Ivan Boragine su Il diavolo è Dragan Cygan: “La trasformazione è una necessità”

L'attore è al cinema dal 12 marzo con l'opera prima di Emiliano Locatelli

La necessità di mettersi in gioco, di trasformarsi, di abbracciare il cinema tutto, per restituire al pubblico quella propria passionalità da pellicola; con Ivan Boragine si parla delle necessità espressive di un attore e di quanto sia essenziale una continua rimessa alla prova per poter soddisfare tutte le artistiche ambizioni che il mestiere consegue.
L’attore originario di Napoli, nato il 6 settembre 1983, si è avvicinato alla recitazione poco prima del liceo e ha subito scoperto un’ardente passione, appartenente ad un mondo capace di farlo esprimere, noncurante di quella timidezza ch’egli da sempre sente propria. Le principali tappe della carriera lo hanno visto partecipe di alcuni dei progetti di punta del capoluogo partenopeo, da Gomorra a Capri, passando anche per un episodio di Mare Fuori, ma le ambizioni dell’interprete lo vogliono a procedere lunga un’ascesa in continua evoluzione, volta al raggiungimento di un’eclettica carriera.
Noi lo abbiamo sentito in occasione dell’uscita de Il diavolo è Dragan Cygan, ultima pellicola alla quale ha preso parte, al cinema dal 12 marzo, che vede la regia di Emiliano Locatelli e la partecipazione, in una veste del tutto nuova, di Enzo Salvi.

Leggi anche Andrea Ottavi su Finalmente l’alba: “Recitare mi ha dato uno scopo”

Ivan Boragine cinematographe.it

Nel film, Il diavolo è Dragan Cygan, vesti i panni di un poliziotto tutt’altro che integerrimo, cosa ti ha affascinato maggiormente di questo personaggio e cosa, invece, ti ha messo maggiormente in difficoltà?
“Quello che mi ha affascinato e quello che mi ha messo in difficoltà sono la stessa cosa. Questo dualismo, o meglio questo doppio dualismo, questo camminare sul filo del rasoio tra la luce e l’ombra, nella lettura iniziale mi ha subito catturato. Era tempo che volevo affrontare un personaggio del genere, mi affascinano molto questi personaggi, mi danno modo di respirare, di assaporare quello che è il mio lavoro. Poter affrontare la parte di ombra, la cattiveria, la durezza, mista al lato di luce, al credo e alla redenzione, mi ha affascinato tanto. Il tutto mi ha reso interessante, più che difficile, questo gioco; la difficoltà sta nel dedicare più tempo per entrare nel personaggio, per poter vedere tutte le varie sfaccettature”.

Cos’hai messo di tuo nell’interpretarlo?
“Ogni attore secondo me mette qualcosa di suo nel personaggio; di mio qua ce n’è un po’, cose che magari non ho provato direttamente ma che sono comunque andato a ripescare nel mio vissuto, momenti bui della vita che tutti, chi più chi meno, affrontiamo. Per la restante parte c’è stato uno studio approfondito, ho preso spunto da alcuni colleghi, sempre che io possa definirli tali, ed in particolare da Edward Norton, uno dei miei attori preferiti; lui è l’emblema di questi personaggi, rappresenta quella sottile linea di demarcazione tra il buono e il cattivo, tra lo spensierato e lo psicopatico. C’è un famoso personaggio poliziesco a cui mi sono ispirato ma non voglio fare nomi, vorrei che fosse il pubblico ad accostare”.

Hai spesso avuto a che fare con la corruzione, con la manifestazione del male; quanto è difficile portarla sullo schermo e riuscire ad esorcizzarla? è un dovere dell’attore, è un dovere dell’autore o è più un discorso di collaborazione?
Deve essere un lavoro di collaborazione in un secondo momento, inizialmente dev’essere più un dovere dell’attore. Io effettivamente ho spesso avuto a che fare con questa tipologia di tematiche e ho avuto modo di interfacciarmi con le persone che sono andato ad interpretare, di toccare con mano la realtà. Questi sono casi in cui devi entrare fino in fondo nel personaggio e in cui spesso hai una sorta di distacco dalla vita; io lo reputo necessario perché altrimenti rischi di farti del male, ma può essere pericoloso anche distaccarsi completamente ed entrare troppo nel personaggio, lì entra in gioco l’esperienza e la bravura dell’attore nel saper calibrare.

Tu avevi già lavorato con Emiliano Locatelli ed Enzo Salvi per il cortometraggio Solamente tu. Come ti trovi con loro? Cosa pensi del lavoro di questo regista? La nuova veste di Salvi ti ha stupito? Lo conoscevi già?
Credo che Emiliano, con le giuste opportunità e la giusta fortuna, potrà imporsi in maniera considerevole nel mondo del cinema italiano; ha delle ottime idee, ha una bella penna, registicamente si affida molto agli attori ma ha comunque delle sue idee ben salde; è un uomo prima di essere un artista e oggi non è affatto scontato. Inoltre ha idee innovative, fa una denuncia non banale, raccontando sempre tutto con quella intelligenza che pochi possiedono al giorno d’oggi.
Riguardo ad Enzo ero sicuro che avrebbe potuto regalarci questo cambiamento, gli ho sempre detto che secondo me ce l’avrebbe fatta. Purtroppo in Italia c’è quest’idea di dover catalogare l’attore o comunque di vederlo solamente per quello che è, ma non è così: io sono un attore, io mi trasformo, io devo diventare qualcosa”.

