Mario Ricci presenta L’attento: “Avevo l’urgenza di raccontare”

Il primo cortometraggio diretto dal giovane regista è stato selezionato per la XXII edizione di Alice nella Città nella sezione Onde Corte - Fuori Concorso Panorama Italia

La costruzione di un esordio che passa da collaborazioni illustri, la voglia di buttarsi nella mischia, l’urgenza di raccontare una storia; in occasione della presentazione del cortometraggio L’attento, abbiamo intervistato il regista Mario Ricci e gli abbiamo chiesto del suo passato, del suo presente e del suo futuro, partendo dalla passione per il cinema e arrivando ad approfondire la questione delle produzioni brevi ed il ruolo di WeShort, piattaforma e casa di produzione e distribuzione che ha promosso il progetto del regista classe 1991 e lo ha portato ad essere selezionato per la XXII edizione di Alice nella Città, nella sezione Onde Corte – Fuori Concorso Panorama Italia.
Regista e sceneggiatore campano formatosi all’Università degli Studi di Napoli Federico II, dopo aver lavorato in diversi set cinematografici, al fianco di grandi autori tra cui, soprattutto, Paolo Sorrentino e, di recente, Roland Emmerich, Mario Ricci ha capito che era arrivato il momento di provare a realizzare un suo progetto, una sua storia, una sua regia e ha così realizzato L’attento, la cui storia vive tra campagna e città e affronta temi importanti come la dignità umana e la lotta per l’autodeterminazione. Metin Celik e Giordano Agrusta sono i due protagonisti del film che è stato prodotto da Kavac Film, in associazione con Mediterraneo Cinematografica.
L’attento viene presentato il 17 ottobre 2024, alle 22.30 presso l’Auditorium della Conciliazione di Roma.

Una passione in formato DVD

Mario Ricci cinematographe.it

Com’è nata e come si è sviluppata la tua passione per il cinema?
“La passione è nata quand’ero molto piccolo, più o meno con il lancio del DVD; ricordo che al termine di un colloquio con gli insegnanti, nel periodo tra la quinta elementare e la prima media, dopo aver atteso ansioso il ritorno di mamma e papà insieme ai miei fratelli (ho una gemella, un fratello più piccolo e una sorella più grande), li ho visti rientrare con un lettore DVD, comprato perché eravamo andati tutti bene. In quel momento ci fu la svolta e ricordo che i primi film acquistati furono L’esorcista, Shining e Arancia Meccanica – non so perché mi facessero vedere certi film già a quell’età. Durante la settimana non uscivo e mi tenevo i soldi del sabato per andare in videoteca.
A questo si aggiunge la longeva amicizia che legava mio padre – venuto a mancare 10 anni fa per un tumore – ed il fratello di Paolo Sorrentino, Marco. Mio padre parlò con il regista dicendogli che io ambivo a seguire le sue orme e, seppure non ricordi molto del funerale, non dimenticherò mai quando mi scontrai con il sontuoso petto di Paolo ed egli mi disse «Quando vuoi io ci sono». A quel punto dovevo comunque ottenere almeno la triennale in Lingue e letterature a Napoli, perché mi ero già iscritto ed era ormai una sfida personale. Una volta conseguita, sono andato da Sorrentino e lui era in preparazione di qualcosa, ma non ne sapevo nulla; sono arrivato, ho visto la foto di Jude Law vicino al nome Lenny Belardo e, dopo una bellissima chiacchierata con Paolo, lui mi ha chiesto di fargli da assistente dicendomi «Tu segui me e impara». Da un giorno all’altro sono stato catapultato su un set insieme a dei maestri come lo stesso Law, Silvio Orlando e Diane Keaton.
Dopodiché ho seguito progetti più piccoli e credo che quello mi sia servito ancora di più, perché ho visto come portare a casa il girato anche con pochi soldi, pochi mezzi e poco tempo”.

