Intervista a Lorenzo Richelmy: “la recitazione è un lubrificante sociale”
Intervista a tuttotondo all’attore spezzino, vincitore del premio per la migliore interpretazione maschile al Saturnia Film Festival 2023 con il suo ruolo nel film L'uomo sulla strada di Gianluca Mangiasciutti.
In attesa di vederlo all’opera nel nuovo film di Gabriele Muccino, nell’imminente Eravamo bambini di Marco Martani e nelle serie televisive Kidnapped e Fifteen-Love, Lorenzo Richelmy continua a regalare al pubblico del grande e piccolo schermo intense e coinvolgenti interpretazioni. Una di queste è quella di Michele in L’uomo sulla strada di Gianluca Mangiasciutti, con la quale ha vinto il premio come migliore attore alla sesta edizione del Saturnia Film Festival. Ed è proprio in occasione della presentazione della pellicola nella sezione lungometraggi opere prime e seconde della kermesse toscana che abbiamo avuto l’opportunità di incontrare l’attore spezzino. Il risultato è una one-to-one in cui abbiamo avuto modo di rivolgergli delle domande sulla sua carriera e sul suo modo di vivere il mestiere.
La nostra intervista a Lorenzo Richelmy, vincitore del premio per il migliore attore con L’uomo sulla strada al Saturnia Film Festival 2023
Cosa c’è dietro la scelta di diventare un attore?
“Ero il classico bimbo sovrappeso messo in disparte dai compagni, l’ultimo ad essere scelto a calcetto per intendersi, che a tredici anni, grazie ai geni e dopo avere perso dieci kg ed essere cresciuto in altezza, ha visto improvvisamente cambiare lo sguardo e l’opinione che gli altri avevano su di lui. Tutto è accaduto nel giro di un’estate. A settembre sono tornato a scuola e le persone mi guardavano in maniera completamente diversa. Anche il loro giudizio di me e su di me sembrava cambiato, eppure ero la stessa persona di prima, ma con qualche kg in meno. E lì ho iniziato veramente a interrogarmi su quanto l’abito facesse il monaco. Poi quando è arrivato il momento di decidere quale mestiere intraprendere, provenendo da una famiglia di attori teatrali, ho trovato nella recitazione un’opzione possibile che mi consentiva di studiare e approfondire questo aspetto della mia vita che avevo già incontrato. E farlo attraverso il lavoro sul proprio corpo, sul proprio movimento e sulla propria estetica, così da inviare a chi mi guardava dei messaggi o quantomeno comunicargli qualcosa di me. All’inizio mi sembrava tutto finto, ma poi ho iniziato ad amare quello che è un aspetto controverso del mio mestiere del quale ha parlato magnificamente Denis Diderot nel suo trattato Paradosso sull’attore: se da una parte l’attore deve avere una grande onestà intellettuale, dall’altra deve avere anche una grande capacità di mentire. E io la penso come lui.”
Per un attore è importante l’immagine e anche quanto decide di esporsi pubblicamente oltre lo schermo. Che rapporto hai in tal senso con i social?
“Tenere per sé delle cose e non mostrarsi in tutto e per tutto secondo me esercita su coloro che ti seguono e ti guardano un grandissimo mistero. Ecco perché ad esempio non ho un profilo instagram e non sono ossessionato dalla smania di pubblicare foto di me ovunque io mi trovi. In generale credo che l’immagine per chi fa questo mestiere debba essere centellinata. L’attore per me deve esporsi in una certa misura e in una certa quantità. Chi non lo capisce e mette in mostra tutto di sé in maniera eccessiva rischia seriamente di danneggiarsi.”
Cos’è per te la recitazione?
“Di base è quello che diceva Marlon Brando: un lubrificante sociale. Tutti recitiamo. Il ruolo stesso che ti impone la Società è una prima maschera. Poi sta a te decidere se approfondire sempre la stessa o indossarne diverse. Fare l’attore significa non accettare questa cosa, essere un po’ anarchico e non avere un ruolo predefinito. Di fatti io non dico mai sono un attore, ma faccio l’attore. E così direi se facessi qualsiasi altro lavoro, perché così creo la distanza dal ruolo sociale a quella che penso sia la mia essenza.”
