Michel Ocelot parla di Dilili a Parigi: il femminismo nella magia di un film animato
Il regista francese Michel Ocelot ci parla del suo ultimo lavoro animato Dilili a Parigi, tra il dolore per Notre-Dame e i diritti delle donne.
Kirikù e la strega Karabà, Principi e principesse, Azur e Asmar… Sono solo alcuni dei titoli che hanno segnato la carriera del regista e animatore Michel Ocelot, che torna al cinema in questi giorni di tristezza per l’incendio della cattedrale di Notre-Dame, con un racconto che tocca i luoghi simbolo e i personaggi che hanno popolato la capitale francese della Belle Époque. Dilili a Parigi è la fiaba che vuole essere denuncia dell’inciviltà dei diritti umani attraverso le avventure della piccola protagonista mulatta, che con musica e incontri speciali, tenterà di fermare la banda dei Maschi Maestri che rapiscono e sottomettono le donne. Un film d’animazione che parla direttamente alla contemporaneità, alle menti di tutti, passando per i bambini, ma volendo arrivare a chiunque, in tutto il mondo, come afferma Ocelot.
Michel, come nasce la narrazione di Dilili a Parigi?
“Quando lavoro ad un film ci metto circa sei anni per completarlo e si deve trattare di un argomento che mi prenda particolarmente se voglio metterlo dentro ad un mio film. Fin dall’inizio della mia vita sono sempre stato sensibile riguardo lo squilibrio insensato che la società instaura tra uomo e donna e, a poco a poco, ho capito che la questione era anche peggiore rispetto a quello che immaginavo. In tutti i paesi del mondo ci sono uomini che calpestano bambine, ragazze e donne. Ci sono più morti per il fatto di essere donne che quando c’è una guerra. E a volte sarebbe meglio essere morti piuttosto che vivere così. Questo è, appunto, l’argomento di Dilili a Parigi.”
Effettivamente l’argomento trattato nel film ha una rilevanza profondissima, che forse parla più agli adulti che ai bambini, è così?
“L’animazione è un mezzo espressivo alla stregua della letteratura, ci si può far quello che si vuole. Io non ho mai fatto film per bambini, non sono abbastanza intelligente per fare opere rivolte ad un pubblico in particolare. Sono un regista e faccio film. E fin dal mio primo lavoro mi hanno bollato come autore di film per bambini. Non avevo mai pensato di rivolgermi al piccolo pubblico, i miei racconti sono sempre stati una sorta di concentrato filosofico con cui interagire con gli adulti. Nel mio primo film, poi, parlavo di intolleranza e violenza. Ma mi hanno marchiato con il fuoco e per molto tempo mi infastidiva essere immaginato come regista per bambini. Invece, adesso, mi sta bene, perché posso usare questo a mio vantaggio, come un cavallo di Troia: gli adulti pensano di star facendo vedere un semplice film d’animazione ai bambini, quindi non ne diffidano, e così posso parlare con loro di qualsiasi cosa e farli anche piangere.”
Solitamente i tuoi film d’animazione spaziano molto nei luoghi e nelle tradizioni, come mai questa volta è stata scelta una città a te così famigliare?
“Nei film cerco sempre di cambiare i costumi e le civiltà perché mi piace esplorare il nuovo. Alcuni, però, mi hanno chiesto perché non mi sono mai soffermato su Parigi e questa volta ho trovato fosse una buona idea sceglierla come città della mia storia, visto che, in fondo, abito anche lì. Per quanto riguarda l’epoca in cui l’ho inserita, ho scelto la Belle Époque perché tutti erano estremamente ben vestiti, molto eleganti. Immaginare Sarah Bernhardt in pantaloncini corti non sarebbe stata la stessa cosa. Era la stagione di cui avevo bisogno, è stato un momento di estrema invenzione e libertà, tutte le persone del mondo in quel periodo erano a Parigi per creare. Tutti i rappresentanti dello scibile umano erano lì. Era interessante l’idea di mostrare una società che aveva avuto successo e non sentiva quindi il bisogno di calpestare gli altri. In più, durante la Belle Époque, le donne hanno cominciato ad affermarsi. Risale a quel tempo la prima studentessa e la prima professoressa universitaria, la prima donna medico, la prima avvocatessa, la prima conducente di taxi. Durante quell’epoca c’è stata Marie Curie, uno dei maggiori geni mondiali. E così via.”
Certo, vedere Notre-Dame bruciare deve essere stato dolorosissimo per te…
“Faccio fatica anche solo a parlarne, mi viene un groppo in gola. Le prime informazioni erano spaventose. Su un giornale ho letto: Notre-Dame non c’è più. Stamattina, invece, scopro che c’è ancora e che la maggior parte della cattedrale è salva. Quello che è successo mi ha suscitato un’emozione grandissima e si potevano sentire gli stessi sentimenti proviene da tutto il mondo. Notre-Dame è un simbolo della civiltà a cui tutti tengono.”