Ci sono queste scene, nel film, in cui tu ruoti la testa e la telecamera segue il movimento; sono rese molto bene.
“È stata una mia idea, poi sviluppata assieme a Emiliano. Mi piace dare un qualcosa che sia del personaggio; in quel momento mi sembrava che quel movimento potesse raccontare qualcosa, rispetto allo studio che avevo fatto”.

Il film vede l’incontro tra un cinema di genere ed uno più autoriale, c’è un genere al quale sei maggiormente legato? E ci sono autori che sono stati particolarmente fondamentali per la tua crescita professionale?
“Sotto il profilo autoriale io non ho una preferenza di genere, perché sono un attore che ha sempre avuto voglia di vedere tutto per avere l’opportunità di apprendere, di incamerare, e quindi di giocare con più strumenti possibili. Non c’è quindi un genere in particolare, o un autore, che ha segnato il mio cammino, ognuno mi ha dato qualcosa, non c’è qualcuno nello specifico con cui io voglia lavorare, io voglio lavorare con tutti, voglio poter dare il mio facendolo confluire nel suo (del regista), per dare al pubblico l’opportunità di godersi il nostro lavoro.
Io vivo per questo mestiere, mi scoppia dentro, il fuoco sacro per questo mestiere a me brucia; e io voglio trasformarmi e raccontare, non per apparire ma perché è un bisogno, una necessità”.

Perché un film del genere è necessario?
“Perché c’è Ivan Boragine! No, sto scherzando, è un film necessario perché sono convinto che sia una novità, non ci sono film come questo. Si vedrà un lavoro fatto con il cuore e non solo con il portafogli, perché racconta una tematica in maniera delicata, ma anche incisiva, e si arriva alla fine del film ad aver appreso delle informazioni, ma sentendo di esservi stati accompagnati.
Inoltre è necessario perché è il cinema ad essere necessario, perché stiamo affrontando un periodo in cui c’è tanta difficoltà in ambito cinema”.

Ivan Boragine: la carriera, il futuro e la napoletanità

Il diavolo è Dragan Cygan cinematographe.it

Nell’ultima parte dell’intervista ci siamo concentrati, nello specifico, su quelle che sono state le tappe che hanno determinato il percorso di Ivan Borragine, con un approfondimento in merito alle proprie origini, per poi concludere con le aspirazioni e i futuri progetti dell’attore.

Quando hai scoperto di voler fare l’attore? Quali sono state le principali tappe della tua carriera?
“Avevo 13 anni e facevo parte dello spettacolo Miseria e nobiltà, organizzato dalla parrocchia, nel ruolo di Peppeniello e in più, nonostante io sia una persona molto timida, ogni volta che c’era mio nonno con una telecamera mi mettevo in mostra. In me è entrato qualcosa, poi ho avuto problematiche familiari che mi hanno fatto cambiare strada e mi hanno responsabilizzato in fretta, ma quel qualcosa continuava a camminarmi dentro e, quando un po’ di cose si sono aggiustate, si è ripresentato in maniera prepotente, al che ho iniziato a studiare a Napoli”.

Hai parlato della timidezza; è stato un ostacolo o ti ha dato qualcosa in più?
“Se non ci lavori sulla timidezza, se non la ascolti, se non la guardi, se non lavori su te stesso, può essere un limite, ma nel momento in cui la guardi, la vedi, la conosci, può essere qualcosa che ti dà l’opportunità di andarti a vedere dentro e può diventare un’arma in più. Ma, di certo, inizialmente bisogna sempre essere consapevoli di quelli che si è”.

Si tende sempre a sottolineare la napoletanità, lo si sta facendo anche adesso; questo inorgoglisce o infastidisce? Da un punto di vista professionale è vincolante o no?
“Tasto dolente! All’inizio la napoletanità mi ha creato un po’ di fastidio: mi son trovato a dover affrontare lo studio della dizione, tutti sottolineavano il fatto che fossi napoletano, ma non è che sia una malattia.
Poi in un secondo momento mi sono trovato a fare due provini in napoletano e non sapevo più parlarlo, ho dovuto reimpararlo, me lo imponevo. Ad oggi dico che la napoletanità, come qualsiasi regionalità, va portata con sé perché, altrimenti, potrebbe venire a mancare una verità. Guai a chi mi parla male di Napoli”
.

Ambizioni future? Hai già altri progetti tra le mani?
“Un paio, che però sono proprio tra le mani; ad oggi, dopo due esperienze passate in cui mi è capitato di dire troppo e poi non se n’è fatto nulla, neanche la firma sul contratto mi dà la sicurezza; finché non arrivo al primo ciack non dico più niente. In parte, da buon napoletano, esce anche quella leggera vena di scaramanzia”.

Leggi anche Manuela Zero oltre Cinquantadue: “L’arte da sola non basta”