Intervista a Ruggero Deodato: “Non faccio horror, il mio è un cinema realistico”
Da Cannibal Holocaust alla stesura delle sue memorie, dall'incontro con Rossellini alla stima per Eli Roth. Il regista Ruggero Deodato si racconta su Cinematographe in una personale e intensa intervista
Si è conclusa il 9 dicembre la 14ª edizione di Corto Dorico Film Festival, dedicata all’immaginario e al pubblico del futuro, alla presenza di tantissimi ospiti e con altrettante iniziative volte a presentare al pubblico un cinema privo di confini di forma, linguaggio o fruizione. Ospiti graditi di questa edizione Abel Ferrara, Elio Germano e uno speciale membro della giuria, il regista e sceneggiatore Ruggero Deodato, protagonista anche di un incontro, durante il festival, incentrato sull’Immaginario, realizzato insieme a Daniele Ciprì, regista e organizzatore del festival (insieme a Roberto Nisi), la direttrice di Ciak Piera Detassis e il direttore della fotografia Giuseppe Lanci. Prima che il festival si concludesse, abbiamo fatto qualche domanda a Ruggero Deodato, che ha chiacchierato amorevolmente con noi di cinema, musica e amore per il set – e ci ha raccontato tanti aneddoti del suo passato, come quando conobbe Roberto Rossellini.
Nell’intervistare Ruggero Deodato non abbiamo potuto fare a meno di fare un tuffo tra i ricordi universitari e in particolare di ripensare alla lezione di cinematografia documentaria. Ho raccontato infatti al regista che il professore ci ha parlato del mockumentary, il finto documentario, poi ci ha mostrato Cannibal Holocaust (1980), secondo lui uno dei migliori esempi di mock nella storia del cinema. Si immaginava fin dall’inizio questo risvolto antropologico del film, oppure il suo era un semplice esercizio di stile?
“A dire il vero no, questo approccio documentaristico c’era in Ultimo Mondo Cannibale (1977). L’anno prima vidi alcune foto di una tribù di cannibali e mi affascinò moltissimo il loro mondo, così mi documentai sulle origini del cannibalismo e decisi di scrivere e dirigere Ultimo Mondo Cannibale, l’anno successivo. Il film andò molto bene, ebbe successo in tutto il mondo. Così mi chiesero di girare un altro film con i cannibali. Io, inizialmente, mi rifiutai, non mi interessava fare un altro film così, però la storia dei 4 giornalisti mi piacque moltissimo e allora cambiai idea. Nel 1980 uscì Cannibal Holocaust.”
Una delle cose più belle di Cannibal Holocaust è la colonna sonora di Riz Ortolani e il modo in cui riesce a contrastare il tema del film con il suo contenuto. Come è nato questo connubio con Ortolani e che valore dà, lei, alla musica nel cinema?
“Beh, per me la musica ha un valore fondamentale, davvero. Il tema portante del film è importantissimo. Pensa che quando montai L’ultimo sapore dell’aria (1978) per il mercato giapponese, decisi di utilizzare come supporto per il montaggio il tema di una canzone che si chiamava Feelings, una canzone di Morris Albert del 1974. A montaggio ultimato, mostrai ai giapponesi il film e dissi loro che per montare avevo usato proprio Feelings. A loro piacque tantissimo e mi chiesero di utilizzare il brano per la versione ufficiale. Gli dissi che non era possibile, che il brano di Albert costava troppo, ma loro mi risposero “Non importa, la compriamo noi!”. E così fecero: Feelings divenne il tema portante di L’ultimo sapore dell’aria – e il titolo internazionale divenne Last Feelings.
Anche per Uomini si nasce, poliziotti si muore (1976) la musica ebbe un ruolo molto importante: a cantare le canzoni fu Ray Lovelock, che era anche uno degli attori del mio film (e purtroppo è scomparso da poco).
Per quanto riguarda Riz Ortolani, beh… Avevamo un rapporto straordinario. Avevo un po’ di paura a chiedergli di comporre le musiche per Cannibal Holocaust, invece durante le riprese si è seduto con me alla moviola e a fine film mi ha guardato e mi ha detto: ‘Ruggero, sei un genio. Comporrò per te le musiche di questo film’. Eravamo molto amici, Riz era una bellissima persona.