Rimanendo sulle collaborazioni con grandi registi come Sorrentino o Roland Emmerich, assistito di recente per Those About to Die, cosa puoi dirci a riguardo? Quanto riescono a trasmettermi autori di questo calibro?
“Quello che mi hanno trasmesso è, innanzitutto, la loro metodologia: tutto quanto è basato sulla loro impronta e il metodo è efficace perché segue una logica piramidale, nulla si muove senza il loro lasciapassare, anche i più piccoli dettagli. Emmerich, per esempio, dopo sei mesi di riprese a Cinecittà – quindi lontano da casa – si è subito dedicato al montaggio per altri sei mesi, lavorando costantemente per oltre dieci ore al giorno; è una vera e propria macchina da guerra e questo sprona, di conseguenza, l’intera troupe a dare il massimo. In quell’occasione, peraltro, ho avuto la fortuna di lavorare al fianco Franco Casellato, uno dei più grandi esperti italiani di post-produzione, con cui ho poi collaborato anche per il mio cortometraggio”.

Cosa significa passare dall’essere assistente di regia a lavorare a qualcosa di tuo, in cui sei tu il primo regista?
“Non ho patito tanto questo passaggio; quando si tratta di qualcosa di tuo, sai benissimo cosa vuoi e come lo vuoi e io ho anche avuto la fortuna di lavorare con persone con cui avevo già lavorato, con fratelli e amici. Con un minimo di preparazione, tutto si è risolto molto velocemente. Poi ovviamente ci sono anche gli intoppi del set ma, in quel caso, bisogna essere bravi a trovare la soluzione e bisogna essere rapidi. È tutta una questione di tempo e, quando capisci di non averne, bisogna scendere a compromessi, come è accaduto a noi per la scena iniziale, in cui Amir tenta di prendere il maiale, che io avevo immaginato molto più stretta ma poi ho dovuto allargare. Infine, c’è la fase di montaggio, in cui si riparte nuovamente e in cui noi, per esempio, abbiamo dato al mandante della storia molta più presenza rispetto a quella prevista originariamente in sceneggiatura. Grande merito va, infatti, anche alla montatrice Federica Forcesi”.

Mario Ricci: L’attento e WeShort tra presente e futuro

L'attento cinematographe.it

Com’è nato L’attento? Qual era l’urgenza da comunicare?
“Fondamentalmente l’urgenza era quella di raccontare una storia e di farla raccontare a me questa volta; era arrivato il momento di buttarsi nella mischia. Avevo una voglia incredibile di andare sul set, di avere a che fare con gli addetti ai lavori e con gli attori e ho deciso di farlo con il cortometraggio, che trovo essere una bellissima forma di racconto ma molto complicata; con il corto, in soli 15/20 minuti, devi riuscire a portare almeno un’emozione allo spettatore che sta guardando e, se noi dovessimo riuscirci, a quel punto potremmo dire di aver vinto.
L’idea mi è venuta nel periodo del Covid, dopo i vari attentati come quello al Bataclan e quello di Berlino. Ora io sto a Roma ma, fino a 10 anni fa, facevo il pendolare tra qua e Napoli e una domenica sera ricordo che mi venne a prendere a Termini Nicola Zapparoli, aiuto regista de L’attento, quando ci fu l’episodio di quel signore che aveva regalato un Kalashnikov giocattolo al nipote e che si presentò in stazione armato di quello, generando così il panico generale. Da questo, quindi, ha origine tutto, poi c’è la parte di campagna che rappresenta invece la mia infanzia: la mia famiglia era del Vomero ma mio nonno comprò una palazzina per la famiglia in provincia di Napoli e ricordo che noi giovani, di notte, ci intrufolavamo nelle case dei malavitosi per giocare con i diversi animali presenti nelle loro proprietà”.