In questi anni hai interpretato figure complesse e stratificate, anche controverse sotto certi punti di vista, non ultimo il Michele di L’uomo sulla strada. Ti è mai capitato di giudicare un personaggio o di essere giudicato a tua volta?
“Essere giudicato si, perché nella misura in cui ti ritrovi in un personaggio è facile arrivare a pensare con le sue idee e agire come lui. Facile è ritrovarsi a fine film con i panni del personaggio ancora addosso, con la fatica di tornare alla vita di prima perché ti sembra vuota, inesistente o in contrasto con quello che era il personaggio. Mai il contrario, perché da artista devi essere il più privo di giudizi possibile. Qualsiasi personaggio per quanto mi riguarda deve essere costruito in assenza di giudizio.”
L’avere interpretato personaggi psicologicamente così diversi da te come quello in Il talento del calabrone, ti ha fatto scoprire qualcosa di te o fatto arrivare laddove non pensavi saresti mai arrivato?
“Mi è capitato in più di un’occasione e il riuscire a scoprire qualcosa attraverso i personaggi è il bello del mestiere. Per me scoprire significa liberarsi. Più vado avanti e più perdo pezzi di me stesso. Abbiamo tutto già dentro e negli anni acquistiamo sovrastrutture sociali e familiari che poi non sono veramente tue. In questo senso ogni volta che faccio un personaggio è come se mi liberassi del tabù di quella cosa. Ne Il talento del calabrone ad esempio ho perdonato i carnefici d’infanzia. Ma si tratta di una seduta psicoterapeutica più che l’avere scoperto qualcosa di nuovo. Lo scopri nella misura in cui cresci e maturi, dove maturare per me di solito è sempre stato sinonimo di abbandonare dei preconcetti o dei giudizi aprioristici che avevo in testa.”
Quando ti viene offerto o hai la possibilità di sceglierlo, cosa speri di trovare in un personaggio e non deve venire meno?
“Non deve mai venire meno l’urgenza. Deve esserci sempre qualcosa di necessario, che può essere un riscatto sociale o il salvare una persona. Mi piace lavorare all’interno di una struttura stretta. E più il perimetro è stretto e chiaro, più mi sento libero di fare quello che voglio all’interno di quello spazio lì. Una struttura stretta significa confrontarsi con un personaggio delineato con dei tratti o delle necessità marcati. Poi sarò io nel percorso di studio a capire cosa vuole e in quale direzione deve andare nel corso della sceneggiatura. Quindi per me ci deve essere sempre un’urgenza, un conflitto e di conseguenza un grande ostacolo da superare.”
C’è un qualcosa che caratterizza il tuo percorso di avvicinamento al personaggio?
“Al momento dello studio e della lettura identifico delle cose che possono aiutarmi a costruire il personaggio. Di solito si tratta di un quadro e di una canzone o di un album. Il primo mi serve a impostare il tono, mentre la musica il ritmo. E poi vengono tutti i tecnicismi del mestiere. In generale il mio approccio è sempre molto fisico e durante la fase di studio cerco di arrivare il più velocemente possibile alla pratica che consiste nel fare muovere, parlare e camminare il personaggio di turno.”
Lorenzo Richelmy e il rapporto col successo
Cosa pesa di più nella scelta di un personaggio piuttosto che un altro? Cosa speri di trovare in un ruolo che ti viene proposto?
“Trovarmi al cospetto di qualcosa di poco rassicurante. Ma in generale dipende molto anche dal momento che sto attraversando nella mia sfera privata e a quello che sto vivendo. Mi è capitato di rifiutare dei progetti che avrei fatto in altre fasi della mia vita, perché nella mia sfera privata stavo facendo delle cose che secondo me sarebbero andate in contrasto. Quindi accettare di fare quel personaggio mi avrebbe allontanato dal mio percorso umano. Di solito però più i personaggi sono lontani da me, più mi interessano. Poi cerco di non ripetermi mai, perché la noia è la morte dell’arte.”