Di certo il film potrebbe insegnare molto ai giovani che un domani saranno adulti, cosa speri possa trasmettere loro in quanto a valori?
“Spero che Dilili a Parigi possa essere mostrato in molti paesi per poter fare del bene. Così i ragazzini potranno scegliere chi essere e le bambine non dimenticare la frase “Mai più a quattro zampe”. Perché quando le vittime non accettano di essere tali, la vita dei carnefici diventa molto più difficile.”
I suoi personaggi disegnati si integrano benissimo al paesaggio, ben più realistico rispetto alle persone. Come avviene questa tecnica?
“Non ho inventato nulla di nuovo, si tratta di fotografie che ho fatto personalmente e su cui ho poi inserito i personaggi animati.”
Michel Ocelot: “Il mio film? Sì, rappresenta uno squilibro pesante, ma la realtà è molto peggio di quello che immaginiamo.”
E quando hai capito che quella dell’animazione era la forma d’espressione che più si addiceva alla tua natura di regista?
“Quando avevo un anno e mezzo, credo. Presi in mano una matita e comincia a scarabocchiare e da lì non ho più smesso. Ho iniziato a giocare con i disegni, a ritagliarli, incollarli, ho decorato la casa e facevo dei regali bellissimi. È qualcosa che è avvenuto da sé. Ma se fossi nato nell’era dell’informatica non so se avrei scelto l’animazione, perché è qualcosa che ho assorbito attraverso la carta, i colori, cose che posso toccare per creare poi una magia da portare sullo schermo. Per questo i film tridimensionali americani non mi fanno sognare. L’imitazione pedissequa della realtà non mi convince, quando si inventano delle storie siamo di fronte a qualcosa di artificiale e non serve nascondere questa natura. Il cervello dello spettatore ha bisogno di ragionare e con un’immagine masticata e rimasticata come un hamburger si annoierebbe subito.”
Quando hai detto che la tua scelta dell’epoca era legata anche ai vestiti che venivano indossati, è perché volevi rendere magica la visione della donna?
“Non ho nessuna visione magica delle donne né degli uomini, ma so che ci sono mezzi per far sognare il pubblico e quindi li utilizzo. Ma le donne che ho amato e che amo non hanno nulla a che vedere con la magia, sono realtà e così vorrei passassero nei miei film. Per questo utilizzo come scenografia delle foto, la realtà può essere bella e voglio mostrarlo.”
La musica è molto presente in Dalili a Parigi, diventa un elemento che invade le scene. Ti lasci mai ispirare dalle colonne sonore?
“No, è la musica che si fa ispirare da me. Non solo, però, la melodia, nei miei film presto sempre molta attenzione anche al suono, così che anche le orecchie possano godere quanto la vista. Amo le voci e non imbroglio mai, se un personaggio è donna verrà doppiato da una donna, se è uomo da un uomo, se è bambino da un bambino e se è anziano da un anziano. Mi piacciono anche le lingue e nel mio prossimo film ce ne saranno circa dieci diverse. Trovo il lavoro del rumorista entusiasmante, perché di per sé l’animazione è silenziosa e si va via via aggiungendo il suono, che a volte può essere reale, a volte inventato. E la musica si addice molto all’animazione, perché deve essere aiutata. Dilili a Parigi è molto musicale e sono stato fortunato ad aver avuto come collaboratore della colonna sonora Gabriel Yared. Sono stato io a richiedere determinati strumenti per le melodie del film e ho anche inventato da me quella canzonetta che ritorna molto spesso nella pellicola.”
La protagonista Dalili incontra una schiera di personalità incredibili durante il film, pittori, scienziati, inventori realmente esistiti. Tra loro, tu, in chi ti saresti voluto imbattere?
“In tutti quanti! Mi piace molto Toulouse-Lautrec, sia come persona che come artista, è stato un uomo davvero eccellente. E le tre grandi signore della mia storia: Marie Curie, Sarah Bernhardt e Louise Michel. È meraviglioso pensare e sapere che queste tre meravigliose donne si conoscevano. Ho trovato una lettera di Louise a Sarah che diceva “Cara, scusa se non sono potuta passare da te per salutarti, ma sono partita per Londra”. Insomma, un’attestazione che provava che ci fosse un rapporto quasi di amicizia tra loro. E ho scoperto che la Bernhardt apriva le porte ad una rivoluzionaria di quel tempo, che faceva tanta paura al governo. Non so quante superstar oserebbero farlo oggi. Ma qui ci troviamo davanti a tre donne poste alla medesima altezza, che si capivano benissimo tra loro. Tra l’altro la Bernhardt ha recitato anche per raccogliere fondi a favore delle ricerche di Marie Curie e la scienziata andava a ringraziarla nel suo camerino. Una realtà piuttosto straordinaria.”
Visto che, come hai detto, ci vogliono circa sei anni per ogni tuo lavoro, sei già impegnato su un prossimo progetto?
“Assolutamente. Sarà molto diverso da Dilili, più leggero, nessun argomento così serio, o quasi. Sarà un film molto carino.”