Lodo Guenzi si racconta tra sogni e traumi d’arte, dal film di Pupi Avati a quella mail mai inviata
La nostra intervista a Lodo Guenzi sonda l'animo poliedrico del cantante e attore, in un'esplorazione che parte dal suo personaggio per arrivare a noi. Dai personaggi che gli hanno segnato la vita alle emozioni che prova, fino alle dritte "rubate" agli autori della letteratura italiana.
C’è musica, recitazione e delicatezza nel destino di Lodo Guenzi: un labirinto di strade scoscese che arrivano sempre nella stessa destinazione, il cuore. Che è prima quello del cantante e attore bolognese e poi è quello del suo pubblico, che in quel ragazzo dalla faccia pulita e lo sguardo impacciato ci vede tutta l’umanità che serve all’arte per farsi spazio tra i nostri pensieri più remoti.
Conosciuto dai più per essere il cantante de Lo Stato Sociale, Lodo è approdato da qualche anno sul grande schermo dopo aver sperimentato anche il teatro e dal 4 maggio 2023 è in sala con La quattordicesima domenica del tempo ordinario, uno dei film più personali di Pupi Avati in cui interpreta il giovane Marzio Barreca che, dice, “è migliore di me: la sua battaglia per l’eternità è ancora di fronte a lui, può ancora sperare che un giorno venga preso a Sanremo e che il suo pezzo abbia successo. Io so che non è così e quindi io sono il suo secondo tempo, sono in qualche modo più fallito di lui. Sono anche consapevole che il fallimento è inevitabile quando la tua ambizione è l’eternità“.
È emozionato, Lodo Guenzi, mentre parla del film e del personaggio che Pupi Avati gli ha affidato con così tanta premura. Intuiamo la sua prorompente delicatezza nel mettersi nei panni di Marzio, questo ragazzo che si ritrova a essere uomo senza rendersene conto, che aveva tanti sogni rimasti irrealizzati ma che, nonostante tutto, non smette di sperare di poter vivere d’arte. Nella nostra chiacchierata l’attore emiliano non fa che edificare ponti verso il suo personaggio; è un dialogo talvolta non richiesto ma perenne e matematico, un’esplorazione in tempo reale di sé fatta senza riserve, come quando gli chiediamo quale sia il suo sogno nel cassetto e lui, preso quasi alla sprovvista, ci risponde che “sta cercando di capirlo”, confidandoci l’effetto dirompente che il film ha causato in lui. “So che non è una cosa che si vede necessariamente da fuori, ma ti garantisco che da dentro è stata una vera esperienza.” – racconta – “Marzio è uno che ha ancora un sogno nel cassetto, non fa che parlare di quello. Io ho realizzato un po’ di sogni e adesso non sto capendo esattamente qual è il prossimo sogno… lo sto capendo in questo momento, secondo me questo film può essere d’aiuto!“.
Secondo classificato a Sanremo 2018 col brano Una vita in vacanza, Lodo si è distinto fin da piccolo grazie alla sua creatività, che lo ha portato a sperimentare un po’ tutti i settori, dall’arte alla musica la quale è stata, al netto di tutto e tutti, il suo vero punto di arrivo e partenza. Nonostante le precedenti interpretazioni – da Est – Dittatura Last Minute a Il giorno più bello – La quattordicesima domenica del tempo ordinario si pone come la sua consacrazione artistica in quanto unisce attivamente più lati della sua formazione professionale, spingendolo altresì a indagare su un passato che per ovvie ragioni non gli appartiene più.
Ci racconta che la sceneggiatura “bellissima” del film gli è arrivata in un momento in cui aveva iniziato a chiedersi cosa aveva ancora da dargli la musica. In questo lungometraggio si riversano allora “le miserie e le disperazioni e anche i momenti di grande allegria che ho affrontato [… questo film] è la maniera più bella per raccontare cosa si fa quando la musica non è ancora un lavoro, quando ancora non sei dentro il mercato”.
