Intervista a Stefano Di Polito: la favola di Mirafiori Lunapark
Al cinema Romano di Torino, situato all’interno della Galleria San Federico, c’è un gran fermento: è in programmazione per la seconda settimana consecutiva la proiezione di Mirafiori Lunapark, opera prima di Stefano Di Polito.
Il regista ogni giorno apre la proiezione in sala dicendo qualche parola poi, con la sua bellissima bimba di 8 mesi in braccio, attende l’uscita degli spettatori cercando di carpire le emozioni che la sua favola ha donato per 75 minuti.
Stefano Di Polito è l’essenza del cinema italiano d’annata, un cinema fatto con il cuore e con la voglia di far sognare gli spettatori.
Come è nato Mirafiori Lunapark?
Mirafiori Lunapark è nato a Mirafiori su un quaderno in un parco, con l’intenzione di raccogliere le memorie delle persone che abitano quel quartiere, delle persone speciali anche se si tratta da una periferia abitata prevalentemente da ex operai FIAT, una classe sociale che il cinema ha descritto fino alla fine degli anni ’80. Quelle persone esistono ancora, non tutte perché molte se ne sono andate via, e sono andate via nel silenzio, così come nel silenzio è andata via la FIAT: questo è il destino di questo quartiere, che piano piano sta anagraficamente morendo.
Quindi il quartiere lo senti molto vicino a te, giusto?
Io sono nato in questo quartiere, questo abbandono di cui parlo l’ho vissuto come un tradimento; un tradimento innanzitutto mio perché quando ti allontani da un quartiere cerchi il riscatto altrove e poi negli anni ti dimentichi chi sei e quindi non trovi realmente una felicità, non riesci a costruire con semplicità e con una fluidità un futuro, perché hai interrotto una linea genealogica; ti ritrovi improvvisamente impantanato con il passato a cui hai voltato le spalle e un futuro che non è molto chiaro. La magia di Mirafiori è che è un quartiere abituato alle prime pagine: le tappe principali della storia moderna, i treni pieni di immigrati, il boom economico, la crescita del Paese ma anche l’eroina, il terrorismo, le lotte sociali sono tutti grandi eventi che hanno sempre avuto Mirafiori come epicentro. Uccidere questo tipo di storia e smettere di parlare di operai vuol dire mettere in pericolo tutte le altre situazioni in Italia meno forti di Mirafiori.
C’è qualche elemento autobiografico nel film?
La potenza di questa storia, che fa in modo che la favola sia credibile ai più, è che è centrata su elementi realistici: Franco è il nome di mio padre, Carlo e Delfino sono due suoi amici, mio padre aveva un orto che è stato abbattuto per dare spazio ad un campo da golf, il campo da golf è attaccato alle fabbriche, noi da bambini rubavamo le palline del campo da golf e le rivendevamo. Ad esempio c’è una cosa che non ho mai detto a nessuno: Federico il figlio di Carlo che nella sceneggiatura è tossico, in realtà è un omaggio ad un cattivo del nostro quartiere, un ragazzo che ci terrorizzava: anche lui, anche la sua anima, la sua vita maldestra è dentro questa favola perché Mirafiori Lunapark vuole essere realmente un omaggio a queste persone e a tutto quello che è stato.
Hai avuto problemi nella realizzazione della pellicola?
Quando ho scritto la sceneggiatura l’ho scritta ingenuamente senza pensare al budget, ero fiducioso che sarebbe stata una storia talmente forte che avremmo trovato i soldi e chissà quale regista, perché personalmente avevo scritto questa storia neanche come sceneggiatore ma come figlio del quartiere che ha bisogno di omaggiarlo. Quando ci siamo ritrovati con i tempi stretti di riprese (poco più di 3 settimane) ma con un budget da opera prima dignitoso avevamo pretese molto alte ma con un budget che non funzionava ma, ciò che era forte era l’elemento favola, con un taglio originale applicato ad un tema che viene affrontato sempre in modo politico, di parte etc. A pochi giorni delle riprese e con i tempi stretti ci siamo trovati con gli spazi non concessi: era prevista una fabbrica con una catena di montaggio dove sarebbe stato più semplice costruire il Lunapark e quindi meno costoso, ci siamo ritrovati a fare delle scelte e il gioco, perché di gioco si parla, di prendere questi tre grandi attori che sono Haber, Catania e Colangeli e farli giocare in questi luoghi e utilizzare le persone del quartiere come sfondo di una favola, personaggi che intervengono per rappresentare qualcosa. In questo modo la storia ha perso qualcosa ma è diventata più ciclica, senza tempo, universale, come una giostra perché per me la fantasia è la massima forma di ribellione. In questo modo ho obbligato lo spettatore ad un piccolo sforzo: credere alle favole.
Quindi questa è una favola della buonanotte per tutti noi…
Chi esce dal cinema vorrei avesse una forma di calore interno, un calore vicino al film. Si sta creando una comunità intorno a Mirafiori Lunapark, una comunità di persone che si sentono vicine mentre lo vedono e allora in tutta Italia il film andrebbe visto in questo modo; dovrebbe essere un film preceduto dalla costruzione di una rete, dev’essere una visione fatta per salvare qualcosa: salvare una fabbrica, rianimare un quartiere, discutere su una trasformazione; questo sta succedendo a Torino. Siamo quasi a 5000 spettatori, molti dei quali non andavano al cinema da tanto tempo, e questo crea un peso nella società: 5000 persone che si ricompattano rispetto al loro passato, sono 5000 persone che vedono in maniera diversa il presente e quindi provano a costruire con più coraggio il futuro.
Mirafiori Lunapark è al cinema dal 27 agosto