Isabelle Huppert a RomaFF13 – “Il sentimentalismo non esclude l’emozione”
Il resoconto dell'incontro di Isabelle Huppert con il pubblico di RomaFF13, che ha preceduto la consegna del premio alla carriera all'attrice francese.
La terza giornata della Festa del Cinema di Roma è stata impreziosita dalla presenza di Isabelle Huppert, senza dubbio nella ristretta cerchia delle più grandi interpreti viventi. L’attrice francese ha ricevuto il prestigioso premio alla carriera della manifestazione, consegnatole da una colonna portante del nostro cinema come Toni Servillo. Prima della premiazione, Isabelle Huppert si è prestata al classico meccanismo della Festa, ovvero una chiacchierata molto libera, stimolata dalle sequenze di alcuni suoi celebri film.
La prima domanda a cui ha risposto l’attrice è stata sul suo rapporto con il teatro: “sono felice di questa domanda sul teatro, perché anche se oggi parliamo di cinema sono orgogliosa di ciò che ho fatto sul palcoscenico. Per me non c’è una grande differenza fra cinema e teatro, ho sempre pensato che l’attrice in fondo è sempre la stessa. Credo che lo spettatore teatrale sia molto cambiato e che la la frontiera tra cinema e teatro dal punto di vista estetico stia scomparendo.”
La Huppert si è poi così espressa sul suo approccio alla recitazione: “il cinema è veramente l’immediato, accade quando accade. Certo, si legge la sceneggiatura, c’è una sorta di immagine virtuale che cresce in noi, ma non si può tecnicamente fare le prove di qualcosa prima di recitare, perché importante la forza della macchina da presa, e non si può inventarla prima di iniziare. Non lo dico per legittimare la mia pigrizia. In realtà mi sveglio presto, ma non faccio nulla. Credo che sia molto una questione di concentrazione, che è molto importante, quasi sacra, per creare un collegamento fra se stessi e la macchina da presa.”
Il primo film commentato da Isabelle Huppert è stato Elle (Paul Verhoeven, 2016)
“Film come questo sfuggono alla psicologia in generale, e ancora di più a quella classica. Semplicemente non si possono spiegare. In realtà io e Paul non ci siamo detti quasi nulla, ci salutavamo alla mattina ovviamente, ma non abbiamo avuto lunghe conversazioni sul film. Penso che la regia risponda a molte delle domande che possiamo farci. Il cinema non è soltanto questione di sentimenti o di tragitto del personaggio, è un insieme di cose che raccontano il personaggio, come le case in cui vive, i suoi partner. Il personaggio viene così in qualche modo mosso dagli altri. Verhoeven mette in scena arte in movimento, l’attore si muove e la macchina da presa si muove intorno a lui.”
“Roberto Rossellini raccontava che al suo arrivo in Italia per girare Stromboli, Ingrid Bergman era un po’ sorpresa dal modo di fare del regista; lui allora le ha detto: muoviti, affinché io riprenda ciò che c’è attorno a te. Credo che sia una bellissima descrizione del rapporto fra l’attore e il film. Se il film uscisse adesso, porrebbe le domande in modo un po’ più aggressivo, sarebbe sicuramente più difficile. Elle è sul filo del rasoio, e spingerebbe ancora di più le persone a interrogarsi su esso.”
Il secondo film commentato da Isabelle Huppert è stato La pianista (Michael Haneke, 2001)
“Bob Wilson, un mio grande amico, dice che la recitazione è improvvisazione. Anche se si recita un testo che si è imparato è sempre improvvisazione, ma l’improvvisazione pura è veramente difficile da gestire. In Loulou di Maurice Pialat, per esempio, ci sono scene completamente improvvisate, come per esempio la scena intorno al tavolo. Lui era un maestro in questo. Una scena de La pianista l’abbiamo ripetuta 48 volte, perché il libro descrive un’espressione animalesca, che Haneke cercava in me. Guardando questo film, mi dico che è stata una fortuna essere ripresa tante volte da lui. La parola che Haneke detesta di più è ‘sentimentale’.
Io in realtà non ho nulla a che vedere con le donne che interpreto, è come se incontrassi qualcuno per strada. I miei personaggi sono lontani e allo stesso tempo vicini a me: li riconosco, li capisco, ma non sono come me. Se si è colpevoli di qualcosa, per esempio, si vuole riconoscere in se stessi una parte di innocenza, in tutti questi personaggi che ho interpretato c’è una parte di innocenza ed è quella che fa in modo che lo spettatore crei un rapporto col personaggio. Il sentimentalismo non esclude l’emozione.”