Lodo Guenzi: “in un sistema in cui la sopravvivenza non è garantita il fallimento viene percepito come una tragedia”
In un post hai detto che La quattordicesima domenica del tempo ordinario è una lettera d’amore a tutti quelli che hanno provato a suonare, anche senza successo. Insomma a tutti i falliti, se vogliamo. Si scorgono delle note di positività in questa parola che richiama solo cose brutte e quindi ti domando: chi sono davvero i falliti per te?
“Secondo me in quell’espressione c’è un dato bello e poetico, cioè qualcuno che ancora si ricorda di sognare in grande rispetto a come vive, che si ricorda che la distanza tra i suoi sogni, le sue ambizioni, e la realtà non è colmabile neanche quando riempi un palasport o uno stadio, in questo senso siamo tutti falliti. Poi, per come la vedo io, riconoscere il fallimento è una cosa che fa parte della vita e credo che culturalmente la minoranza che si occupa di questi temi, cioè una borghesia semicolta, che però è al centro del nostro dibattito, stia cercando di rimuovere questa possibilità, rimuovere dal dibattito la parola ‘fallimento’.”
Per rafforzare la sua opinione Lodo tira in causa anche cose personali, come quelle “canzoni che non hanno avuto successo”, spiegando che “abbiamo sbagliato alcune cose e fanno parte del percorso, ma possono farne davvero parte solo se ne riconosciamo il fallimento. Non dovrebbe essere qualcosa di terribile aver fallito, bisognerebbe riconoscerlo con più semplicità.
Ovviamente questa cosa si fa per una ragione molto semplice: viviamo in un sistema in cui ti dicono che se fallisci in qualcosa non devi sopravvivere, devi abituarti a lavorare gratis per fare un piacere a questo o quell’altro imprenditore, che anche avere semplicemente più di 10 euro di paga oraria non è una questione dignitosa ma è una questione di gara per la sopravvivenza. E allora in un sistema in cui la sopravvivenza non è garantita il fallimento di qualsiasi tipo, anche delle cose ambizione (tipo riuscire a campare cantando delle canzoni, per dirne una!), viene percepito come una tragedia. E invece non è una tragedia ma in questa società tende a diventarlo e noi pensiamo che il lavoro culturale sia far finta che non esistano i fallimenti, piuttosto che creare una società più giusta”.
La quattordicesima domenica del tempo ordinario e il ricordo di Mirko Bertuccioli, che “non ha mai avuto quello che mia nonna chiamerebbe il successo”
Continuando a parlare del film arriviamo nel campo minato delle vicende personali, in primis quelle vissute da Pupi Avati e narrate in La quattordicesima domenica del tempo ordinario. “Ovviamente non ero così preparato rispetto alla biografia del maestro,” – racconta Lodo Guenzi – “però lui sa caricarti di cose importanti direttamente sul set. Ci sono episodi che hanno a che fare con la sua vita e tu non sai, magari sono anche episodi drammatici… è lui che ti dice ‘mi è successa questa cosa quell’anno lì, adesso devi farmi vedere che provi questa cosa’. E insomma non è male come sfida”.
E proprio perché ci si trova immersi in una sceneggiatura così pregna di vita vissuta che si corre il rischio di rintracciare sprazzi della propria vita, anche se può essere completamente diversa da quella di chi dirige, per esperienze, professione ed età. Nella storia di Marzio e dei Leggenda il cantante a interprete bolognese ha rinvenuto in maniera molto chiara volti a lui familiari, “tendenzialmente persone che hanno a che fare con la musica indipendente che ho vissuto io. La persona, per mancanza, a cui sono più legato è sicuramente Mirko Bertuccioli dei Camillas, che è venuto a mancare durante il covid ed è stato il papà, il fratello maggiore, di tutti noi; si è inventato non tanto un genere musicale quanto una maniera di stare assieme e non ha mai avuto quello che mia nonna chiamerebbe il successo e quindi sicuramente io pensavo a lui“.
La narrazione filmica è visceralmente legata alla città di Bologna, al punto che sembra esserci un posto che ha il potere di far accadere le cose che desideri. Hai trovato questo posto a Bologna?
