Ride: intervista al regista Jacopo Rondinelli e all’attore Lorenzo Richelmy
In uscita in sala il 6 settembre, il regista Jacopo Rondinelli e l'attore Lorenzo Richelmy ci parlano di Ride, tra libertà creativa e per-attori
È alla sua opera prima Jacopo Rondinelli che, visto il suo film Ride, sembra avere lo stesso coraggio dei protagonisti del nuovo action movie estremo che lo vede alla regia. In una corsa a perdifiato, tra musica elettronica e livelli da superare, la pellicola prodotta da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro – e da loro scritta insieme a Marco Sani – ha rappresentato una vera sfida per il regista, che ha dovuto affrontare la difficoltà di girare con un elevato numero di GoPro e poi assemblare insieme la gara intrapresa dai due personaggi principali.
Ad interpretare uno dei due biker professionisti è stato l’attore Lorenzo Richelmy, noto ai più per il suo ruolo nella serie tv Netflix Marco Polo, affiancato dal suo co-protagonista Ludovic Hughes. Un ruolo in cui l’attore italiano si è tuffato con curiosità e voglia di lasciare uno stampo originale nella cinematografia nostrana. Una bella fortuna visto che rischiava di non avere il ruolo… Di chiamate all’improvviso, reality show e evoluzioni della tecnologia vi parliamo nella nostra intervista all’attore e al regista Rondinelli.
Ride – Intervista al regista Jacopo Rondinelli e all’attore Lorenzo Richelmy
Due giocatori in una gara in cui vengono ripresi costantemente e in cui c’è qualcuno che li sta guardando. Lorenzo, quanto ti sei sentito come Jim Carrey in The Truman Show e tu, Jacopo, quanto ti sei sentito Ed Harris mentre controllavi il tutto?
Lorenzo Richelmy: “A dire la verità era più come essere Jim Carrey che fa Jim Carrey che è nel Truman Show sapendo di fare The Truman Show. Capito? Per questo abbiamo coniato il termine oper-attore, perché noi eravamo guardati da tutti, ma anche da noi stessi. Quindi è stata un’esperienza incredibile sotto questo punto di vista. Un voyeurismo totale, un meta-voyeurismo, un meta-The Truman Show! Quando facevamo una scena, noi sapevamo che c’erano da dire determinate frasi, ma allo stesso tempo avevamo una telecamera sul petto, una dietro la testa, quindi dovevamo stare attenti non più solo alle battute, ma a tutto il resto. Questo perché stavamo riprendendo, riprendevamo tutto il tempo. Sono nella scena, parlo con l’attore, ma allo stesso tempo ho chi fuori campo mi dice quello che devo fare, poi c’è quello che provo a fare anche da me.”
Jacopo Rondinelli: “Che poi, a proposito di The Truman Show, ci fu un episodio in cui Ludovic, che è l’altro attore, andò a fare pipì senza rendersi conto che aveva ancora tutto accesso e quindi ci fu la pisciata in diretta!”
L.R.: “Esatto, una pisciata in diretta! Però in ogni caso, prendendola più seriamente, la libertà che avevamo in quanto attori era una conciliazione tra teatro e cinema. Tu hai uno spazio in cui non c’è nessuna limitazione, e non parlo solo di campo. A volte alcune limitazioni sono anche un “Ehi torna un attimo lì che non era a fuoco”. Qui non avevi alcun tipo di preoccupazione sotto questo punto di vista. In più essendo il tutto in un parco con le biciclette, l’azione non poteva venire pulita in toto, quindi tu sai che a un certo punto devevi improvvisare. Il testo si appiccica a quello che fai. Se io ad un punto cadevo in una maniera differente, ma ripetevo una battuta nella stessa maniera della volta prima era sbagliato e chi è dietro la macchina da presa lo sa. C’era ovviamente una struttura drammaturgia da seguire, poi però la realtà si andava a creare lì sul set. Questo fermento creativo per me è il massimo.”
J.R.: “Poi il problema era di riuscire a dare a tutto questo un sapore di realismo estremo. Nei film classici si tende sempre ad estetizzare molto le situazioni, qui invece doveva sembrare tutto realistico, rubato. Anche gli effetti speciali utilizzati dovevano sembrare cose che loro avevano davvero di fronte, mentre molte volte questi effetti vengono inquadrati in un certo modo, si tende a valorizzarne alcuni punti. Qui invece i protagonisti dovevano interagire con i monoliti e altre cose che abbiamo dovuto fare in 3D, ma che puntavano tutte ad un realismo estremo.”
L.R.: “Realismo estremo che su una roba del genere è solo immaginazione. È questa la follia e il cortocircuito strano su cui hanno lavorato Jacopo e gli altri.”
