Gianni Di Gregorio su Lontano lontano: “l’Italia non è un Paese per vecchi”
La nostra intervista a Gianni Di Gregorio in occasione dell'uscita di Lontano Lontano, l'ultima fatica del regista romano e ultima tappa dell'esplorazione del mondo della terza età.
Da sempre i lavori di Gianni Di Gregorio si sono distribuiti secondo due grandi filoni: uno all’insegna delle collaborazioni con altri autori, tra le quali la più importante è sicuramente quella con l’amico Matteo Garrone, che ha fruttato anche lo straordinario successo di Gomorra, e un altro più personale, mosso dal suo spirito genuino, dal desiderio di esplorarsi, capirsi e capire gli altri e magari di prendersi anche un po’ in giro.
Sin da Il pranzo di Ferragosto Di Gregorio ha dato prova non solo delle sue capacità tecniche di scrittura e regia, ma anche di una ingenua curiosità riguardo il mondo che lo circonda e lo riguarda più da vicino, una sensibilità notevole e una grande capacità di raccontare senza mai cadere nella retorica e nella facile morale. I protagonisti indiscussi dei suoi lavori sono, come li chiama lui, “i vecchietti”, più precisamente, per noialtri, la sua generazione.
In Lontano Lontano si trovano tutti gli ingredienti che hanno fatto la fortuna della poetica dell’autore, ma inseriti in una storia molto attuale, costruita intorno ad un curioso ribaltamento di prospettiva legato al grande tema del viaggio come fuga e rinascita e arricchito dalla presenza di un cast assolutamente d’eccezione.
Abbiamo incontrato Di Gregorio durante il suo tour di promozione del film, nello specifico nella sua tappa a Spoleto, presso il Cinéma Sala Pegasus. Ecco l’intervista.
Passando in rassegna i tuoi lavori da regista ci si accorge del fatto che ti sei sempre occupato della realtà legata alla tua generazione, descrivendone le problematiche e un po’ prendendole e prendendoti in giro. Con questo film vai oltre in un certo senso, operando un ribaltamento nel trattare una tematica che al 90% riguarda i giovani disoccupati piuttosto che gli anziani pensionati. Puoi raccontarci un po’ la genesi dell’idea?
“L’idea partì da un suggerimento di Matteo Garrone. Mi disse più o meno: “Senti, tu fai sempre i vecchietti, le vecchiette, i pensionati. Devi fare un film sul pensionato povero costretto ad andare via per avere una vita migliore! Se non lo fai tu chi lo fa?” E lì ho cominciato a ragionarci, osservando le difficoltà di tanti pensionati poveri, sul fatto che il nostro non è un “Paese per giovani”, perché è un macello per voi, ma non è neanche un “Paese per vecchi”.
Ho scritto tanto, un anno e mezzo pensa, perché anche se la struttura del film pare semplice, si è molto evoluta nel corso del tempo. Un personaggio sono diventati tre, ognuno con la sua vita e le sue diversità: due amici di infanzia, un professore pigro legato al suo ambiente e Giorgetto il nullafacente, una sorta di saggio della strada, e poi un terzo, incontrato per uno sbaglio, Attilio, che si aggrega subito a loro senza neanche avere la pensione e addirittura diventa una sorta di capetto del gruppo. E poi ne è nato un altro, quello del giovane migrante. Una creazione molto sentita, arrivata mentre scrivevo con Marco Pettenello durante la stagione delle tragedie in mare e dei grandi sbarchi, notizie che ci hanno talmente influenzato da volerle inserire nel film. Il ragazzo, dei 4, è il vero viaggiatore, al contrario loro che alla fine vengono presi dalle paure tipiche della loro età, legati alla loro routine e al loro ambiente. Forse, in fondo, non hanno neanche mai avuto l’intenzione reale di partire. Tutto il contrario suo.
Il ragazzo tra l’altro era realmente un migrante ed è andato realmente in Canada come il suo personaggio dice di voler fare nel film grazie i soldi che gli abbiamo dato per la sua parte. Una storia meravigliosa.”
La nostra intervista a Gianni Di Gregorio per il film Lontano lontano
Oltre ad essere regista e interprete tu sei anche uno sceneggiatore di successo e di grandissima esperienza. Regola vuole che quando si scrive si scrive sempre di noi o di cose a noi vicine e i tuoi film lo insegnano. Quindi ti chiedo: quanto c’è di tuo nel film?
“Il personaggio del Professore sono io con tutte le mie debolezze, i miei vizi, le mie vigliaccherie e le mie paure (figurati io prima di partire la notte manco dormo) e mi è venuto naturale scriverlo così. Giorgetto è invece ispirato al “Vichingo” del Pranzo di Ferragosto, che è mancato qualche anno fa purtroppo e a cui ero molto legato. Invece per il terzo, Ennio si è ispirato ad un suo amico che aveva perso a sua volta e che viveva proprio come il personaggio: vendeva i mobili restaurati, faceva le collanine, ecc… Il risultato è stato che tutti i personaggi sono stati scritti ed interpretati con un grande amore di fondo. Ci sto riflettendo bene ora, perché poi i film si capiscono meglio quando ci si pensa dopo, piuttosto che quando li si scrive, è inutile dire il contrario. Il segreto del film è stato proprio questo: si sono creati dei personaggi ispirati a persone a cui si ha voluto molto bene.”
