Valerio Jalongo svela l’arte del documentario. Chi sceglie ciò che vediamo?
Dal 15 novembre al 20 dicembre A tutto Schermo, la manifestazione promossa da La Rete degli Spettatori, porta 8 documentari in giro per l’Italia con proiezioni e incontri con gli autori.
La manifestazione A Tutto Schermo, giunta al decimo anno e promossa da La Rete degli Spettatori porta in giro per l’Italia proiezioni e incontri con gli autori dal 15 novembre al 20 dicembre 2021. Un’iniziativa che celebra il ritorno in sala dopo la pausa forzata della pandemia e che vuole sottolineare l’importanza del cinema documentario e del cinema indipendente come rinnovati strumenti per raccontare la realtà.
Gli 8 documentari selezionati sono proiettati in 12 sale che vanno dall’Emilia Romagna, alla Lombardia, passando il Veneto, il Piemonte, la Liguria, il Lazio e la Toscana.
Valerio Jalongo, Paola Casella, Fabrizio Grosoli, Emanuele Rauco e Lorenzo Dionisi hanno selezionato gli 8 documentari con l’obiettivo di portare il cinema indipendente e del reale anche in luoghi dove arriva difficilmente. I temi trattati sono molteplici: la camorra, la cultura irachena, la lotta delle femministe curde ma anche la vita del Premio Nobel Jaques Dubochet e del cantautore Charles Aznavour. Per la prima volta sono presenti anche 4 documentari stranieri.
Abbiamo incontrato Valerio Jalongo e nella nostra intervista cerchiamo di capire meglio il mondo del documentario
Quali sono le modalità di selezione con cui avete scelto i documentari presenti in programma?
“La Rete di spettatori compie ormai dieci anni: ogni anno un gruppo di critici si offre per selezionare film indipendenti di qualità che non hanno potuto avere una sufficiente esposizione. Negli ultimi due anni, con Fabrizio Grosoli, Paola Casella, Emanuel Rauco, Lorenzo Dionisi abbiamo focalizzato l’attenzione sul documentario perché il rapporto con la verità in un momento come quello della pandemia diventa fondamentale. Anche quest’anno abbiamo offerto una selezione molto interessante aprendo anche al cinema straniero: su 8 documentari infatti, 4 sono stranieri. In questi ultimi dieci anni abbiamo cercato di offrire film che non sarebbero mai arrivati al pubblico delle grandi sale e di far vedere film che magari avevano vinto festival d’autore anche nelle città di provincia dove difficilmente arrivano. Chiaramente la pandemia ci ha bloccato e ora abbiamo ripreso”.
Perché c’è bisogno di verità proprio ora, secondo te?
“La pandemia ha messo sotto gli occhi di tutti l’importanza di un approccio diverso nei confronti della realtà, una visione che abbia un taglio più approfondito e inedito rispetto alla vulgata dei media tradizionali soprattutto quella delle trasmissioni televisive. A questo proposito cito il documentario Io resto di Michele Aiello che è riuscito ad entrare con una piccola squadra di telecamere nelle corsie degli Spedali Civili di Brescia proprio durante il picco pandemico di Covid 19 a marzo 2020. Si tratta di un documento eccezionale che si allontana molto dalla classica ricerca di sensazionalismo del media televisivo. Aiello infatti è entrato nell’ospedale scegliendo di raccontare la storia di alcuni personaggi, seguendoli nel tempo, senza la fretta dei giornalisti delle trasmissioni televisive, dando una visione della realtà meno superficiale.”
Sono presenti ben 4 documentari stranieri, quali sono i temi trattati?
“Anche fra i documentari stranieri abbiamo cercato quelli che rappresentino maggiormente una varietà di sguardi e di temi. Fra questi abbiamo scelto due documentari diretti da donne molto interessanti. The other side of the river di Antonia Kilianil racconta di Hala, una femminista militante curda che sceglie di arruolarsi nell’esercito per proteggere le donne dall’oppressione e dalla tirannia. Ambientato in Irak ci mostra come sia difficile per una donna ribellarsi alle tradizioni patriarcali del suo paese.
Un altro documentario con la regia di una donna è Radiograph of a family di Firouzeh Khosrovani, cineasta iraniana, che attraverso filmini di famiglia, foto e altri reperti ripercorre la sua vita e quella dei mutamenti culturali e socio-politici del suo Paese; molto toccante e molto forte.
In Citizen Nobel di Stéphane Goël si ripercorre la storia di Jaques Dubochet, Premio Nobel per la chimica nel 2017 che dopo il premio, passando dall’anonimato alla celebrità, da una vita quasi monastica nei laboratori al caos della ribalta internazionale, vede la sua esistenza completamente stravolta.
Le Regard de Charlesdi Marc Di Domenico è invece un ritratto intimo del famoso cantautore francese Charles Aznavour attraverso un enorme archivio inedito. Nel 1948 Édith Piaf gli regalò una cinepresa e con quella Aznavour riprende tutta la sua vita fino al 1982, regalandoci un diario incredibile sotto forma di video”.
La pandemia, tenendoci costretti in casa ha determinato un boom dello streaming in generale, abituando la gente, che già andava poco nelle sale, ai servizi offerti da Netflix, Amazon, eccetera. Secondo te lo streaming determinerà la fine del cinema in sala?
“Io sono ottimista e credo che la voglia del pubblico di ritrovarsi e condividere esperienze artistiche e socialità sia eterno. Mi aspetto che i giovani riscoprano il gusto di andare insieme al cinema così come hanno riscoperto il vinile”.
Il documentario, almeno in Italia, ha sempre rappresetato una nicchia per piccoli cinema di affezionati al genere. Come vedi il futuro in questo senso, ora che anche i grandi cinema fanno fatica ad avere pubblico?
“All’estero il documentario è molto amato proprio per la peculiarità di usare un linguaggio realistico con meno limiti. In Italia siamo oggettivamente in ritardo a causa di una depressione culturale vissuta negli ultimi anni per cui in molte zone il documentario viene pensato come qualcosa da vedere solo in tv e non al cinema.”
Forse allora potrebbero essere proprio i servizi streaming a spingere il pubblico a incuriosirsi nei confronti del documentario e magari spingerlo in seguito al cinema; pensiamo all’enorme successo del docufilm Sanpa su Netflix che è stato visto da un target di pubblico non tradizionalmente fruitore di questo genere…
“In parte potrebbe essere così ma il tema non è facile perché questi grandi sistemi come Netflix, assicurano la visibilità dei documentari però lavorano con algoritmi molto potenti che limitano e influenzano pesantemente la loro fruizione. L’algoritmo è un elemento allarmante: tu vieni profilato e ti vengono proposte cose simili a quelle che hai scelto. Vieni incasellato sempre sulle stesse cose: pensiamo ai no vax. I no vax si abbeverano solo a certi fonti che ritengono l’unica verità, si formano realtà settarie in cui non c’è confronto. L’algoritmo è allarmante da un punto di vista sociale e culturale. Noi anche attraverso questo festival crediamo invece nella pluralità e varietà di linguaggi”.