Jacopo Rondinelli e Lorenzo Richelmy: “Con Ride abbiamo cercato il realismo estremo.”
Su di un set con venti punti macchina tutti da coordinare tra l’altro. Come è stato?
J.R.: Complessissimo. Complessissimo perché magari in queste camere succedevano cose bellissime ovunque ti giravi. Guardavo la camera del casco di Ludovic e stava facendo una figata, ma non era la camera importante in quel momento, nel frattempo però anche nella camera importante stava accadendo una cosa bella. Quindi prendere le misure è stata davvero dura, soprattutto la prima settimana di test e in cui erano solo in due, senza ancora delle azioni complesse dove si andava in bici, si scendeva, ecc. Tutte queste cose credo impreziosiscano il film e, la cosa di cui sono più contento, è che si percepiscono questi multi-punti macchina senza che diventi un qualcosa che satura, ma fa scorrere comunque bene il film.
L.R.: Questo anche perché sono state create diverse modalità con cui creare la gara, con una parte molto più pulita e altre più frenetiche.
Ride non vuole essere soltanto un gioco estremo e questo si capisce dalla scelta di non prendere dei veri e propri bikers, ma dall’affidare il ruolo dei protagonisti a degli attori professionisti. Come è avvenuto quindi il casting e come è stato lavorare con Ludovic Hughes?
J.R.: “Abbiamo fatto dei casting e avremo visto più di duecento persone per ogni ruolo perché gli attori del film dovevano avere varie caratteristiche, ovviamente oltre all’essere bravi. Dovevano essere prestanti fisicamente, ma comunque non troppo muscolosi visto che chi fa sport estremi è più asciutto. Dovevano essere in grado di mettersi molto in gioco dal punto di vista fisico visto che li abbiamo stressati parecchio per cinque settimane in mezzo alle foreste con temperature difficili, pioggia e il resto. Lorenzo è stata davvero la mano divina perché tre giorni prima dell’inizio delle riprese l’attore che era stato preso si è rotto una clavicola. Lo abbiamo chiamato pensando che ci avrebbe fatto una pernacchia mentre era beatamente in vacanza e invece ha detto di sì. Noi eravamo sprofondati nell’oblio quando ci è arrivata notizia della tragedia tre giorni prima di cominciare, contando che l’attore/stunt erano mesi che si era preparava per il ruolo con una dieta e tutto quanto. E Lorenzo è stato assolutamente stoico. È arrivato sul set in ciabatte, vestito da rider e in quattro e quattr’otto ha imparato le coreografie così che tre giorni dopo abbiamo potuto cominciato le riprese.”
L.R.: “Però lo avrei fatto solo se avessi sentito da parte loro la stessa cosa che proveniva da me. Io andavo, così, senza sapere niente, perché comunque ci si sta mesi dietro una sceneggiatura, a vederla e studiarla, e così mi sono buttato perché ho visto che loro si buttavano. Mi hanno chiamato, sono andato lì, ho letto trenta pagine di sceneggiatura e ho detto “Ragazzi, sì, solo perché voglio capire come fate a fare questa cosa.”. Era davvero folle ed è per questo che sono andato. Sono arrivato con Ludovic e, essendoci una grande preoccupazione sul lato tecnico, abbiamo lavorato tanto sulla recitazione vedendo tra noi cosa funzionava e riportandolo a Jacopo e agli altri. Non c’era questo terrore fisso contro gli altri. Il cinema è sempre fatto così, a settori, dove non si può cambiare nulla altrimenti lo sceneggiatore si arrabbia e poi si arrabbia un altro ancora e poi ancora, solo perché si vuole proteggere il proprio piccolo recinto professionale. Qui è stato il contrario, eravamo fortunati perché non c’era nessun vecchio che ci rompeva nel classico modo di fare “Ciccio, sono quarantat’anni che faccio questo lavoro…”. Ripartendo da zero e sapendo che loro erano pronti a ripartire da zero, ho detto “Perfetto, mi butto.”. Ed è andata bene, perché abbiamo creato veramente insieme qualcosa. Poi loro hanno dovuto mettere tutto insieme, ma il cuore pulsante del film è stato quello stacco che si vedeva lì sul set. Che sarebbe venuto figo si sapeva sulla carta, ma bisognava realizzarlo nella pratica. È un tassello di quel filone di film in cui si cerca di allargare l’orizzonte del nostro cinema. Siamo stati fortunati perché ci siamo trovati e questa è una cosa alla Fornero, della nostra generazione. Quando la nostra generazione fa qualcosa senza aiuti esterni funziona. Speriamo che avvenga sempre di più.”