Cosa ti spaventa di più della popolarità?
“Per caso mi sono ritrovato ad essere un attore che lavora con continuità, ma non per questo particolarmente popolare e famoso. Per caso e per scelta ovviamente. Basta vedere che non ho un profilo instagram e non sono seguito da un ufficio stampa. In generale mi spaventa l’idea di perdere pezzi di libertà, pezzi di vita civile e sociale come la possibilità di andare a manifestare in piazza o a bere in tranquillità una birra con gli amici. La popolarità probabilmente mi avrebbe fatto lavorare e guadagnare molto di più, ma non posso comunque lamentarmi perché faccio un mestiere che amo e ho avuto e continuo ad avere la possibilità di interpretare personaggi in film e serie di tutto rispetto.”
Lorenzo Richelmy tra film e personaggi
Quali sono i film o i personaggi che secondo te non sono stati compresi e quelli invece che sono andati oltre le tue aspettative?
“Dipende sempre da quanto e da come vengono visti. Comunque il personaggio tra quelli che ho interpretato meno compreso è sicuramente l’Andrea Serrano di Dolceroma di Fabio Resinaro, perché era parte integrante di un film strano, spurio da un certo punto di vista, ma secondo me molto riuscito nella sua scompostezza e sgrammaticatura filmica. Invece quello che mi ha stupito tantissimo è La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi, dove vesto in panni del detective Borghi, per il quale ho ricevuto tantissimi complimenti per un personaggio relativamente semplice, ossia un ispettore con i baffi, niente di più canonico e classico. Ma evidentemente le figure forti e chiare sono quelle che rimangono più facilmente impressi.”
E quello invece che ti ha messo più a dura prova, spingendoti al limite?
“Sono due. Il primo è Ride di Jacopo Rondinelli, un film davvero molto impegnativo dal punto di vista fisico: avevamo tutto il tempo le go-pro addosso, in totale libertà e con probabilità di infortunarci altissima. Un horror che ti spingeva al limite e che ha richiesto un durissimo lavoro con il corpo. Alla fine della giornata di riprese eravamo tutti stanchi morti, con le gambe che ci tremavano per la fatica. Il secondo è Il diario di spezie di Massimo Donati, dove al contrario sono stato io a spingermi al limite e a nascondermi di più sia con il linguaggio, ossia il dialetto veneto, che con il tipo di postura. Quello è il film dove con la testa mi sono spinto più all’estremo ed è stato molto faticoso mentalmente.”
In questo momento storico ti senti più libero come uomo o come artista?
“Come artista, il mio mestiere presuppone che ci siano altre persone che ti dicano cosa fare. Quindi ancora dipendo, ma questo fa parte delle regole del gioco. Poi sono io a trovare la mia libertà, ma sono costretto a cercarla io ostinatamente. Da essere umano, forse perché mi sono staccato dalla mia identità professionale grazie al tempo, alle esperienze e anche alle batoste e ai successi che si sono alternati che mi hanno permesso di calibrare bene il tiro, penso di essere riuscito a trovare una mia distanza tra il me stesso umano e il mio essere attore. Il ché mi rende sicuramente più libero come uomo.”
A che punto del tuo percorso attoriale pensi di essere?
“Ho sentito qualche anno di essere approdato al primo step con lo scoccare del decimo anno da quando faccio questo lavoro. A quel punto ho sentito di avere fatto un giro di boa, ma non per l’avere raggiunto chissà quale traguardo, bensì per avere trovato finalmente una mia dimensione e una maturità professionale. Mentre all’inizio è soltanto un regalo, un’emozione enorme. Adesso è diventato un terreno in cui posso lasciare dei messaggi. Non so quanto questo percorso durerà, ma il mio scopo è di farlo durare il più a lungo possibile.”