Scott Z. Burns su The Report: “Vi svelo i segreti della CIA”
Le torture, i segreti, le omissioni: Scott Z. Burns e Daniel Jones ci parlano di The Report e l'importanza del film thriller con Adam Driver.
Dopo più di dieci anni, Scott Z. Burns torna alla regia. Sceneggiatore, produttore e collaboratore di Steven Soderbergh, con cui ha lavorato ultimamente per Panama Papers, Burns sceglie per il suo secondo debutto una storia reale, che tanto si rifà al cinema anni Settanta per tematiche, atmosfere e stile. Dal titolo semplice, ma incisivo The Report, il nuovo film di Scott Z. Burns è la messa in cinema di più di mille pagine di segreti, torture e momenti bui nella storia della CIA, un thriller attento e preciso con protagonista Adam Driver nel ruolo dell’investigatore Daniel Jones. Ed è lo stesso Jones a presentare a Roma il film sulla sua storia, insieme al regista e sceneggiatore Burns.
Scott Z. Burns e Daniel Scott su The Report: “Il mondo deve sapere”
The Report è un film molto diretto, che non si perde nei lati personali del protagonista, ma rimane concentrato sul rapporto sulle torture della CIA. Come mai questa scelta di non mostrare la vita al di fuori del lavoro del protagonista?
Scott Z. Burns: “Quando abbiamo iniziato a sviluppare la storia i produttori della HBO mi hanno fatto la stessa domanda. Il fatto è che la vita privata di personaggi simili è già stata esplorata in altri film. Avevo anche scritto alcune scene a riguardo, sono ancora sul mio computer. Ma la cosa davvero importante per il film era che si cogliesse la solitudine di Daniel, l’isolamento che si crea intorno a quella stanzetta in cui lavorava al rapporto. Se lo avessi mostrato anche in altri ambienti quella sensazione avrebbe perso di forza. Ho messo però, a un certo punto, una scena con un albero, un’inquadratura molto lunga sul quale poi stacco per tornare sul viso di Adam Driver. Questo momento sta a significare la mancanza di rapporti nella vita del personaggio e, in quell’albero, si può coglierne tutta la solitudine.”
Daniel Jones: “Il tema del film è il rapporto stesso. La mia situazione personale viene definita soltanto all’inizio e di questo sono grato a Scott perché non ha voluto spingersi oltre. Ciò che c’era di importante era scritto in quelle pagine e sono queste ad aver delineato il film. Se Scott avesse messo magari una scena dove sono da solo davanti a un frigo vuoto avrebbe tolto tempo a momenti ben più fondamentali.”
C’è stato un momento, in questi sette anni di lavoro sul rapporto, in cui hai creduto che le brutalità e i segreti coperti dalla CIA non venissero mai fuori? E pensi che c’è il rischio che prima o poi si possa tornare indietro a quelle pratiche?
D.J.: “Come investigatore quello che ti spinge a lavorare è sperare che prima o poi la verità venga fuori. Per questo non ho mai pensato che non avremmo finito il nostro lavoro. Era troppo importante e più investigavamo più ci rendevamo conto di quanto fosse necessario che il mondo sapesse. Il rapporto era di 6.700 pagine e quello reso pubblico è stato diminuito a più di 500 e quello che si può leggere è che la CIA aveva mentito per coprire il fatto che le torture non funzionassero come metodo investigativo, né tantomeno erano state utili nella cattura di Osama Bin Laden. Per quanto riguarda le ricadute, bisogna dire che se il rapporto non fosse uscito sarebbe stato più facile pensare di applicarle nuovamente. La cosa importate è che il documento sia ora alla luce del sole e spero che il film di Scott aiuti a far conoscere questa storia a più persone possibili”.
Scott Z. Burns: “Con Adam Driver abbiamo lavorato molto sulla staticità che diventa frustrazione nel protagonista“
Il film mantiene un certo stile che rimanda un po’ ai film politici/thriller degli anni Settanta. È così?
S.Z.B.: “Sono certamente in debito con registi come Sidney Lumet e Sydney Pollack. C’è molto del loro cinema in The Report. Quando poi abbiamo cominciato a parlare con Daniel della storia ci siamo resi conto che veniva tutto fuori direttamente dal rapporto, quindi è stato quello lo strumento da cui ho cercato di trarre tutto il necessario. Ovviamente era del materiale lunghissimo e ciò che Daniel ha fatto in sette anni ho dovuto comprimerlo in due ore. Ma la cosa che mi interessava era il poter esprimere questo viaggio quasi kafkiano del protagonista. Lo immaginavo come un falegname che prima abbozza ciò che deve costruire, poi va nella sua officina e dopo sette anni si rende conto di aver scavato la sua stessa fossa. Questa era la caratteristica drammatica che speravo si stabilisse all’interno del film.”
Il film ha un suo inizio piuttosto statico, vista l’importanza del concentrarsi sul rapporto, che si riflette molto sul protagonista di Adam Driver. Nel corso del film, però, l’attore inizia a cambiare la sua posizione, facendo percepire la frustrazione di questo lavoro. Come avete affrontato con Adam Driver questo passaggio?
S.Z.B.: “Abbiamo lavorato tantissimo con Adam su questo. Abbiamo girato il film soltanto in ventisei giorni, quando sappiamo bene che il resto dei film americani richiedono solitamente il doppio del tempo, in più non abbiamo nemmeno seguito sempre l’ordine delle sequenze. Questo ha portato Adam e me a focalizzarci bene sui momenti in cui il personaggio avrebbe cominciato a sentire la frustrazione di questo lavoro, e non potevamo permettere che questo sentimento trasparisse da subito, altrimenti avrebbe depotenziato tutto il racconto. L’altra cosa a cui bisognava fare attenzione era il senso del decoro: Daniel era un funzionario del Senato, non poteva certo andare dal suo capo e sbattere i pugni sul tavolo. Questo ha permesso ad Adam di mostrare la frustrazione del personaggio attraverso il volto, la voce, il corpo. Se notate, infatti, lui non muove mai le sue mani e l’unico momento in cui le alza è quando spiega come avevano mentito sulla questione di Osama Bin Laden e cerca di capire cosa sta succedendo. Solo un genio sa come gestire in quella maniera voce e gesti.”
Daniel: “Per Adam era molto importante riportare i fatti così come sono avvenuti. Non voleva solo dire le frasi, ma capire il contesto in cui venivano pronunciate. Insieme a Scott, hanno fatto un lavoro davvero puntiglioso.”