Per Ballad in Blood, il mio ultimo film, ho chiesto alla moglie di Riz, Katyna Ranieri, di utilizzare Sweetly, così da rendergli omaggio, in qualche modo.
Quando hanno chiesto a Riz Ortolani di realizzare un omaggio a Nino Rota, diversi anni fa, lui chiese proprio a me di girare le scene da inserire nel DVD.”
Ruggero Deodato: “sto cominciando a scrivere le mie memorie”
Scusandoci per la nostalgia, non possiamo non notare che nella nostra epoca manca un po’ quel cinema fatto “con il cuore” degli anni Settanta. Quel cuore che noi qui non riusciamo più a utilizzare. Cosa è successo, secondo lei?
“Quello che dici è verissimo, non c’è più la passione di un tempo. Credo che la colpa principale sia l’allontanamento dello Stato dal cinema (peggiorato dall’avvento dei politici di allora). Ai miei tempi si giravano 400, 500 film in un anno. Adesso se ne fanno molti di meno. E quando mancano i film, manca anche la possibilità di fare gavetta, di imparare, di sporcarsi le mani su un set. Adesso i ragazzi non passano più per quella gavetta lì, sono già tutti registi, sceneggiatori, attori.
Ti faccio un esempio pratico: durante il festival, in questi giorni, ho visto un documentario di produzione americana girato a Gioia Tauro (il film in questione è A Ciambra, documentario di Jonas Carpignano prodotto da Martin Scorsese, n.d.r.). Scopo di questo documentario è quello di seguire da vicino i rom calabresi che vivono nella periferia di Gioia Tauro e mostrare come la comunità rom si sia mescolata con la crew del film durante le riprese. Per il pubblico in sala, era incredibile che i rom potessero mescolarsi con la troupe, ma come è possibile? È sempre stato così, è una cosa normalissima! Anche quando ho girato Ultimo Mondo Cannibale o Cannibal Holocaust la mia troupe si mescolava alle tribù locali, doveva essere così, è sempre stato così per tutti.
Ti racconto questa cosa: sto cominciando a scrivere le mie memorie e mi sono reso conto che ho diretto tre film nella giungla. Ebbene, in tutti e tre i film, durante le riprese, avevo sempre una scimmia in grembo a farmi compagnia. Così ho realizzato che, come gli uomini, anche le scimmie si mescolano con le persone. E quando riconoscono che tra di loro c’è un capo (in questo caso ero io, il regista del film), si avvicinano a lui e non se ne allontanano più, difendendolo con tutte le forze che hanno. Pensa che per uno di questi film, durante l’ultimo giorno di riprese, la scimmia aveva capito che il giorno dopo sarei andato via ed ha pianto tutto il tempo. Quando il giorno dopo sono tornato a chiedere di lei, mi hanno risposto “È andata via, si è allontanata per andare a morire, da sola”.
Nonostante a volte lo associno al genere horror, il suo cinema è tutt’altro che horror. Anzi, lei è uno di quei registi talmente innamorati del cinema da voler spaziare letteralmente tra i generi. Quanto è importante, per lei, sperimentare nel cinema?
“Non faccio horror, il mio cinema si ispira alla realtà. È un cinema realistico, se vogliamo.”
“Ad ogni modo, per me sperimentare è fondamentale: se ami il cinema, deve piacerti tutto quello che fai. Vedi, negli anni io ho fatto ogni tipo di film, dalle piccole alle grandi produzioni, sia italiane che internazionali. Ma non sai che soddisfazione mi da, quando mi chiamano per girare lo spot pubblicitario per una sedia. È lì la vera sfida, per me: dare vita a un oggetto morto – ed hai soltanto trenta secondi per rendere tutto questo interessante.
Lei è un regista che ama molto “rimaneggiare” le sceneggiature, così da adattarle alle sue esigenze. Come funziona il processo creativo per Ruggero Deodato, come approccia a una sceneggiatura e come si trasforma, poi, in un film?
