Intervista a Marta Basso e Tito Puglielli: Che ore sono “nasce dalle nostre ferite”

Marta Basso e Tito Puglielli, vincitori del Premio Cinematographe.it 2024 per Che ore sono, parlano di cinema e salute mentale, in un'intervista che insegna e fa riflettere.

Abbiamo premiato Che ore sono senza conoscere davvero i suoi autori, Marta Basso e Tito Puglielli, ma della loro sensibilità ne abbiamo carpito lo spessore durante la visione di un documentario che ha catturato l’attenzione di critica e pubblico, affrontando la tematica del disagio mentale con dolcezza ed ironia, caratteristiche che hanno contribuito a fargli meritare il 2° Premio Cinematographe.it in occasione del Sole Luna Doc Film Festival 2024.
Tutta quella insostenibile leggerezza che ci travolge affettuosamente attraverso le immagini del loro film, la ritroviamo nello sguardo pulito di Marta e Tito, nella loro affabilità gentile e nella voglia di condividere una storia che va oltre la velleità di fare cinema per tramutarsi in azione sociale, nella volontà di condividere un’sperienza che è innanzitutto personale, nata da un incrocio di sguardi e d’intenti quasi fortuito e inatteso.

Chi sono Marta Basso e Tito Puglielli, i registi di Che ore sono?

che ore sono intervista cinematographe.it

Marta Basso e Tito Puglielli, infatti, si sono conosciuti nel 2020 a Palermo (“la Sicilia” – ci raccontano – “è stato l’approdo dei nostri percorsi e adesso, da cinque anni, è la nostra casa“), dove entrambi si sono trasferiti per studiare cinema documentario al Centro Sperimentale di Cinematografia. L’idea di parlare del disagio mentale nel loro film di diploma, ovvero l’opera che avrebbe suggellato la fine del loro percorso triennale di studi presso il CSC, sbuca fuori durante un incontro col regista Leonardo Di Costanzo; “entrambi abbiamo parlato, sia pur in maniera generica, di salute mentale. Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti: muoviamo insieme i primi passi, poi si vedrà. Alla fine quel cammino è durato più di due anni, e per molti versi dura ancora”.

Ma come si fa, così giovani, a focalizzare con così tanta cura e attenzione l’obiettivo della macchina da presa su quei volti così martoriati e carichi di vita? Sorge spontaneo chiedere ai due autori la genesi di Che ore sono e nell’istante che precede la loro risposta le loro anime si spogliano per consegnarci uno spaccato del loro vissuto.
Questo film nasce dalle nostre ferite, dalle nostre esperienze personali con i disturbi mentali e la psichiatria.” – ci raccontano – “Ci siamo interrogati molto su come poter attraversare questo mondo con un film. Nel questionare le possibilità di racconto, siamo partiti da noi per volgere lo sguardo verso fuori, verso l’altro, in una modalità il più orizzontale possibile. Da qui la necessità, emotiva e politica, di mettere in discussione lo stigma che ancora oggi avvolge il disagio psichico nella nostra società. Abbiamo provato a raccontare persone, non pazienti; storie, non diagnosi.

Marta Basso e Tito Puglielli ci spiegano di aver iniziato il loro viaggio facendo delle “ricerche a Palermo in spazi comunitari che potessero divenire luoghi di incontro e scambio: abbiamo così conosciuto la comunità psichiatrica raccontata in Che ore sono” che, prima di essere al centro del loro film, è entrata nella loro vita: “sono nate delle relazioni di amicizia con i protagonisti.” – dicono – “Frequentare per più di un anno questo luogo ci ha permesso di prestare ascolto e adattarci quanto più possibile al respiro emotivo dei nostri testimoni. Abbiamo avuto la possibilità di entrare nelle vite di alcune persone dimenticate, messe in disparte, seguendo la loro apertura nel raccontarsi e accogliendo la responsabilità di portare nel mondo le loro storie“.