Come ti sei trovato con il cast e con la produzione?
“Magnificamente, sia con il caporale, Giordano Agrusta, che con il protagonista, Metin Celik. Trovo che Giordano sia un attore sontuoso; l’ho conosciuto mentre facevo da assistente alla regia di Sei pezzi facili, lo spettacolo teatrale di Mattia Torre, anche quello diretto per la TV da Paolo Sorrentino, in cui lui interpreta questo rozzo personaggio, dalla parlata incomprensibile, con il quale mi conquistò subito. Dopo il primo ciack gli ho chiesto se avrebbe voluto partecipare al mio corto, lui mi ha chiesto di mandargli la sceneggiatura e il giorno dopo, una volta letta, mi ha chiamato dicendomi che lo aveva entusiasmato e che era pronto ad entrare nel progetto. Metin Celik, invece, non è un attore professionista, l’ho trovato mentre aiutavo Alessandra Troisi, una leggenda del casting, a cercare comparse per l’ultimo Fast & Furious; tra le varie figurazioni ho visto lui che aveva una faccia molto interessante, ci ho parlato, l’ho poi seguito per quasi tutta la giornata e, dopo la mia proposta, ha letto la sceneggiatura e ne è rimasto anche lui entusiasta.
Per quanto riguarda la produzione, è stato fondamentale il lavoro di Kavac, con Simone Gattoni, Elena Bellocchio e Gaudy Rossi, e quello di Mediterraneo Cinematografica che, soprattutto nella post-produzione, mi ha aiutato moltissimo”.

Qual è stato invece il ruolo di WeShort? Quanto pensi sia importante il lavoro di una realtà come quella?
“Della realtà WeShort, come piattaforma, me ne aveva parlato per primo proprio Francesco Gattarulo di Mediterraneo Cinematografica, da quel momento ho iniziato a seguirli e a scoprire tutte le loro collaborazioni ed iniziative. Lo stesso Francesco ha parlato ad Alex Loprieno di me e del mio progetto e lui ha voluto conoscermi tramite call. Dopo averlo conosciuto posso dire di aver finalmente trovato un ragazzo con la voglia di spaccare le regole del gioco: i cortometraggi nascono e muoio sempre in circuiti ristretti ma WeShort sta cercando di andare oltre e meno male, perché ci sono sempre più corti di grande valore e grazie alla piattaforma ho visto delle piccole produzioni clamorose”.

Tornando a L’attento, è stato fatto un ottimo lavoro con il suono e con la colonna sonora; cosa vuoi raccontarci a tal proposito?
“Del suono se ne è occupato uno dei maestri del suono in post-produzione, Lilio Rosato. Quando gli ho mandato il corto lui, entusiasta, mi ha detto che aveva mille idee e che me le avrebbe mandate di volta in volta. Dopo tre giorni, aveva già praticamente concluso e mi aveva già mandato un sacco di proposte. Con lui sono bastate pochissime parole, aveva già capito tutto. Per quanto riguarda le musiche, se n’è occupato un altro amico fraterno, Andrea Radice – che forse ricorderete ad X Factor qualche anno fa – assieme a Nicolas Varriale. Con il montaggio finito ci siamo messi noi tre a lavorare per qualche notte, loro hanno dato tantissime proposte e io sono assai soddisfatto del risultato finale”.

Quando tempo ci è voluto per realizzare il corto?
“Da quando ho ultimato lo script e l’ho presentato alla produzione c’è voluto meno di un anno. Alla Kavac andava bene così com’era, poi ci sono voluti 3 giorni di riprese, 5 giorni di montaggio, 2 per le musiche, un giorno e mezzo per il mix audio e mezza giornata per la color correction, di cui si è occupato principalmente il direttore della fotografia Stefano Mancini. La cosa più complessa e frustrante è che, con tutte queste parti in causa, bisogna sempre trovare il momento giusto in cui incastrarsi con i vari laboratori, che lavorano a film e serie TV enormi, le quali richiedono molto più tempo dei corti”.

Cosa dobbiamo aspettarci dal tuo futuro? Hai già altri progetti per le mani?
“Sai benissimo che c’è molta scaramanzia. Quello che posso dirti è che sto scrivendo e che sto scrivendo più cose. Spero potremo riparlarne presto e di poterti dare una risposta più esaustiva ma, per il momento, ti dico solamente che sono in consegna”.