Il film successivo su cui si è soffermata Isabelle Huppert è stato Bella addormentata (Marco Bellocchio, 2012), occasione per parlare del suo rapporto col cinema italiano e con l’evoluzione del cinema
“Ciò che appartiene a ogni paese non riguarda tanto il cinema, ma il modo di lavorare e i rapporti col film. Io ho lavorato con alcuni dei più grandi registi italiani, come Bellocchio, Ferreri, Bolognini e i Taviani, e ho sempre riscontrato un particolare gusto per l’estetica, per la scenografia e la fotografia. Tutto questo è molto italiano, ma il cinema italiano è anche un cinema politico, divertente se vogliamo. Un volto su uno schermo è molto evanescente. Noi dipendiamo interamente dalla luce, che è una cosa molto immateriale ma essenziale, che può andare dal tutto al nulla e può diventare fondamentale.
C’è stata un’epoca d’oro nel cinema in cui il modo di illuminare i volti era essenziale, ma credo che lo si possa ancora fare, rispettando un’estetica generale, non per essere soddisfatti e neanche totalmente per narcisismo, ma per dare maggiori possibilità a un certo volto. Il passaggio al digitale cambia effettivamente, ormai si possono fare tante inquadrature col digitale, ma a me lavorativamente parlando non cambia molto, cambia più per i registi.”
Il film successivo è stato Il buio nella mente (Claude Chabrol, 1995), grazie al quale Isabelle Huppert vinse la sua seconda Coppa Volpi alla Mostra di Venezia
“La scena che avete mostrato secondo me è straordinaria, sconvolgente. Quando il film è uscito si è detto che era un film marxista, sulla lotta di classe. Chabrol mi aveva fatto scegliere fra i due personaggi, ma sapeva benissimo quale avrei scelto. Ho scelto Jeanne, perché mi sembrava molto buffa e allo stesso tempo irritante.”
Isabelle Huppert ha poi preso spunto da La trota (Joseph Losey, 1982) per parlare dei ruoli da lei rifiutati o modificati
“Mi è capitato di riscrivere qualche pezzetto di sceneggiatura del mio personaggio, perché l’attore sente in che modo si può dire una cosa nel modo più giusto e naturale. A volte i dialoghi ci allontanano dalla realtà, ma i dialoghi scritti bene mi attirano subito, perché sono la parte più bella per gli attori. Riscrivere totalmente un ruolo no, non è il mio mestiere.
Ho rifiutato Funny Games di Haneke, che ha fatto Susanne Lothar, attrice straordinaria scomparsa qualche anno fa. Mi piace dire che con Haneke abbiamo cominciato con non fare film insieme: prima mi ha proposto Funny Games, poi Il tempo dei lupi e infine abbiamo fatto La pianista. Il progetto di Funny Games era mettere a nudo il meccanismo che collega lo spettatore al film. Haneke parla con lo spettatore e gli dice che cosa stiamo guardando, uscendo dallo spettacolo. A quel punto per me non c’è era più fiction possibile. Quando ho visto il film ho trovato Susanne e suo marito straordinari, ma non c’era nulla che facesse appello al mio immaginario.”
L’ultimo film affrontato da Isabelle Huppert è stato I cancelli del cielo, sfortunato film del 1980 di Micheal Cimino.
“Lavorare con Cimino è stata un’avventura incredibile, solo sentendo le musica mi si riempiono gli occhi di lacrime. Tutta la sua vita è stata segnata da I cancelli del cielo, il fallimento del film lo ha segnato e non l’ha mai superato, trasformandosi in un personaggio distaccato da tutto. Quando vedo il film ne rimango sconvolta, perché è un’opera molto concettuale, con questi movimenti concentrici, che girano intorno alla vita. Lui diceva che questo film doveva essere preso come un sogno. Credo che sia un film che va contro il mito dell’America, molto politico, virulento. Io non sono americana, ma credo che oggi gli americani potrebbero sentire I cancelli del cielo, ma allora no.
Sono rimasta 7 mesi negli Stati Uniti per girare il film, e dopo 2 mesi ero riuscita a girare 2 scene. Ci sono state mille peripezie, ma Cimino era una persona estremamente carismatica ed era l’unico responsabile di quello che faceva. Ha saputo trascinarci con lui, si aveva l’impressione di partecipare a qualcosa di particolare. Capivamo che qualcosa stava andando storto ma non avevamo molte scelte. Non era per i capricci di Cimino, aveva appena vinto 6 Oscar con Il cacciatore e aveva tutto il potere per fare ciò che voleva. Mi ha voluto lui, nonostante il parere contrario di tutti i produttori.
La sceneggiatura era molto dettagliata e molto scritta, non ci sono stati tanti cambiamenti, al massimo qualche estensione di scena. Ha cambiato molto le versioni del film, aveva fatto una versione lunghissima di 5 ore, una versione lunga e una corta, e al montaggio ha fatto ovviamente 3 film diversi. Sapevo che partecipavo a qualcosa di molto strano e la conferma ce l’abbiamo avuta a New York, quando alla prima tanti spettatori si sono alzati e se ne sono andati prima della fine.”