Se la sceneggiatura mi viene proposta da uno sceneggiatore o da un produttore, io la leggo più volte fino a che non trovo quello che non mi convince e a quel punto ne discuto con lo sceneggiatore, così proviamo a lavorarci su insieme. Quando la produzione mi comunica che è tutto pronto, che manca poco alle riprese, allora io riapro la sceneggiatura e la rileggo ancora e provo a immaginarmela: se qualcosa continua a non convincermi, provo a rimaneggiarla di nuovo. Alcuni sceneggiatori si lamentano di questo mio metodo, ma per me il mio film deve avere la firma di Ruggero Deodato, è molto importante che si capisca che a girarlo sia stato io.”
Il suo cinema è davvero un cinema sociale, politico e di denuncia, come molti amano definirlo?
“Sinceramente no, della politica non mi interessa granchè, anzi mi fa piuttosto incavolare. Il cinema per me è cinema, punto. Sono gli altri, piuttosto, ad affibbiarmi etichette, ma a me non interessa.”
Ha sempre voluto fare cinema, nella sua vita, o è capitato tutto per caso?
“È stato praticamente un caso, credimi, al cinema non ci ho mai pensato veramente. Sì, sono cresciuto ai parioli (un quartiere romano, n.d.r.) ed ero amico dei figli dei registi, all’epoca, ma non ho mai pensato di fare l’attore o il regista. Ero una persona eccentrica, però, un ragazzo dinamico, brillante e quando i miei amici mi invitavano alle loro feste di compleanno, i loro genitori registi mi chiedevano “Ruggero, vieni a fare la comparsa per il mio film” e allora io ci andavo. Poi è successo che con la mia famiglia ci siamo trasferiti nel palazzo di Rossellini. Lui aveva sentito tanto parlare di me, così un giorno che avevo fatto una marachella Rossellini mi avvicinò e mi disse: “Ruggero, vieni sul mio set a farmi da assistente”. Così raggiunsi mio padre a casa, allora facevo il liceo scientifico, e gli dissi: “Papà, lascio la scuola perché voglio fare il cinema”. Mio padre mi rispose: “Sì, tu lo puoi fare”. E da allora divenni assistente di Rossellini e cominciai a lavorare nel cinema. Sono stato molto fortunato, come vedi.”
Beh, sì, è stato fortunato, però penso anche che il suo carattere, il suo modo di fare, abbia giocato un ruolo molto importante, non crede?
“Sì, in effetti sì, il mio carattere mi ha aiutato molto. Sono sempre stata una persona accomodante, disponibile, cordiale. Credo che le buone maniere contino molto, anche in questo ambiente. Pensa che quando girammo Era notte a Roma con Rossellini, nel 1960, uno degli attori, Leo Genn, voleva sempre giocare a scacchi, nei momenti di pausa. Allora la produzione cercava qualcuno che giocasse a scacchi con lui: io sapevo giocare a scacchi, così gli feci compagnia per tutto il tempo delle riprese.”
Chiudo l’intervista con una domanda “personale”: quando è uscito The Green Inferno di Eli Roth, nel 2015, ero davvero entusiasta all’idea di vedere quel film. Finalmente un mondo movie, dopo tanti anni, un omaggio a Cannibal Holocaust e ai mock degli anni Ottanta… Vederlo, però, è stata una grandissima delusione, per me. L’ho trovato posticcio, finto, non so come dire. Ecco, mi chiedevo: lei cosa ne pensa?
“Allora, comincio col dire che sono molto amico di Eli Roth e lo stimo moltissimo, come uomo e come regista. Green Inferno, però, per me è un film sbagliato, sotto molti punti di vista. Credo che Eli si sia fatto prendere dalla paura e abbia cominciato a vaneggiare un po’: terrorizzato all’idea che etichettassero il suo film come cinema di serie B, ha cominciato a citare Herzog, poi Tarantino… insomma di Deodato neanche l’ombra. Tempo dopo ha ammesso che il film partiva dai miei lavori, anche se io ci vedo molto più Ultimo Mondo Cannibale che Cannibal Holocaust, ma continuo a pensare che ci sia qualcosa che non vada nel film. Sì, le location sono meravigliose, gli attori bravissimi… ma che dire della tribù? Sembravano tutti finti, macchiettistici quasi. La cosa che mi è piaciuta di più di quel film? La dedica “A Ruggero”, nei titoli di coda.”