Na Hong-jin: intervista al regista, tra indiscrezioni su Hope e l’amore per Sergio Leone
L’intervista al regista sudcoreano Na Hong-jin, al quale la 23esima edizione del Florence Korea Film Fest ha dedicato una rassegna completa delle sue celebri opere.
Il regista Na Hong-jin, capofila del genere del “noir coreano” attraverso il suo stile visivo audace e originale, è stato uno dei super ospiti della 23esima edizione del Florence Korea Film Fest. Al pluridecorato e celebre cineasta e sceneggiatore di Seul la manifestazione fiorentina ha reso un sentito e doveroso omaggio con una rassegna contenenti i tre folgoranti e potentissimi fin qui realizzati, tutti a loro modo profondamente radicati nella cultura coreana e vincitori di numerosi riconoscimenti a livello internazionale. Tra i titoli proposti nella retrospettiva troviamo il suo esordio The Chaser del 2008, l’opera seconda The Yellow Sea del 2010, un’avvincente escalation di violenza in cui un tassista si imbarca in una missione pericolosa per assassinare un professore e dulcis in fundo The Wailing, un thriller dai risvolti horror ambientato in un tranquillo villaggio rurale, presentato a Cannes 2016 e premiato con il riconoscimento per la miglior regia ai Grand Bell Awards.
In questa intervista esclusiva abbiamo avuto modo di approfondire il suo processo creativo e il suo impatto sul cinema contemporaneo, ma soprattutto abbiamo colto quest’occasione unica offerta dalla kermesse toscana per carpire qualche indiscrezione sulla sua quarta e attesissima pellicola dal titolo Hope, un thriller che si annuncia tesissimo con un cast stellare composto tra gli altri da Hwang Jung-min, Zo In-sung, Hoyeon, Alicia Vikander e Michael Fassbender. Attualmente in fase di post-produzione il film è tra i papabili delle prossime edizioni di Cannes o Venezia.
La nostra intervista al regista Na Hong-jin, ospite della 23esima edizione del Florence Korea Film Fest

C’è stato un motivo preciso che l’ha spinta a dire: voglio fare il regista?
“Sono sempre stato un amante dei film, sin da bambino. Appena si presentava l’occasione andavo al cinema a vedere sul grande schermo cosa c’era in programmazione nella sala più vicina a casa mia. All’epoca assistendo a quelle immagini ritenevo che fossero il risultato di un processo creativo troppo complesso ed elaborato per me, motivo per cui l’idea che un giorno potessi essere io a generarle era impensabile. Poi sono trascorsi gli anni e dopo avere abbandonato gli studi d’arte, per i quali avevo capito di non essere portato, ormai ventisettenne ho voluto cimentarmi con il cinema e da quel momento è diventato un mestiere vero e proprio che mi ha portato a realizzare quello che poco tempo prima era solo un traguardo irraggiungibile, ossia fare il regista”.
Dagli esordi ad oggi come è cambiato e se è cambiato il suo approccio al mestiere di regista?
“Se ripenso a mie lavori da The Chaser fino a Hope mi accorgo di essere arrivato a un punto in cui riesco a godermi a pieno la lavorazione e la produzione di un’opera. Con l’esperienza acquisita nel tempo, che è diventata più ricca, anche adesso che sto preparando un nuovo progetto sento che sto affrontando la fase di scrittura con maggiore creatività, consapevolezza e coraggio rispetto al passato. Continuano ad esserci sempre delle criticità da superare, ma il mio approccio è sicuramente cambiato al punto tale da affrontarle con più agio e facilità. Nel caso di Hope, il mio ultimo film che è anche il primo in lingua inglese lontano dall’Asia, il livello di difficoltà era piuttosto alto, ma il processo di scrittura e di messa in quadro è stato aiutato e supportato dalla professionalità e dalla convinzione nei mezzi che nel frattempo ho acquisito. Elementi, questi, sui quali ho potuto contare a differenza delle opere precedenti, a cominciare proprio da quella d’esordio. Mi chiedo spesso in cosa consista il mestiere del regista cinematografico e ho sempre avuto dei dubbi su quando avrei acquisito le tecniche avanzate per svolgerlo in maniera adeguata agli standard richiesti, tanto da essere considerato un autore e un cineasta stimabili. Forse ora ci siamo, ma c’è ancora molta strada da fare per migliorare ulteriormente”.
Na Hong-jin: “Parto sempre dal capire quale tipo di storia voglio raccontare e in base a questo scelgo quale genere più le si addice”

