RomaFF14 – Giulio Base e Ivano Marescotti su Bar Giuseppe: “un film sugli esclusi, quelli di ieri e di oggi”
Giulio Base presenta alla Festa di Roma Bar Giuseppe, film ispirato all'antica storia della natività, che lancia anche uno sguardo sull'oggi.
La nuova natività. È il tema alle fondamenta del nuovo film Bar Giuseppe di Giulio Base, presentato nella sezione Riflessi della Festa del Cinema di Roma, accompagnato dal cast capitanato da Ivano Marescotti e dalla giovane Virginia Diop. Visione cristiana, visione atea, visione universale e trasversale: regista e cast raccontano la figura di Giuseppe, di quell’uomo delle scritture che non ha mai proferito parola, ma che è stato sempre presente. Un incontro che si perde tra i ricordi di un cinema che non c’è più, nella possibilità oggi dell’inclusione, di quella condizione da migranti che, ora come ieri, sembra non cambiare mai.
Giulio, come nasce l’idea di questa storia che, rapportata al contemporaneo, racconta però di un fatto ben lontano, nonché mistico e religioso?
Giulio Base: “La prima scintilla è arrivata con l’immagine di un padre in un quadro di Guido Reni. La seconda è scattata durante la lettura de Il Vangelo secondo Pilato di Éric-Emmanuel Schmitt, in cui viene spiegato tutto il significato e la trasformazione della parola bar e padre. Quel bar poi, nel film, poteva diventare una vera comunità con personaggi appartenenti a quella storia millenaria, che devo dire mi ha sempre affascinato. Giuseppe posso dire che è quasi il mio eroe: un uomo umile, modesto, lavoratore, comprensivo. Devo ringraziare Rai Cinema per avermi permesso di raccontare questa storia che, a prescindere dalla fede, racchiude un significato importante.”
E cosa ti ha spinto, Ivano Marescotti, ad accettare il ruolo di questo nuovo Giuseppe?
Ivano Marescotti: “Quando Giulio mi ha mandato la sceneggiatura non sapevo cosa stavo per leggere e non riuscivo a figurarlo fin quando non sono arrivato a più di metà storia. Già alla lettura, però, sapevo che avrei dovuto accettare, perché mi sembrava diverso da qualsiasi film avessi mai fatto. Il protagonista è quel Giuseppe lì, quello che si ritrova con una giovane ragazza incinta che giura di non essere mai stata toccata da un uomo. E, anche se io sono laico, trovo che sia importante il messaggio del film, nonostante Giulio non lo renda mai didascalico. Se bisogna spiegare i film, questi ultimi alla fine diventano ininfluenti. Nella sceneggiatura di Giulio ho trovato quel linguaggio cinematografico che spesso a noi manca, visto che ci capita di essere molto più vicini alla verbosità della fiction. Come regista per me è stato una rivelazione, sia dal punto di vista tecnico che artistico. Per quanto riguarda quelli che un tempo chiamavamo extracomunitari e che oggi abbiamo ribattezzato migranti, io sono sempre al loro fianco. Gli sono vicino perché sono esseri umani e questo viene prima di tutto il resto.”
Virginia, quella sul set di Bar Giuseppe è la tua prima esperienza cinematografica. Cosa puoi dirci al riguardo?
Virginia Diop: “La mia Bikira è una giovane profuga scappata da una situazione disumana. È un’orfana, visto che il governo ha ucciso i suoi genitori e l’ha resa figlia adottiva di un’amorevole coppia. Questo fa capire bene da dove proviene ed anche cosa la conduce a provare determinati tipi di sentimento. Sul set riuscivo a comprendere a fondo le emozioni che questo personaggio sentiva e aveva sentito. Nonostante i giudizi della gente e la differenza di età con Giuseppe, quello che sente per l’uomo è un amore più forte di quello semplicemente passionale. È un amore spirituale, più intenso.”
Giulio Base: “Posso dire che Giuseppe è il mio eroe. Lavoratore, umile, comprensivo.”
Riprendendo il racconto della natività quello che il film cerca di dire riguarda molto anche la questione dell’esclusione, di questi immigrati che non riescono a ritrovare un nuovo posto nel mondo. Come hai gestito questo parallelo con i nostri giorni?
G.B.: “Anche io si può dire che sono figlio di immigrati. Ovviamente in maniera meno tortuosa delle famiglie che si trovano a dover spostarsi da un Paese all’altro come oggi. I miei sono dei meridionali che si sono spostati nella fredda Torino e, anche se in maniera microbica rispetto a ciò che si sente di questi tempi, ricordo cosa provavo e, soprattutto, come i miei vivano questa intolleranza. Quando ho pensato al film mi sono ritrovato a riflettere sulla questione che, in fondo, pur essendo una storia di milioni e milioni di anni fa, fa notare che gli esiliati di ieri e di oggi devono sopportare le stesse condizioni, non sapendo dove vivere, cosa mangiare, dove lavorare. Non si tratta di una dimensione politica, ma di una dimensione umana.”
E oltre all’immigrazione? C’è altro che, secondo te, è importante per leggere correttamente il film?
G.B.: “Quello che penso è che Bar Giuseppe sia anche un film sul lavoro, principalmente quello svolto dal protagonista. Il lavoro non rappresenta solo la maniera di come vivi, ma di come stai nel mondo. Nel Vangelo Giuseppe non parla mai e se in un libro come quello, tra le più grandi forme di cultura mondiale per cristiani e non cristiani, un personaggio simile non pronuncia nemmeno una parla, un motivo ci sarà. In Ivano, poi, ho trovato una spalla, un attore con cui sentirmi davvero in sincronia. Doveva esprimersi attraverso i pensieri di Giuseppe e devo dire che ce l’ha fatta.”
Bar Giuseppe è, dunque, un film con le proprie radici piantate indietro nel tempo. Se ripensate voi agli inizi della vostra giovinezza e della vostra carriera, qual è il primo ricordo cinematografico che vi salta alla mente?
V.D.: “Devo dire che mi sono innamorata davvero del cinema mentre ero sul set di Bar Giuseppe, visto che si trattava della mia prima esperienza. Ma già dal liceo ricordo di alcune mie compagne che frequentavano una scuola di recitazione teatrale e, dopo averle viste a lezione, anche io decisi di provare questa strada. Poi devo ringraziare molto il mio manager, che mi sprona e mi fa appassionare sempre di più di questo mondo.”
I.M.: “Il cinema è nella mia vita da quando sono piccolo. In tutti i piccoli paesini degli anni ’50 e ’60 c’erano i cinema e quindi vedevo circa quattro o cinque film alla settimana. Ho il mito del grande schermo, di quelle leggende come Clark Gable e Burt Lancaster che vedevo nei film. In seguito, mi ha onorato molto lavorare con alcuni dei grandi nomi di questa arte.”
G.B.: “Mi sono innamorato del cinema grazie a papà che, proprio perché immigrato dal sud, aveva trovato come lavoro solamente quello di venditore di popcorn nelle sale. Ne sono davvero affascinato da sempre e ogni volta che vedo le immagini di alcuni grandi maestri la mia reazione è sempre un po’ come quella di Salieri: “Perché io no?!”. Ma ho ancora cinquant’anni, c’è tempo.”