“Bologna in realtà è abbastanza piena di questa magia. Io credo di essere più innamorato della mia città rispetto a Pupi, che però questo dato lo rimuove e poi lo fa emergere in tutte le opere, quindi è sempre difficile dire questa cosa…
Io avevo un posto che chiamavano ‘ai treni’, in via della Campagna, ci andavamo quando avevamo 14/15 anni ed era una stazione abbandonata dove passavano a volte dei treni merce. Per raggiungerlo dovevamo scavalcare un cancello. Stavamo lì a raccontarci la vita… con i miei migliori amici di allora, che non sono tanto diversi dai miei amici di adesso. E ci raccontavamo le nostre sfighe, cercavamo di far uscire fuori qualcosa di buono dalle nostre sfighe, che è qualcosa che ha molto a che fare con Bologna, che ha tanti difetti ma grazie al cielo non ha l’etica del successo, che invece hanno altre città più grandi”.
A mancare, a Bologna, forse anche qualche angolo di natura. Perché nella nostra chiacchierata emerge anche una curiosità in merito alle prime lettere scritte da Lodo Guenzi. Se la prima, dal contenuto ignoto poiché dimenticato, era indirizzata a un amico immaginario “che si chiamava l’AmicoRoma, tutto unito!”, l’attore ricorda “una cosa che scrissi a mio papà alle elementari che mi fa molto ridere: ‘Voglio molto bene al mio papà e per questo gli regalerò un ciclamino’. Ed era molto evidente che io (figurati, ragazzo di città!) non sapessi come fosse fatto un ciclamino, mi piaceva la parola!”.
La quattordicesima domenica del tempo ordinario, Lodo Guenzi commenta la colonna sonora del film: “Sergio Cammariere è una persona simpaticissima”
Parlando della colonna sonora del film Lodo ci svela senza troppi indugi: “Intanto voglio dire una cosa: Sergio Cammariere, oltre a essere molto bravo, è una persona simpaticissima, una delle persone più simpatiche che io abbia mai incontrato in questi anni. Io credo che la colonna sonora sia bellissima, mentre la canzone principale del film ha qualcosa di brillante, perché mi sembra anche un brano con dei difetti. È una canzone che ha i pregi di Pupi e di Sergio, cioè è fatta da persone che hanno capito qualcosa della vita e della musica, e ha il rischio di un musicista che vuole fare il passo più lungo della gamba, che non ha ancora capito chi è davvero e per questo non ha ancora avuto successo.
Io credo in quello che dice Pupi, cioè che ognuno di noi ha qualcosa di assolutamente unico e irrinunciabile da dire al mondo, deve solo capire chi è per dirlo. E nella musica è assolutamente così.
Allora questo disperato, ambizioso e gotico, geloso, violento e costantemente sconfitto dalla vita e ubriaco non scrive Vivere di Vasco Rossi, altrimenti diventerebbe Vasco Rossi! Invece scrive una cosa che ha il linguaggio poetico di Pupi ma dal punto di vista del personaggio ha comunque quasi un’ampollosità, qualcosa di maniera, la voglia di mostrarsi più cantautore e intellettuale di quanto non sia. Un verso che inizia con un endecasillabo… cioè, secondo me questa cosa è molto brillante perché ti racconta di uno che in qualche modo ha talento ma non riesce a sbloccarlo perché non ha capito chi è. C’è il mio migliore amico, che poi è un regista teatrale, si chiama Nicola Borghesi, che dice: ‘Il talento è la minore distanza tra quello che fai e quello che sei’. Ecco, Marzio Barreca quella distanza non l’ha mai colmata, come la distanza tra i sogni e la realtà”.
Hai parlato di gelosia e di sogni: che rapporto hai con la gelosia e quanto è importante sognare?
Lodo Guenzi ammette di non essere “per niente geloso” ma giustifica il suo personaggio, che invece ha delle reazioni davvero esagerate, dicendo che, nonostante ami molto Sandra, all’inizio l’attrazione che prova ha “moltissimo a che fare col suo ego, cioè lei faceva parte del suo progetto di diventare leggendario e quindi per diventare la rockstar migliore del mondo deve stare con la donna più bella del mondo che poi, in realtà, trattandosi di provincia diventa la donna più bella di Bologna. E in quest’ottica è chiaro che più lui fallisce più si accanisce con Sandra. Secondo me quella gelosia è legata al fatto di non essere riuscito a fare qualcosa“.
