Intervista a Ludovica Fales, oltre Lala: dall’identità multipla all’eredità del femminismo
Una chiacchierata arricchente che, col pretesto di parlare di Lala, il documentario di Intervista a Ludovica Fales, esplora i confini dell'identità, del femminismo, dell'istruzione, del cinema e del pensiero filosofico. Da leggere!
Ludovica Fales traghetta la sua anima di città in città e la sua arte dal linguaggio astratto a quello concreto. Lo fa nel tentativo di abbattere ogni tipo di barriera, al punto che nei suoi occhi, se si presta la giusta attenzione, non si vede il riflesso della città in cui l’abbiamo incontrata (la Siracusa in cui si svolge, da quindici anni a questa parte, l’Ortigia Film Festival) bensì i paesaggi umani che l’hanno attraversata, probabilmente modificandole meravigliosamente l’essenza fino a renderla irripetibile.
Tuttavia a sua mission è quella di “mettere lo spettatore nella condizione attiva di domandarsi cosa si sta guardando. Secondo me è una cosa importante,” – spiega – “specie oggi in cui il flusso di immagini è talmente estremo che nessuno si domanda più cosa sta vedendo. Le persone hanno smesso di interfacciarsi all’immagine in maniera dialettica e noi autori dei documentari abbiamo l’obbligo morale, etico, di risvegliare gli spettatori dall’illusione di pensare che tutto quello che vedono è vero (o finto)”.
Originaria di Roma, Ludovica si è affacciata al mondo dell’audiovisivo dopo una laurea in filosofia e quando le domandiamo in che modo è avvenuto questo passaggio ci tiene a specificare che il cinema è sempre stata una sua passione, così come il teatro. “La filosofia è un laboratorio di linguaggi e a un certo punto ho sentito l’esigenza di uscire dal linguaggio astratto per entrare nella società; sentivo che l’elemento artistico doveva incontrare la mia ricerca, così ho deciso che avrei frequentato una scuola di documentari e ho scelto quella più adatta a me, in cui vi era un laboratorio di linguaggi, così sono approdata alla National Film and Television School di Londra, in cui c’era questo capo di dipartimento che veniva dal mondo sperimentale e dove c’era anche questa tradizione di antropologia visiva, quindi con un accento sull’elemento partecipativo. Qui ho potuto sperimentare tutti i miei linguaggi e darmi la possibilità di sperimentare un ibrido tra documentario, finzione, elemento metafilmico; ho usato l’archivio, l’animazione, mi occupo anche di nuove tecnologie, quindi ecco mi sono data la possibilità di sperimentare e quindi pensare in modo diverso”.
Nel documentario Lala, presentato al 41° Bellaria Film Festival (dove si è aggiudicato il premio Mymovies, assegnato dal pubblico) e successivamente all’Ortigia Film Festival 2023, la Fales indaga sulla questione identitaria, addentrandosi tra i meandri del genere, della provenienza geografica, dei luoghi e dei sogni. La sua è pura ricerca, è dialogo, è innovazione, è cinema che tenta non solo di rappresentare ma anche e soprattutto di rispondere ai grandi interrogativi del nostro tempo, che partono dalla biografia della regista per attraccare su un terreno socialmente universale. Ci svela a tal proposito: “Sono di Roma ma ho una vita molto vagabonda e una famiglia mista: mio padre è americano, mia nonna era scappata negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali, perdendo la cittadinanza, quindi diciamo che la vicenda dell’invisibilità ha anche a che vedere con la storia della mia famiglia e io comunque ho viaggiato tantissimo: ho vissuto a Berlino, a Londra, adesso vivo a Parigi. Quindi anche la mia storia è quella di una persona che vuole superare i confini linguistici e geografici”.
L’identità multipla e la cittadinanza. Quando un documentario ha il potere di sbloccare dei traumi
Nella visione del documentario a colpirci è senza dubbio il modo in cui l’autrice ci lascia esplorare la cultura rom. Abbassiamo le difese, come se ci trovassimo al cospetto di un film d’animazione, eppure è tutto vero e tremendamente coinvolgente. Ludovica ci svela che ad averla affascinata è stato l’incontro con una persona, che poi è “Zaga, la ragazza che vediamo all’inizio del film. La incontriamo quando era adolescente, all’età di 17 anni. Per chiunque è quel periodo della vita in cui stai finendo la scuola e stai per decidere cosa vuoi fare, chi vorresti essere, quali sono le tue scelte personali. Lei mi ha affascinata per la sua energia, ha un grandissimo magnetismo personale pur vivendo in condizioni molti difficili. Zaga aveva tantissimi e bellissimi sogni da adolescente e nei mesi successivi al nostro incontro ho visto i suoi sogni sgretolarsi. Lei avrebbe voluto avere un lavoro, una relazione, poi si è accorta di essere incinta e infine si è resa conto che non avrebbe mai potuto avere la cittadinanza; tutti i suoi progetti erano destinati a fallire miseramente.
