Mario Martone: intervista al regista di Capri-Revolution, “i miei film sono vivi”
Un regista napoletano che guarda verso il mondo. Abbiamo parlato con Mario Martone in una lunga intervista dal suo nuovo film alle sue opinioni sulle serie tv.
Presentato in anteprima mondiale un mese fa, in occasione della Mostra del Cinema di Venezia, esce nelle sale il 20 dicembre Capri-Revolution, l’ultima fatica cinematografica di Mario Martone. Dopo il viaggio letterario nella biografia di Giacomo Leopardi, l’autore partenopeo si mantiene ancora lontano dai giorni nostri spostandosi sull’Isola di Capri, dove una pastorella ai primi del novecento incontra una comunità di anarchici. Per l’occasione abbiamo parlato con il regista del suo cinema passando attraverso la concezione della musica nel film, l’attenzione estetica alla pittura e il nuovo set con Toni Servillo. Non si è risparmiato neanche sulla serialità online, mettendoci di fronti ad alcuni suoi gusti da spettatore, oltre che da regista.
Leggi la nostra recensione di Capri-Revolution da Venezie 75
Mario Martone: il regista di Capri-Revolution si racconta tra passato, presente e futuro. Una serie tv?
Recentemente ha affermato che la rivoluzione è una condizione dell’anima. Quanto è stato rivoluzionario il primo cinema di Mario Martone e com’è cambiato nella maturità?
“Io ho fatto sette lungometraggi. E tutto sommato vedo ancora abbastanza vicini Morte di un matematico napoletano e Capri-Revolution. Sono tutti quanti all’interno di un flusso. Diciamo che nell’arcipelago del mio lavoro tra cinema, teatro e opera sono le isole più importanti. Dell’Amore molesto abbiamo appena fatto un restauro dove tra l’altro sono intervenuto anche fotograficamente. Con Luca Bigazzi abbiamo messo delle parti in bianco e nero che volevamo fare allora. È stato comprato in America sul successo di Elena Ferrante. Perciò sono film ancora vivi, mi sembra. È ovvio che ci sia stata un’evoluzione, ma l’atteggiamento è lo stesso.”
Proprio in Capri-Revolution ci sono importanti riferimenti al pittore Karl Diefenbach. Quant’è importante l’arte per impostare un’idea di cinema sia estetica che narrativa?
“Può esserlo, ma anche non esserlo. Nel Matematico si parlava di un matematico napoletano realmente esistito ma non c’erano riferimenti pittorici. Dall’altro lato la fotografia, la pittura e l’iconografia del tempo sono state importanti per ricostruire l’ottocento italiano. È parte della bellezza del processo. Credo che gli spettatori sappiano già che esiste una parte prima che il film si faccia. Lì stai già facendo cinema mettendo insieme materiali diversi, immagini, stimoli. Anche rapporti con altri film: tante volte ci sono addirittura dei film fratelli. Prima del primo ciak si è già formata una costellazione di tutte queste cose che di per sé è già cinema. All’interno di questo ovviamente c’è anche lo sguardo all’arte.”
Diversi suoi film ruotano intorno all’universo Napoli e dintorni campani. Anche le musiche trasmettono spesso questo orientamento. Come ha vissuto il viaggio sonoro della sua carriera?
“La musica è sempre stata importantissima nei miei lavori, e non solo nella parte napoletana. A volte si sente Napoli, ma le colonne sonore degli ultimi due film sono di Apparat, che è un musicista elettronico berlinese. Napoli è sicuramente il baricentro del mio lavoro, però non amo l’autoreferenzialità napoletana. Ho fatto dei film a Napoli, e la città resta per me importante, ma lo sguardo è sempre proteso verso l’esterno. Ad esempio i protagonisti di Noi credevamo sono cilentani ma vanno fuori, a Parigi, Londra. Quindi lo sguardo si apre dal locale al globale, come in un flusso.”
Invece ultimamente i circuiti di produzione e distribuzione stanno cambiando vorticosamente con l’innesto delle nuove piattaforme web. Come vede lei la voracità di mercato dei vari Netflix e Amazon?
“Non vedo mai niente di negativo nelle evoluzioni tecniche. La storia del cinema è anche una continua messa in crisi. Fu così quando si passò dal muto al sonoro, o dal bianco e nero al colore. Ci sono sempre stati drammi e convinzioni che tutto finisse, ma la verità è che il cinema cambia come tutto il resto. E cambiano gli strumenti. Un pittore di oggi usa l’acrilico, ma duecento anni fa non avrebbe potuto perché non esisteva. Al tempo stesso tutto cambia pur restando quello che è. Un film che abbia una certa forza cinematografica, come Roma di Cuaron ad esempio, se è bello come poteva esserlo un film di Rossellini, non bisognerebbe averne alcuna forma di contrasto perché ormai risulta naturale e inevitabile.”
Quindi girerebbe un film o una serie tv anche per i colossi online?
“Certamente. Le serie sono un campo di esplorazione cinematografica degli ultimi anni molto interessante. Non dimentichiamo però quanto sono stati importanti Heimat e Twin Peaks. O di come il cinema seriale si declina su Berlin Alexanderplatz di Fassbinder. L’idea di un cinema seriale c’è da sempre ma oggi ha preso una piega industriale e commerciale che crea molte più possibilità. Quindi anche lì la differenza la fa la qualità di ciò che viene girato.”
Dopo Capri è già su un nuovo set.
“Il mio attuale progetto è un film su Eduardo Scarpetta, il padre del teatro napoletano. Anche naturale perché padre dei fratelli De Filippo. È stato un personaggio fondamentale della nostra cultura a cavallo tra ottocento e novecento e sarà interpretato da Toni Servillo. Torniamo a lavorare con Toni dopo molti anni, e la cosa mi fa davvero molto piacere.”