A proposito di esordi, si aspettava un tale successo internazionale di pubblico e critica per The Chaser, nonostante si trattasse di un film indipendente a basso costo, privo di attori di richiamo nel cast?
“Sinceramente non mi aspettavo un tale successo. Il fatto che il budget non fosse così elevato era qualcosa che sapevo sin dall’inizio, ecco perché ho dovuto fare di necessità virtù e concentrarmi unicamente sul portare a termine le riprese e a buon fine il progetto con quello che avevo a disposizione, compreso il grande talento e la forza di volontà dei due strepitosi attori protagonisti, Kim Yoon-seok e Ha Jung-woo. Ricordo però che all’inizio, all’epoca dell’uscita nelle sale, il pubblico aveva risposto un po’ freddamente, ma nei giorni successivi le cose sono cambiare anche grazie al passaparola e alle critiche positive uscite sui giornali”.
Come sceglie di approcciare una storia e sulla base di cosa punta su un genere piuttosto che un altro tanto da risultare sempre diverso?
“Parto sempre dal capire quale tipo di storia voglio raccontare e in base a questo scelgo quale genere più le si addice. E infatti non credo di avere avuto a che fare con due produzioni che appartengano allo stesso genere o filone. Ho provato a misurami con generi diversi proprio per non ripetermi e per non proporre al pubblico progetti uguali o simili tra di loro. Semplicemente cerco di fare del mio meglio per poter racchiudere un messaggio e la storia che volevo raccontare in qualcosa che possa risultare, anche sul piano tecnico e visivo, diverso e mai ripetitivo”.
“Tra i miei riferimenti ci sono Michael Mann e Sergio Leone“

E nel caso di un altro suo grandissimo successo come The Wailing come è avvenuta la scelta?
“Come anticipato in precedenza, generalmente la produzione parte cercando di pensare a che tipo di storia si vuole raccontare attraverso il film di turno. Nel caso di The Wailing ho utilizzato lo stesso modus operandi. Dopodiché ho provato a inquadrare un genere specifico che potesse essere adatto alla vicenda che intendevo narrare e per farlo sono andato ad approfondire quelli che sono i temi, gli stilemi e le caratteristiche fondanti di una serie di filoni pre-esistenti per capire dove collocarla. Ricordo però che ero molto confuso e che ho fatto tanta fatica a trovare qualcosa che potesse racchiudere e raccogliere tutti gli elementi chiamati in causa. Ma alla fine ho trovato una combinazione giusta di generi che spaziano dal thriller psicologico al folk-horror, che mi ha consentito di mettere insieme tutti i pezzi. E i riscontri che ha avuto il film me lo dimostrano. Il segreto del successo di quest’opera credo che stia semplicemente nell’avere avuto il coraggio di parlare di cose complesse e di una tipologia di storia che a nessuno piace raccontare”.
Ci sono riferimenti che alimentano e ispirano lei e il suo cinema?
“Di riferimenti che mi aiutano nel processo creativo ce ne sono davvero tanti, anche se prima di iniziare un set cerco di vedere il meno possibile per non lasciarmi influenzare troppo nelle scelte tecniche. Ciononostante poco prima di cominciare le riprese ci sono un paio di film che guardo insieme al mio staff per sintonizzarci. Uno di questi Insider di Michael Mann. Ormai è diventata quasi un’abitudine guardare questo e altri suoi film prima di girare, perché mi aiuta a riordinare le idee, a calmarmi e a capire se a mia volta sono riuscito a prepararmi bene a ciò che da lì a poco andrà a realizzare. Poi se devo fare il nome di un regista dei tanti che mi hanno influenzato non posso non fare quello di Sergio Leone”.
Na Hong-jin: “La violenza che viene ritratta nei miei film è funzionale al racconto e raggiunge la massima potenza rimanendo sempre in un contesto realistico“

Nei suoi film la violenza è un elemento onnipresente, ma esiste secondo lei un limite che non bisogna oltrepassare per non renderla ludica e fine a se stessa?
“Credo che la violenza che viene ritratta nei miei film sia funzionale al racconto e raggiunga la massima potenza rimanendo però sempre in un contesto realistico. Di volta in volta mi chiedo fino a che punto due o più persone possono spingersi nel momento in cui entrano in conflitto e si innesca uno scontro fisico e verbale tra loro. Il limite a mio avviso può cambiare a seconda della situazione in cui ci si trova e viene imposto in maniera naturale dalla situazione stessa, indipendentemente dai chi le vive e dalle circostanze che l’hanno fatta scaturire. Io cerco di descrivere e dipingere la violenza in un modo molto semplice e realistico”.
Qual è la sfida che lei e il suo cinema vi siete dati per preservare il fattore umano anche in funzione di ulteriori sviluppi tecnologici e dell’incremento nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale?
“Come sfida per il futuro mi spronerò nello scrivere dei contenuti che siano ancora più creativi e originali”.