La scena che mi ha più colpito del film è quella del confronto tra il personaggio di Ennio Fantastichini e il personaggio del migrante, in cui Attilio si rende conto di come il ragazzo abbia realmente bisogno di un aiuto e da cui poi scaturisce la decisione di donare a lui i soldi per partire. È come se in quella conversazione generazione ci fosse il cuore del film. Ce ne puoi parlare?
“Anche in quel caso ho pensato che sarebbe stato naturale per i miei personaggi aiutare un giovane in difficoltà, come un figlio di passaggio. Per loro è spontaneo, è quasi anche un peso che si tolgono. È bello pensare di poter fare tutto, a qualunque età, ma si hanno anche dei doveri morali nei confronti dei giovani e dunque dobbiamo pensare un po’ anche a loro, questa cosa mi piaceva dirla. Loro si rendono conto che c’è chi sta peggio ed in più ciò avviene per bocca di una giovane (ci tenevo a fare in modo che avvenisse così), in questo caso la figlia del personaggio di Ennio, che diventa quasi una saggia al confronto del padre scapestrato, ribaltando i ruoli”.
Com’è stato lavorare con un cast pieno di attori così bravi come Giorgio Colangeli, Roberto Herlitzka e, soprattutto, il compianto Ennio Fantastichini, di cui mi permetto di chiederti, se vorrai condividerlo con noi, un ricordo particolare.
“Ennio io non lo conoscevo personalmente, lo stimavo come attore e come artista, ma non avevo mai avuto il piacere di incontrarlo. Ho quindi chiesto al produttore di organizzare un pranzo, un incontro, prima di iniziare a lavorare, per conoscerci e confrontarci. Siamo quindi andati tutti insieme a mangiare (c’era anche Giorgio Colangeli) con l’intenzione di parlare del film, ma dopo pochi minuti l’atmosfera è diventata talmente bella e distesa che ci siamo solamente rilassati e divertiti insieme, del film si è parlato molto poco. Ma in un certo senso quello era il film, quella era l’atmosfera che io volevo ci fosse tra i miei personaggi, volevo ricreare quella situazione tra loro.
Ennio mi sembrava di conoscerlo da trent’anni. Forse la romanità, il lavoro, i percorsi simili, non sò di preciso, ma è nata una grande intesa. Di lui mi ha colpito il grande talento (che fosse un grande attore già lo sapevo), ma soprattutto l’umanità e la tensione morale sia verso l’arte che verso la vita. Un uomo meraviglioso. Lavorare con questo grande cast è stato come entrare nella tua Panda, ma accorgersi avere il motore di una Ferrari. Sono stato travolto da loro, mi sembrava incredibile stesse succedendo a me che non ho mai lavorato con attori così importanti nella mia carriera. Hanno recitato improvvisando molto e io non mi sentivo quasi mai di dare lo stop, perché non avrei mai voluto fermarli. È stato entusiasmante lavorare con attori del genere e la compattezza del film ne ha notevolmente beneficiato.”
Dal tuo racconto si capisce come la sceneggiatura si sia evoluta molto mentre la scrivevi, quindi ti vorrei porre una mia curiosità: nella tua testa il viaggio dei tuoi protagonisti è sempre stato virtuale o in origine era previsto uno spostamento reale?
“Io sapevo che non sarebbero realmente partiti, la scommessa era quella. Non mi interessava sapere dove sarebbero andati o cosa sarebbe successo una volta partiti. Il viaggio loro lo fanno senza partire, ma lo fanno ugualmente. La loro vita cambia totalmente, si crea un terzetto affiatato, le relazioni con gli altri cambiano, soprattutto con i loro affetti, e fanno del bene ad un ragazzo che ne aveva realmente bisogno.”
La tua carriera si svolge su due binari, quello della sceneggiatura, che ti ha portato a partecipare a lavori straordinari come Gomorra, e quello della regia, che ti ha portato a girare dei lavori più personali. Com’è stato vivere in un percorso così e come si sono integrati questi due ruoli?
“Nel mio caso io ero partito per fare la regia, ma poi il mio carattere, la mia timidezza, la mia romanità, la mia pigrizia mi ha rallentato: ho fatto aiuto regia e poi tanta sceneggiatura, lasciando un po’ in disparte il mio sogno iniziale. Poi è stata l’amicizia con Matteo (Garrone) ha rimettermi in gioco. Con lui sono tornato in strada con la macchina da presa e tutto insieme mi sono ricordato quello che facevo e che volevo fare da ragazzo. Il resto è venuto naturale: la mia idea di regia era maturata perché passata proprio dalla lunga esperienza con la sceneggiatura, ma se non mi fossi rimesso in movimento non so che sarebbe successo.”