“Che ore sono?”: una domanda che è sintesi del tempo perso

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A proposito dell’ingresso dei due registi nella comunità psichiatria, è singolare la scelta del titolo: nell’espressione “Che ore sono” si cela infatti anche l’ossessione per un gesto ricorrente, nonché l’idea di un tempo da riempire, da far passare. Intuizione che si rivela veritiera e in linea con le sensazioni che i due giovani hanno provato dal primo momento in cui hanno messo piede in comunità: ci siamo immersi in un tempo inesorabilmente fermo, in cui le vite scivolano lentamente. Un tempo privo di progettualità, in cui gli unici appuntamenti fissi sono quelli della terapia farmacologica e dei pasti: entrambe forme di somministrazione passiva e di delega del controllo su di sé e sul proprio corpo. In questa sospensione, diventa fondamentale “inventarsi” il tempo: costruire degli appuntamenti minimi con la cura di sé e dello spazio circostante, con le sigarette e i caffè, con l’arrivo del postino da fuori. Giuseppe – che indossava dai due ai quattro orologi, alcuni dei quali fermi – era ossessionato dal tempo che non passa mai; e non era l’unico a chiedersi ossessivamente “Che ore sono?” all’interno della comunità. Questa domanda ci sembrava una sintesi, insieme ironica e significativa, del rapporto col tempo che si perde una volta entrati nell’istituzione”.

Inevitabilmente, nel nostro dialogo con Marta Basso e Tito Puglielli non può non emergere la necessità di un confronto con altre opere. Come asseriscono loro stessi, “Il cinema, in tutte le sue forme, ha frequentato il mondo della salute mentale. Lungo il nostro cammino abbiamo cercato di intercettare il maggior numero possibile di lavori, per capire dove volevamo stare, dove no. I capolavori di Wiseman, Depardon, Zavoli hanno avuto l’indiscutibile valore di portare per la prima volta gli occhi e la coscienza di un pubblico all’interno dei manicomi. Al tempo stesso, però, i loro sguardi rimangono ancorati all’istituzione: la camera è una sonda, testimonianza fondamentale che mantiene però una certa distanza dalle persone e difficilmente scalfisce i pregiudizi che le imprigionano. In tal senso, siamo molto affezionati al lavoro di Paolo Pisanelli e Giovanni Cioni, e alla loro capacità di situarsi nel solco di una relazione diretta con le persone che filmano: pensiamo ad esempio a un film come ‘Il teatro e il professore’ o ‘Per Ulisse’”.

La sensibilità del pubblico e il ruolo della follia nella società: la missione di Marta Basso e Tito Puglielli

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Dunque il cinema di Puglielli e Basso si fa educatore della società, cercando di arrivare laddove le istituzioni non arrivano. Per i due autori “È centrale che l’opinione pubblica possa elaborare un approccio non superficiale e non stigmatizzante sul tema, ma questo passa inevitabilmente per un cambio di paradigma nella narrazione e nella postura che la società civile e politica ha nei confronti della salute mentale, e della dicotomia tra ‘sano’ e ‘malato’.
Per noi si tratta non solo di sensibilizzare, ma di permettere al pubblico di avvicinarsi, senza giudizio, ad un mondo sempre tenuto a distanza, perché l’istituzione, per come è ancora strutturata, isola ed emargina.  Se non se ne fa esperienza direttamente nella propria vita, o nella vita di una persona vicina, è difficile poter superare una posizione patologizzante ed alienante nei confronti di chi soffre un disagio psichico. Per questo più se ne parla, più si raccontano storie come queste, più è possibile alimentare un’altra visione ed esperienza sul tema, che in realtà riguarda tutte e tutti.
Poter andare oltre i cancelli e le porte del mondo psichiatrico permette non solo di decostruire una sovrastruttura che ci regola e ci obbliga a stare in determinati ruoli sociali, ma permette anche di collettivizzare dolori, sofferenze e malesseri che non vanno vissuti come pene personali e denominazioni cliniche”.

Ma perché si tende ancora a stigmatizzare alcune problematiche legate alla salute mentale?
“C’è ancora un grande problema culturale. Il lungo processo di criminalizzazione e patologizzazione della follia, che a partire dal medioevo viene sottratta dal vivere sociale, entro i cui margini aveva pure un ruolo, un posto, un perché, non ha mai avuto una reale inversione di rotta. È stata progressivamente relegata all’ambito della scienza, della patologia, della repressione. Oggi viviamo in una società della prestazione, dominata dall’individualismo, in cui se non si è produttivi si diventa automaticamente falliti, marginalizzati. La rivoluzione basagliana non si è innestata nella società in cui viviamo forse perché era troppo visionaria, e sicuramente perché obbligava a mettere in discussione paradigmi culturali molto più ampi della materia di cui si occupava in senso stretto”.

