basta, ma quando sono tornato a casa dalla mia compagna e le ho parlato, mi ha detto: sono tre anni che non fai niente, vai! Quattro mesi dopo stavamo girando, sette mesi dopo il film era premontato. Io i film ci metto tanto a montarli, non a girarli. Con il produttore giusto è tutto più semplice. Ora va meglio rispetto a prima, quando ero il produttore di me stesso! Litigare con Mario e Lorenzo è tutta un’altra cosa”.
Sul rapporto con il genere e il peso del sentimento nella storia dice che “ridere è un’esperienza salvifica – abbiamo una tradizione di grandi commedie – ma bisogna anche fare altro. Mi sembrava, data l’idea dell’incontro culturale tra i protagonisti, che la storia d’amore fosse la scelta più interessante; in fondo, quello lì è l’amore che provo per il cinema di arti marziali”. La città proibita cambia un po’ le carte in tavola per Gabriele Mainetti. Per la prima volta, collabora con la rodatissima coppia di sceneggiatori Stefano Bises e Davide Serino. “Il film, sostanzialmente, è una storia d’amore”, spiega Stefano Bises, “piena di personaggi ammaccati, quelli che amiamo di più e che Gabriele sa amministrare meglio. Hanno tutti un’umanità struggente – è un elemento super universale – poi la scelta di Gabriele di portare il kung-fu a Roma gli dà un sapore internazionale. L’idea di fondo è questa: chi rifiuta le contaminazioni, è un dinosauro”. Più sintetico, Davide Serino. “Il talento di Gabriele consiste nel sovrapporre una storia drammatica su un fondo spettacolare di goduria cinematografica; è stata una vera scuola partecipare al film”.
Dopo la periferia di Jeeg Robot e il 1943 di Freaks Out, Gabriele Mainetti, con La città proibita , si concentra sulle turbolenze e la creatività del cosmopolita Rione Esquilino. Al centro della storia, come sempre, c’è Roma. “Roma è la protagonista del mio cinema; qui però non c’è la città che travolge il racconto perché vuole essere solo quello, ma una città che si reinventa e cambia attraverso una protagonista come Mei, portatrice di una cultura estranea. Crescendoci dentro, impari che Roma è piena di quartieri che sono come piccoli mondi che ti aiutano a capire tante cose di te. Ho inserito nella storia i Fori imperiali perché, da un lato, tendiamo sempre a usare la bellezza di Roma per sedurre. Poi, è lì che assistiamo al grande confronto tra i protagonisti; non è una scelta casuale”. Ha scritturato Yaxi Liu perchè voleva “una vera artista marziale, non l’attore che si allena per un anno e poi si vede, in scena, che porta colpi fiacchi. Immaginavo di andare in Cina per trovare la protagonista in una scuola di arti marziali e invece l’ho trovata sul cellulare, su suggerimento di un mio amico!”. Non gli piace come è costruita l’azione nei film di oggi, “perché è troppo veloce e non dà il tempo allo spettatore di capire cosa succede. Noi, invece, quel tempo lo diamo”. Chiude con una potente riflessione cinefila. “I pionieri del cinema sono tutti registi d’azione: Charlie Chaplin, Buster Keaton, D.W. Griffith, che era un maledetto razzista, ma ha insegnato a tutti”.
La storia d’amore tra Sabrina Ferilli e il kung-fu e i segreti professionali di Marco Giallini e Luca Zingaretti
Sabrina Ferilli è Lorena, la vulcanica e carismatica madre di Marcello. La città proibita racconta, nelle sue parole, “una Roma multietnica, anche abbastanza nuova, raccontata senza retorica: non è né bistrattata, né lodata in maniera esagerata. Quella mostrata dal film potrebbe essere una qualsiasi parte del mondo, Berlino, Parigi”. Detto questo, Roma è Roma, spiega, e non se ne andrebbe “neanche se tornasse Nerone, morirei tra le fiamme!”. La curiosità professionale “è la mia forza, ma potrebbe anche essere il mio limite. Quello che mi ispira curiosità e mi accende, sono sempre pronta a farlo, le cose scontate faccio fatica a ripeterle. Ho fatto di tutto, nella mia carriera: commedia musicale, teatro, tv, intrattenimento, cinema di genere. Forse mi manca questo, l’arte marziale: il sequel dove io, in tutina gialla, mi libro e faccio qualche mossa di kung-fu!”. Risate in sala. “Non mi sottovalutate”, scherza,” ‘sta risata non è carina!”.
Tra i co-protagonisti ci sono anche Luca Zingaretti e Marco Giallini. Luca Zingaretti è Alfredo, marito di Lorena, papà di Marcello, proprietario dell’omonimo ristorante all’Esquilino e misteriosamente scomparso. “A un attore servono personaggi ben scritti e un regista che li sappia guidare. Questo è un film d’azione, ma per altri aspetti suscita commozione proprio per via di questi personaggi ben scritti e autentici, che si discostano dai clichè perché hanno quel qualcosa in più che li fa diventare riconoscibili. Se il regista ha le idee più che chiare, interpretare questi personaggi è facile e divertente”. A Marco Giallini, Gabriele Mainetti ha fatto un bel regalo. Si conoscono e si stimano da decenni; il suo Annibale è un villain con l’anima, inquietante, empatico, fragile, pericoloso. “Il personaggio l’ho costruito nel corso degli anni. C’è molto di quello che ho visto, sentito, raccolto. Ho lavorato come dovrebbero fare tutti quelli che praticano questo mestiere. È il mio lavoro, ormai lo considero così. Prima mi ci tuffavo, ora non mi va più di alzarmi, e lo chiamo lavoro! Nel corso del mio peregrinare, è uscito un personaggio simile a tanti altri, e insieme diverso”.
Non ha perso tempo, Sabrina Ferilli, a dire sì a Gabriele Mainetti. “Mi ha fischiato sotto casa e sono scesa. Non ho mai avuto dubbi, amo la sua cinematografia, questa maniera fantastica e lucida di raccontare le cose, che è sua e basta. Noi attori dipendiamo dalle sceneggiature, a loro (Stefano Bises e Davide Serino, ndr) deve andare il nostro ringraziamento: hanno scritto dei personaggi molto dettagliati. Il regista ci dà la possibilità di muoverci, sul set, in uno spazio che è solo nostro. Questo spazio, talvolta c’è, talvolta no”. Ritornando alle parole del collega e figlio cinematografico Enrico Borelli, Sabrina Ferilli rivela che non è l’empatia a guidare il suo percorso professionale. “Mi chiedete se provo empatia per i miei personaggi e per il mio lavoro? No, mi affido all’intuizione. Mi ritrovo a fare quello che mi piace e che credo in maniera intuitiva possa essere affascinante. Sono molto curiosa, ma l’empatia è un’altra cosa. Nel mio caso, non sento un vero rapporto tra empatia e mestiere”.