Mi ha sconvolta il fatto che un’adolescente potesse avere i propri sogni completamente distrutti a soli 17 anni, senza neanche avere la possibilità di iniziare. Lei poi è sparita per iniziare questo lungo viaggio, che vediamo anche nel film, per cercare di reperire tutti i documenti, ma percepivo che c’era qualcosa di più da esplorare, non solo la questione della cittadinanza ma anche quella dell’identità multipla. Sono tante le persone che vengono da più luoghi, hanno più origini, e i ragazzi delle comunità rom sono un esempio molto radicale perché vengono da tante parti diversi e fanno parte di una diaspora che ha un’identità molto composita, quindi il loro caso è molto interessante per capire la questione dell’identità multipla, che riguarda tantissimo il mondo contemporaneo, me compresa.
Ragionando su tale questione siamo riusciti a sbloccare dei traumi, perché in fondo tante persone non dichiarano chi sono veramente e non hanno il coraggio di affrontare la molteplicità delle loro provenienze per paura della discriminazione. Questo è stato il cuore del nostro lavoro, il fatto di capire che il trauma intergenerazionale, ovvero il fatto che generazioni anche prima della tua siano state discriminate, ti porta a nasconderti, ma chiunque si nasconda non può essere se stesso, non può essere felice.
Per essere pienamente realizzato come essere umano devi poterti raccontare come sei, nella tua interezza, nelle ricchezza delle infinite e molteplici identità“.
Ludovica Fales e l’arte di fare documentari: cosa è cambiato?
Vista la propensione e gli studi fatti da Ludovica Fales sulle nuove tecniche dell’audiovisivo la nostra conversazione non può che virare sui cambiamenti che stano coinvolgendo il modo di fare documentario. Lala stesso è, a detta della sua stessa autrice, “un prodotto ibrido, debitore anche delle mie esplorazioni legate alle nuove tecnologie. Oggi c’è l’opportunità di affrontare il documentario attraverso una serie di mezzi che consentono anche a una collettività di autori di partecipare, per cui ci sono forme come il web doc, il i-doc, forme di cinema del reale fatte con la realtà aumentata, dove c’è la possibilità non solo di coinvolgere più autori ma anche di coinvolgere gli spettatori nel processo di creazione.
Il fatto che mi occupi di questo mi ha dato libertà di linguaggio, consentendomi di trattare la storia in modo non lineare. Inoltre la tradizione del documentario non lineare esiste già dal cinema d’avanguardia, ma le nuove tecnologie gli consentono maggiore sperimentazione; lo spettatore può davvero avere parte attiva nella storia”.
Ma qual è il futuro del documentario? La regista parla di “Rinascimento del documentario”, ma in Europa e poi aggiunge: “forse anche in Italia le cose stanno cambiando, pur essendo ancora visto come un settore di nicchia. Secondo me oggi il documentario è il terreno della sperimentazione, quello in cui si osa fare cose che altrove non sono concesse. Il pubblico va esposto di più a questo tipo di linguaggio. Io vedo che i festival che se ne occupano stanno aumentando e si sta assottigliando il divario tra documentario e cinema di finzione, si sta andando verso una visione più olistica di cosa è un film. In Italia a mio parere il documentario sta rinascendo adesso“.
Nella nostra disquisizione notiamo che c’è un termine che fa sempre capolino per poi tornare sotto coperta e allora scegliamo di portarlo a galla e esaminarlo. Partiamo dalla parola femminismo, ma senza trincerarci nei suoi confini, poiché in un mondo in cui il genere tende a essere fluido e le differenze a coinvolgere molteplici identità sembra riduttivo parlare di una mera differenza tra maschilismo e femminismo. Partendo da tale considerazione la Fales si focalizza sulla rappresentazione dei corpi e per farlo prende come punto di riferimento il suo stesso lavoro: “I ragazzi di questo film rappresentano tanti modi di stare al mondo, anche attraverso i loro corpi. Il fatto di scardinare l’eteronormatività dell’immaginario cinematografico passa da tantissime cose, che non sono solo questioni di genere, ma anche riflessioni sull’eurocentrismo del cinema, che mette al centro un certo tipo di corpi e rappresentazione del mondo.