Che fine hanno fatto i protagonisti di Che ore sono?

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Marta Basso e Tito Puglielli sul set di Che ore sono

Focalizzandoci nuovamente sul film e in particolare sui protagonisti di Che ore sono, abbiamo chiesto a Marta e Tito di aggiornarci circa la loro vita. “Giuseppe e Bianca sono morti prima che finissimo di montare il film. La loro perdita ci ha segnati come persone, ma anche come registi. Ursula, al momento, si trova in un’altra comunità, una struttura meno ospedalizzata e che rappresenta per lei un importante passo avanti nel suo percorso terapeutico. Il suo desiderio, però, rimane quello di poter andare a vivere in una casa insieme al suo compagno Giovanni, che al momento è ospite nella comunità in cui abbiamo realizzato il documentario. Quello dell’amore nelle comunità è un tema enorme, che meriterebbe di essere affrontato in un film a parte. 
La maggior parte delle altre persone ospiti della comunità invece sono ancora lì, nessuno è tornato a casa, solo qualcuno è stato spostato in un’altra struttura analoga“.

Durante i ringraziamenti al Sole Luna Doc avete citato la legge Basaglia. Sicuramente vi siete informati molto sul rapporto tra legge italiana e salute mentale, cosa ne avete dedotto?
L’Italia è un Paese dalle numerose leggi disattese, incompiute, e la legge 180 del 1978, la legge Basaglia, è una di queste. Le istituzioni totali esistono ancora oggi, ne sono un esempio le carceri e i CPR, e sebbene alcune di loro abbiano cambiato nome, come i manicomi, esistono ancora luoghi che ne reiterano i meccanismi, come certe strutture psichiatriche. Confrontandoci direttamente con questi luoghi in questi anni ci ha confermato come, a distanza di quasi cinquant’anni dall’entrata in vigore della legge 180, la rivoluzione basagliana sia ben distante dall’essersi realizzata, e di come la questione di classe sia ancora centrale nel discorso sull’accesso alla salute mentale da parte dei cittadini. Come diceva lo stesso Basaglia, citando un proverbio calabrese, ‘chi non ha, non è'”. 

Da quanto si evince dal Rapporto Salute Mentale 2021 del Ministero della Salute italiano, la durata media dei percorsi riabilitativi in strutture residenziali supera il periodo massimo previsto, con tempi di permanenza che aumentano con l’avanzare dell’età (in Sicilia i pazienti psichiatrici più anziani rimangono in assistenza, mediamente, per più di vent’anni). La comunità in cui abbiamo girato è una delle tante comunità terapeutiche pubbliche presenti in Italia. Strutture residenziali di passaggio che dovrebbero offrire un percorso riabilitativo ai cittadini in vista di un reinserimento nella società, ma in cui l’unica terapia prevista è quella farmacologica. Non di rado chi intraprende questi percorsi non smette mai di essere paziente ed entra in un limbo di assistenzialismo, quando non viene abbandonato dall’istituzione stessa. Questo perché mancano i fondi per sostenere percorsi riabilitativi più strutturati, seguiti da equipe formate che possano offrire non solo la terapia chimica ma anche altre possibilità, una scelta statale mossa da una determinata visione politica che di fatto considera la salute mentale un privilegio“.

Parlando di salute, qual è lo stato di salute del cinema italiano secondo voi?

Parlando del nostro ambito, in Italia purtroppo non c’è ancora una cultura del documentario. Film come il nostro necessitano di tempo per essere pensati, coltivati, costruiti. Gran parte di questo processo è fatto di relazioni, incontri, silenzi, identità che vacillano prima di trovare la giusta distanza per raccontare: tutte cose che, per essere crudi, nessuna produzione prevede nei piani finanziari. Pensiamo ad esempio alla Francia, in cui esistono diversi programmi per finanziare i periodi di sopralluogo, o le indennità previste per i lavoratori e le lavoratrici intermittenti come quelli dello spettacolo. Tutte misure che consentono di tutelare la creatività e le idee. Quelle, qui in Italia, di certo non mancano. La sfida, politica e culturale, sarebbe quella di proteggerle e valorizzarle“.