RomaFF14 – Nessun nome nei titoli di coda: intervista a Simone Amendola
Presentato il 23 ottobre alla Festa del Cinema di Roma, il documentario diretto da Simone Amendola ci racconta la vita e il lavoro di Antonio Spoletini, sfruttando l’occasione per riflettere anche sull’importanza di tutti coloro che, dal dietro le quinte, contribuiscono alla buona riuscita di un film. Ecco la nostra intervista al regista Simone Amendola.
“Tantissimi, che magari fanno tutt’altro nella vita, almeno una volta avranno incrociato gli Spoletini senza rendersene conto”. Così ha esordito il regista Simone Amendola quando gli abbiamo chiesto di raccontarci cosa l’abbia spinto a realizzare Nessun nome nei titoli di coda, film documentario dedicato ad Antonio Spoletini e presentato alla 14ma Festa del Cinema di Roma. E ha continuato: “‘Conosci qualcuno per fare la comparsa?’ – ‘Domani ho un casting comparse, so solo che è a Cinecittà…’. Io stesso la prima volta che ho incrociato gli Spoletini ero un ragazzetto anni luce lontano dal cinema, andai a fare le foto per La leggenda del pianista sull’oceano. Ma solo ora, durante il documentario, ho scoperto che fossero proprio loro”.
RomaFF14 – Nessun nome nei titoli di coda: recensione
Amendola ci introduce a un film che non si limita a raccontare semplicemente i compiti giornalieri di un uomo, ma si insinua nella sua sfera privata, tra momenti di serenità nella sua abitazione immersa nel verde e telefonate tra colleghi, fino alla spasmodica ricerca di un prezioso pezzo di storia del cinema, il lungometraggio Roma di Fellini, che ha per il nostro protagonista un inestimabile valore affettivo oltre che artistico. Una scelta narrativa ben specifica e che era l’intento del regista sin dall’inizio: “Cerco sempre di provare a raccontare le persone oltre il ruolo sociale, il lavoro. Mi pare sempre un’occasione sprecata non tentarlo. Forse non sono nemmeno in grado di fare diversamente, ho bisogno di coinvolgermi, di avvicinarmi. Devo specchiarmi nella materia, sentire io risuonare qualcosa, per sperare che possa accadere qualcosa di ‘universale’ anche per gli altri. Diciamo che nel film i due aspetti – privato e pubblico – si nutrono a vicenda. Il pubblico rende unico il personaggio e il privato rende universale la persona”.
Per entrare nell’ambito privato di una persona, per guadagnare la sua fiducia e stima, sono però necessarie lunghe preparazioni cosicché, passo dopo passo, si riescano a cogliere quei gesti, parole e sensazioni che si vogliono poi mostrare sullo schermo. Per poter sviscerare la figura nella sua totalità non ci si deve far sopraffare dalla fretta, ma si deve agire per lunghi periodi di tempo, in questo caso con un accostamento che si è esteso nel corso di un anno. Simone ci spiega come “Per conoscerlo più profondamente e per fargli avere fiducia in me, nel mio sguardo, nella mia idea di racconto, è stato necessario un avvicinamento lento. Parliamo comunque di una persona di 82 anni con una personalità molto definitiva, e se vogliamo anche con dei sani pregiudizi, lavorando da una vita in un mondo di ‘menzogne’. Il passaggio dal pubblico al privato, che cadenza anche la narrazione, è avvenuto in oltre un anno. Prima in solitudine, poi con una piccola troupe, poi di nuovo in solitudine. Un tempo che ha permesso aperture impensabili all’inizio, e che appunto ha fatto emergere un filo narrativo – la sua ricerca della pellicola – che speravo portasse proprio il racconto su un piano emotivo e non solo descrittivo”.
Simone Amendola su Nessun nome nei titoli di coda: “È importante raccontare il sottobosco, le zone d’ombra”
Antonio Spoletini è un nome noto all’interno dell’ambiente cinematografico, ma non è altrettanto celebre presso la maggior parte del pubblico. Cosa l’ha spinta a dirigere questo documentario?
Nello specifico del film, credo che mi abbia spinto un interesse più generale nelle storie meno ufficiali. La narrazione credo tragga sempre buona linfa dal racconto dei sottoboschi, dalle zone d’ombra più che da quelle già pienamente illuminate. Tutti i personaggi dei miei lavori, cinematografici o teatrali, è possibile ascriverli a questa categoria.
Tante persone si soffermano solamente alla superficie di un film, focalizzandosi sui grandi nomi hollywoodiani che leggono sopra un poster o interessandosi solo della reputazione di un regista. Crede che questo documentario possa far capire al pubblico che esiste un intero mondo “nascosto” di addetti ai lavori, anche loro fondamentali per la buona riuscita di un film?
Mi piacerebbe se fosse così! Scoprire che un regista in una vita fa dieci film, un attore cinquanta e una ‘maestranza’ anche duecento… Scoprire che la controfigura di un’attrice può essere più bella dell’attrice. Scoprire che di un film se ne sentono tutti protagonisti, dal produttore agli autori, dalla prima all’ultima comparsa.
Simone Amendola su Nessun nome nei titoli di coda: “Assistere al dietro le quinte di un film è un regalo”
In Nessun nome nei titoli di coda vediamo cosa si cela dietro la magia del cinema: set, green screen, figuranti, etc. Pensa che la visione del dietro le quinte possa in qualche modo indebolire la magia del cinema o riesca invece a rinforzarla, magari fornendo agli spettatori una visione più completa del lavoro che è stato svolto?
Io in primis adoro i backstage, li considero un regalo. Alcuni dei più bei documentari che ho visto sono in fondo lunghi e accurati backstage, come Heart of Darkness girato dalla moglie di Coppola nei due anni di lavorazione di Apocalypse Now, oppure Lost in La Mancha sulle disavventure donchisciottesche del set di Terry Gilliam. È bellissimo scoprire che un film è intenso perché gli uomini che l’hanno fatto si sono giocati quasi la loro ‘sanità mentale’. Vedere Coppola che telefona a Marlon Brando e gli dice ‘se non finisco questo film mi ammazzo’ vale più di qualsiasi pamphlet sull’arte e sugli artisti.
Nel corso del documentario si è parlato spesso di Federico Fellini e del suo film Roma, con il quale Antonio Spoletini ha un preciso legame affettivo. Qual è il suo film preferito di Fellini?
A me il primo Fellini piace tutto. Prima che felliniano diventasse un aggettivo per intenderci. Se devo sceglierne uno però dico La dolce vita. Un film ancora oggi moderno. Come L’avventura di Antonioni (se non sbaglio furono girati contemporaneamente), La dolce vita mette insieme l’Italia che era e quella che sarebbe stata. Supera la realtà e parla di dimensioni più profonde. Esemplare è la scena dell’apparizione a Civitavecchia, in cui la compagna del protagonista Marcello (Mastroianni), in mezzo a disabili e malati gravi, chiede alla Madonna solo il miracolo di essere amata da lui.