La Sirenetta: Rob Marshall parla del live action Disney insieme al cast, “anche una rinuncia può essere una benedizione”
Incontro con il cast e i realizzatori de La Sirenetta, remake live action del classico Disney ispirato alla celebre fiaba di Hans Christian Andersen, al cinema dal 24 maggio 2023.
C’è una parola che torna spesso, nelle riflessioni del cast e dei realizzatori de La Sirenetta, remake live action del classico d’animazione del 1989 ispirato alla popolarissima fiaba di Hans Christian Andersen, in sala il 24 maggio 2023 per The Walt Disney Company Italia. La parola tempo. Resta da capire il verso da cui prenderla. Il riferimento va al tempo che separa l’originale fiabesco dagli adattamenti cinematografici, alla distanza tra i due adattamenti o magari c’è dell’altro? La verità è prosaica e ce la spiega il regista, Rob Marshall. “Questo film si è preso tanto tempo per venire alla luce, ci ho lavorato per quattro anni e mezzo”. Sulla stessa lunghezza d’onda Melissa McCarthy, la cattivissima Ursula, che scherza “una storia come questa è il prodotto di un lavoro certosino e pieno d’amore. Credo che Halle avesse undici anni, quando abbiamo cominciato”.
Halle Bailey, musicista (con la sorella Chloe nelle Chloe x Halle), attrice, prima sirenetta afroamericana della storia, con buona pace dei disturbatori razzisti, non la vede in modo così diverso dalla collega. “Il film si è preso cinque anni della mia vita, un periodo intenso e pieno di cambiamenti. Mi sento affine ad Ariel, giovane donna che piano piano impara a parlare con la sua voce”. Non ci ha messo molto, Rob Marshall, a capire di aver trovato la persona giusta. Quasi un record, probabilmente un record. “Abbiamo cominciato a guardarci attorno e dopo cinque minuti avevamo la nostra Ariel. Non scherzo, il fatto è che Halle è stata provinata per prima. Per una questione di serietà professionale abbiamo dovuto esaminare un ulteriore centinaio di attrici, ma era sempre Halle a tornarci in mente”.
Il ruolo se lo prende con l’appassionata versione, resa nel corso del provino, di Part of your world, uno dei pezzi classici del film del 1989. “Pazzesco, si è seduta di fronte a noi, ha chiuso gli occhi e ha cominciato a cantare in modo meraviglioso. Mi ha colpito soprattutto la sua istintiva capacità di entrare in sintonia con il materiale”. E come lo ricorda Halle Bailey, il momento fatidico? Qual è stata la sua reazione? Beh, è abbastanza prevedibile. “Allora, ero in macchina con mia sorella, tornavamo a casa dopo aver festeggiato il suo compleanno, cercavamo di rimetterci in sesto per il lavoro. Squilla il telefono, compare un numero sconosciuto e non rispondo, non lo faccio mai se non so chi è che chiama. Ma intorno a me hanno insistito così tanto che per una volta ho infranto la regola e ho risposto. All’altro capo c’era Rob che ha esordito dicendomi, pronto, parlo con Ariel? Cos’altro avrei dovuto fare? Ho pianto tutto il giorno”. Halle Bailey ascolta tutti, ma si fida soprattutto di una persona. “Mia sorella, è la mia migliore amica e la mia roccia. Ha visto il film per la prima volta proprio in occasione dell’anteprima mondiale. Si è emozionata, mi ha stretto forte la mano. Lì ho capito che ce l’avevo fatta, che le era piaciuto”.
La Sirenetta: il metodo di Rob Marshall a metà strada tra cinema e teatro
Ibrido di live action e animazione, La Sirenetta ha richesto un imponente sforzo tecnico per equilibrare i due universi; bisognava che il mix risultasse insieme spettacolare e credibile. I doppiatori hanno molto apprezzato il metodo di Rob Marshall. Comincia Daveed Diggs, Sebastian, da noi se ne occuperà Mahmood. “Il lavoro preparatorio è stato d’ispirazione teatrale. Non avendo partecipato alle riprese, passare dal lavoro in cabina al film proiettato in una sala enorme è stato uno shock bellissimo”. Non è il solo a pensarla così. Anche Awkwafina (Scuttle) è rimasta sorpresa da “prove come non ne avevo mai fatte. Quando doppio, me ne sto per lo più tutta sola in cabina, qui invece ho letto le scene insieme agli altri attori, c’era davvero tanta gente”. Del film apprezza soprattutto “la capacità di riflettere l’enorme diversità che c’è al mondo. Meritiamo tutti di vederci rappresentati”. Non c’è nulla di pretenzioso nella sua etica professionale. “Vorrei potervi raccontare che non faccio tardi la sera prima o cose del genere, ma non è così. Semplicemente, mi alzo, vado al lavoro e mi do da fare”.
Jacob Tremblay, Flounder, nota come “di solito, oltre al lavoro in cabina di doppiaggio, ci si vede su Zoom e tutto finisce lì. In questo caso, abbiamo passato del tempo insieme in Inghilterra. Mi ha aiutato molto”. Giovane, giovanissimo, sedici anni, ci tiene a sottolineare di essere nato “molto tempo dopo il film d’animazione, ma non ricordo un momento in cui non me ne ricordavo! L’ho rivisto un paio di volte per padroneggiare alcune sfumature del carattere di Flounder”. Prepararsi per un musical significa addestrare le corde vocali a sopportare uno stress notevole. “Non avevo mai cantato prima, soltanto sotto la doccia, ma quello non conta. Il mio coach vocale mi ha dato una mano insegnandomi tanti esercizi di riscaldamento, scioglilingua anche. Mi sono divertito, confesso che all’inizio avevo un po’ paura“.