“Questa è la mia personale opinione” – specifica l’attore – “e non credo che rispetti la volontà dell’autore, perché Pupi ci mette dentro sua moglie e lui è uno dei principali maestri del cinema italiano da molti decenni, quindi sicuramente il suo talento è stato riconosciuto e” – termina la frase accennando un sorriso – “ha continuato a essere geloso”.
Parlando di sogni, invece, Lodo dice che “sognare è universale e i sogni sono personali”, ma asserisce che ce ne sono due di due categorie: due tipi di “sfida che uno si pone, tutte destinate a essere perse. Una sfida è quella più semplice, che ha a che fare con i numeri, banalmente: diventare il più ricco del mondo, il più ascoltato del mondo, fare il record di goal, di promozioni, di ciò che vuoi. E ovviamente questa è una sfida che non può che essere persa, perché i numeri sono definiti e tutti i record vengono in qualche maniera infranti.
E poi c’è una sfida un po’ più mitomane che riguarda persone estremamente ambiziose, come tendenzialmente sono gli artisti, cioè l’idea di cambiare la vita alle persone con una canzone o con un film. Cosa che, sia chiara, non è impossibile di per sé in assoluto, ma è possibile a seguito di una serie di circostanze esterne che in realtà hanno reso la persona pronta a farsi cambiare la vita e quindi quella canzone o quel film hanno rappresentato una piccola spinta. Però il problema è che questa fantasia totalmente mitomane non si rapporta mai con la realtà ma con l’infinito, cioè non ci ricordiamo mai di quelli che ci hanno detto che gli abbiamo cambiato la vita, noi ci ricordiamo solo degli altri, ogni volta. E per questo non esiste qualcuno che non sia un fallito!“.
Lodo Guenzi e quella mail mai inviata a Francesco Bruni
E in rifermento a questo c’è anche nella sua esistenza un regista che gli ha cambiato la vita e col quale sogna un giorno di lavorare: “Si chiama Francecso Bruni. Ho visto un suo film in un momento molto particolare della mia vita, si intitola Cosa sarà, con Kim Rossi Stuart. L’ho visto in un periodo particolare della mia vita e poi l’ho incontrato anni fa a Venezia; mi è venuto incontro ed è stato simpatico (io adoro i livornesi!), è venuto per farmi i complimenti per Est e niente… io ho guardato il film e poi gli ho chiesto una mail. Volevo scrivergli il motivo per cui quel film mi ha lasciato un segno addosso, ma non ho mai finito di scriverla e mi intimidisce l’idea di concluderla. Anche quando l’ho rivisto non gliel’ho più detto. Può darsi che un giorno gli spiegherò perché…”.
A proposito della tematica affrontata dal film in questione Lodo ci spiega: “il tema della malattia e delle sue conseguenze ha a che fare con una persona e ha inciso sulle mie scelte lavorative, tanto della mia vita è dipeso dalle conseguenze di questo scenario“.
E sul fatto di non riuscire a finire quella mail spiega: “La verità è che quando qualcuno mi scrive qualcosa, dicendomi ad esempio che una mia canzone è diventata importante, io sono imbarazzatissimo perché è una roba che non ti aspetti e quindi non cerchi neache di addentrarti nelle questioni altrui, invece loro ti ci fanno entrare come se fosse sempre stata casa tua”.
Parlando delle tue canzoni, nei testi mostri spesso attenzione per le piccole cose (solo per citare una frase estrapolata da un brano: “Se ho fatto una cosa importante è stato scaldarti le gambe”) e viene in mente un autore come Pascoli e il fatto che hai conseguito la maturità classica, tra l’altro nella stessa scuola di Pupi Avati! Alla luce di questo: c’è qualche autore studiato tra i banchi di scuola che ti ha in qualche modo influenzato?