Tutte le minoranze hanno delle questioni in comune che vanno condivise. Molti dei ragazzi del film, a partire da Lala in poi, si stanno occupando di questioni del genere. Una delle attrici, Ivana Nikolić, è un’attivista che dialoga con altri gruppi in merito a diritti civili, diritti umani. Quindi bisogna avere una visione molto più ampia sul presente, altrimenti ci si parcellizza su un’area e questo è quasi controproducente“.
Visto che hai studiato filosofia, quale autore ha influenzato maggiormente la tua poetica cinematografica?
“Sicuramente Michel Foucault per me è stato molto importante, tutto lo studio sulla società di controllo e su come le istituzioni contengano dei dispositivi di potere che disciplinano la società è stata una riflessione molto importante, che ha anche influenzato questo film. Del resto ci sono autrici come Judith Butler che è un’autrice femminista che ragiona sulla società secondo una posizione molto legata al femminismo contemporaneo, influenzata anche dai suoi studi sullo spazio della città. Mi hanno influenzato anche tanti autori che si occupano di cittadinanza, che vengono anche dai cultural studies, quindi tutte quelle idee che cercano di scardinare il pensiero coloniale, che identificano le rimanenze del pensiero coloniale attraverso le quali, anche inconsapevolmente, costruiamo le categorie.
Se mi chiedi autori storici invece, ho fatto una tesi su Kant ed è stata la mia nemesi: l’ho amato e mi ci sono scornata, così come con Hegel. Adoro Cartesio, Spinoza… ci sono tanti autori moderni interessanti, sta tutto nel saperli leggere e rapportarli al nostro tempo“
“La grande eredità del femminismo è la capacità dialogica di raccontare il personale come politico“
Visto che abbiamo accennato al femminismo, ti va di svelare qualche autrice che dovremmo conoscere per essere delle buone femministe?
“C’è un’autrice italiana, nonché mia cara amica, che secondo me sta facendo un lavoro interessante. Si chiama Adele Tulli, che lavora proprio sulle norme sociali e su come l’eteronormatività sia davvero disseminata nei nostri comportamenti in maniera inconsapevole. Insieme abbiamo lavorato molto sulla storia del cinema femminista, quindi autrici come Carolee Schneemann e Barbara Hammer, lì c’è un’eredità estremamente ricca di filmmaker che in realtà, oltre a parlare del corpo e della sessualità in maniera libera e dello stare al mondo in maniera autonoma, parlano di cinema scardinando un po’ i modelli produttivi hollywoodiani della loro epoca, proponendo invece l’idea di partire molto più dal quotidiano, come faceva anche Jonas Mekas. Quindi riguardare oggi il cinema femminista degli anni ’70 significa ascoltare una storia fatta di cose molto più legate alla prossimità, a ciò che sta vicino a noi, che ha molto a che fare con l’intimità. E poi la grande eredità del femminismo secondo me è la capacità dialogica di raccontare il personale come politico; io ho cercato di applicarla anche nel mio film: il fatto che loro raccontino le loro storie non è solo legato al fatto che ogni storia è interessante, ma perché fare del personale politico è un gesto militante; è importante capire che la tua storia rappresenta quella di molti altri“.
Ludovica tu sei docente di teoria e pratica documentaria, film sperimentale e interattivo a UCL dal 2015. Cosa manca a tuo parere nel sistema scolastico italiano odierno? Ci sono delle materie che aggiungeresti come obbligatorie?
“Dovremmo pensare alla media literacy nel senso della conoscenza dei media e dei meccanismi produttivi dei media. Se un bambino è in grado di usare un cellulare, ed è una verità e una ricchezza enorme, ma poi non sa quali sono i pericoli e le contraffazioni legate all’immagine si crea un grande squilibrio. Dovrebbe esserci innanzitutto un’educazione all’immagine, sin dalla scuola elementare, legata non solo al cinema ma anche all’immagine pubblicitaria, ad esempio. E poi la filosofia, penso che sia un modo di stare al mondo; ti apre una serie di cassetti e quindi penso che la filosofia dovrebbe essere obbligatoria ovunque, perché ti rende libero e ti insegna a pensare”.