Come risponde Rob Marshall al generale apprezzamento? Il cast ne parla scherzosamente come di una cheerleader vestita di cashmere, lui sorride e spiega che “intanto, venendo dal teatro, sono abituato a considerare le prove come parte di un processo più ampio. I film musicali sono un intreccio di cinema e teatro. Il mio scopo, da regista, consiste nel proteggere gli attori per consentirgli di fare schifo, di rovinare tutto, di essere terribili e così via. Arrivati a quel punto, si può soltanto migliorare. Cerco di proteggerli dalla pressione. Poi” continua “sono film, questi, che richiedono una sorveglianza particolare: bisogna fare attenzione a che l’aspetto tecnico non prenda il sopravvento sulla storia. C’è una strana contraddizione che riguarda il cinema. Grandi budget, grandi sale, tanto pubblico, ma in fondo le riprese, il lavoro sulla scena, è una faccenda molto, molto intima. Un’altra cosa che mi piace è di mettere alla prova attori che non hanno esperienza con il musical. Perchè loro cantano come canterebbe il personaggio, non si nascondono dietro la tecnica. Quanto alla fiaba di Andersen, è naturalmente moderna”.
Un film in cui sono i figli a insegnare qualcosa ai genitori, parola di Javier Bardem
Rob Marshall ha un feeling speciale con la Disney. Into the Woods, Il Ritorno di Mary Poppins, ora La Sirenetta. “Adoro lavorare con loro, perché ti supportano in qualsiasi circostanza. Non ho mai sentito una pressione particolare, il budget monstre non mi ha frenato. Dovevo solo assicurarmi che le canzoni si integrassero organicamente con la storia ed evitare un remake troppo fedele”. Come rifacimento è in effetti abbastanza libero, anche perché si concede il lusso di introdurre un nuovo personaggio, la Regina Selina, Noma Dumezweni, madre del principe Eric. “New entry, certo, ma non avevo paura. Mi fidavo pienamente di Rob e del team creativo. Sono un’attrice che si accontenta di poco. Datemi un bel vestito e un’acconciatura interessante, che al resto ci penso io”. Di nuovo il tempo che passa. “Mia figlia aveva dodici anni quando sono stata scelta, ora ne ha sedici, è stato un bel viaggio”.
Il principe Eric è John Hauer-King e comincia scherzando. “Devo dire che costringermi a cantare insieme a un’artista nominata ai Grammy come Halle, la considero una cosa tremendamente crudele! Essere un principe Disney è insieme un privilegio e un onore, anche perché questa è una storia realistica, al di là del fondo di fantasia. L’elemento di novità è la forte amicizia che c’è tra Eric e Ariel. Nelle maggior parte dei film di questo filone, l’attrazione tra lui e lei è immediata. Qui, invece, abbiamo l’incontro tra due spiriti affini che si insegnano cose sui rispettivi mondi di provenienza. Ecco, se devo sottolineare un aspetto del film che mi piace, è proprio quest’idea sulle storie d’amore. Per stare insieme, occorre prima di tutto una solida amicizia”.
Javier Bardem è il Re Tritone, padre di Ariel. Lui, nel film, non canta. “Ho una voce terribile, per questo non mi sentite. Tritone è un uomo profondamente innamorato, come padre, della sua bambina. Commette però l’errore di confondere il suo suo amore con le sue paure, impedendo ad Ariel di crescere, di trovare la sua strada”. Della figlia cinematografica dice “con Halle è scattata una connessione istintiva. Sono colpito dalla qualità della sua performance. Una cosa che mi è stata detta e che trovo molto giusta è che nel film, per una volta, sono i figli a insegnare ai genitori cosa sia l’amore. L’unica cosa di cui avevo paura era che il personaggio nuotasse nudo, l’ho anche detto a Rob, non farmi questo ti prego! Per fortuna Tritone ha un costume”. Non vede l’ora di conoscere il responso dei suoi figli. “Lo vedranno a Madrid, a breve”. Tutta un’altra storia rispetto a Non è un paese per vecchi; la filmografia dell’attore spagnolo è pregevole ma non sempre per tutta la famiglia. “Bene, stavolta potranno sincerarsi del fatto che il loro papà ha davvero un lavoro”.
La Sirenetta è una prima volta per molti ma non per Alan Menken, responsabile delle musiche, ormai leggendarie, del primo film. Con Under the sea/In fondo al mar (sentitevi liberi di canticchiarla mentre leggete) vince l’Oscar come miglior canzone. Per il produttore John DeLuca “Under the sea: come farla, cosa fare, era questa la sfida. Io e Rob abbiamo cercato di occuparcene il più tardi possibile”. Rob Marshall sapeva di dover cambiare alcune cose. “Nel primo film Ariel aveva solo una canzone, fortuna che Alan è stato molto aperto”. E cosa ne pensa Alan Menken? “Rob ha sostenuto l’originale come credevo avrei dovuto fare io. Non penso di essere uno che intimidisce, è il ruolo del compositore che fa un po’ di paura. Generalmente, lascio liberi gli interpreti di appropriarsi del pezzo. Mi è piaciuto lavorare con Lin-Manuel Miranda su un pezzo caraibico su cui ha cucito sopra un bellissimo rap. Vedete, quando si lavora a un musical bisogna mettere in piedi una struttura elaboratissima che deve sopportare un mucchio di spostamenti e di cambiamenti. Scrivi per i personaggi, per il concept, per il ritmo della storia. Combini esperienza, istinto e quello che richiede l’evoluzione del personaggio. Devi essere pronto a buttare le cose che hai creato. Ma, a volte, anche una rinuncia può essere una benedizione”.