“Si, ti cito Pier Vittorio Tondelli che per me è una figura luminosa. Questa cosa che citi e in generale questo approccio non solo alla scrittura ma anche alla vita e alla recitazione, che in questo caso funziona anche in base alla correlazione oggettiva… Ti faccio un esempio: questo film è scritto da un poeta e non c’è un’immagine o un episodio che non sia chiaro (questa è una mia opinione!), però spesso reciti delle cose che non sono chiare e allora devi tradurle dentro di te con un parallelo della tua vita tipo la serata più bella della tua vita
Ovviamente quando scrivi questo meccanismo sarebbe bello scardinarlo, cioè non dire è stata la giornata più bella della mia vita, ma dargli un’immagine precisa… il gioco dentro la nebbia di luci a San Siro… capisci chiaramente che quella è stata la sera più importante di chi scrive ma non te lo dice mai”.
Avviandoci verso la fine della nostra chiacchierata, Lodo cerca di ricordare la scena più bella de La quattordicesima domenica del tempo ordinario ed emerge che il ricordo che si poterà dietro per tutta la vita è incastonato esattamente nelle riprese dell’ultima sequenza, quella più importante, che poi sarebbe la scena in cui va a farsi premiare “alla festa sfigata di quartiere, quella in cui mi fanno incontrare Samuele e poi compare mia madre. Quella è stata l’ultima scena girata e credo che lì Pupi ci abbia messo l’anima, si era sentito male… considera che lui è una turbina sempre accesa, non si ferma mai, quando gira un film si alza anche la notte se gli viene in mente un’idea […]. Insomma quel giorno lì giravamo con questo coro formato da persone di mezza età che lui gestiva, per cui si era messo in un tavolino in fondo al palco. Era, te lo giuro, una battuta vivente! Prendeva in giro tutti quanti e mi ha fatto morire da ridere. Era evidente che fosse felice per il film, era nella libertà di prendere tutti per il culo e io mi sono pisciato addosso dal ridere!”.
La riflessione con la quale scriviamo la parola fine alla nostra intervista con Lodo Guenzi è uno scampolo di confidenza su cosa rappresenti per lui l’arte e se ha scelto di dedicarsi alla musica e al cinema semplicemente perché si è accorto di poterlo fare, di avere talento, o perché è un bisogno.
“La parola arte è sempre impegnativa. La migliore risposta non può che intercettarsi nei traumi che abbiamo avuto da bambini. Cioè: perché io mi sento a disagio più o meno sempre, anche al telefono con te che sei una persona garbata e che mette a proprio agio ma non su un palco di fronte a 10 mila persone? Cosa c’è di strano nella mia personalità? Mi hanno coccolato troppo? È perché sono figlio unico? Mi hanno coccolato troppo ma non abbastanza o in maniera strana? È difficile capire…
Rispondendo rispetto al film sembra di intuire che Marzio da bambino non si sentisse all’altezza di suo padre, che probabilmente ha perso troppo presto per ridimensionarlo e umanizzarlo. Io non lo so, probabilmente Pupi Avati avrà una visione più chiara e consapevole di questa cosa…”
Davanti a tale intima esternazione, in una chiamata che era partita con un “sono un po’ rincoglionito”, dilagando a fasi alterne su scorazzate in motorino senza patente (già, perché Lodo, classe 1986, ha avuto la possibilità di guidare il motorino senza patentino e poi, quando la legge è cambiata, nel 2004, per pigrizia non l’ha mai presa), il racconto dei traumi attira le risposte di chi intervista: “Posso dirti la mia?”, lui annuisce dall’altro capo del telefono, ascoltando silenziosamente la prospettiva altrui. E quello che riceve è questo: “Io penso che il fatto di sentirsi più a proprio agio davanti a una folla di persone stia proprio nel fatto di non conoscere quella folla: sei immerso lì, davanti al pubblico, ma è come se fossi davanti a nessuno, mentre nel momento in cui ti relazioni col singolo è come se fossi costretto a guardarti dentro, a fare i conti con te stesso. Quindi forse la timidezza e l’imbarazzo possono derivare in qualche modo da quello, poi è chiaro che ognuno di noi ha dei traumi. Del resto chi fa arte la fa per far fluire un trauma irrisolto che per certi versi, per fortuna, c’è. Perché in fondo l’arte è sempre un atto di dolore che viene trasformato in qualcosa di più, in qualcosa di meraviglioso“.
Sorride con grazia e risponde: “Sai? Potrebbe darsi che hai ragione!“.