Valia Santella: la sceneggiatrice de Il Traditore racconta i retroscena del film
Il lavoro dietro l'universo de Il Traditore di Marco Bellocchio: il confronto con la Storia, le ricerca delle tematiche fondanti e l'approccio a dei personaggi così importanti. La nostra intervista alla sceneggiatrice Valia Santella.
Fresco trionfatore agli ultimi David di Donatello, Il Traditore del maestro Marco Bellocchio ha coronato i successi di critica e di pubblico dell’anno scorso affermandosi come uno dei titoli italiani più premiati anche nel 2020.
Una delle penne dietro la pellicola è Valia Santella, che per questo lavoro ha vinto sia David che Nastro d’argento, ponendo un altro bellissimo tassello in una carriera che l’ha già vista prendere parte a film importanti come Euforia di Valeria Golino, Mia Madre di Nanni Moretti, Napoli Velata di Ferzan Ozpetek e Fai Bei Sogni dello stesso Bellocchio.
La sua carriera inizia come aiuto regista e segretaria di edizione, un ruolo che ricopre che per diversi anni, “un’esperienza che mi ha fatto amare, negli anni, il lavorare con altre persone, avvalorando molto la mia visione del cinema come “opera collettiva”. Solo nel 2004 debutta come sceneggiatrice e regista con Te lo leggo negli occhi, “spinta da un’urgenza intima molto sentita: un bisogno profondo di dover raccontare quella storia”, ancora oggi un unicum in un percorso composto, da quel momento in poi, da numerose e fruttuose collaborazioni con altri scrittori e registi, “Scrivere per gli altri mi piace molto, quasi lo preferisco. Essere vicino a un regista, affiancarlo, sintonizzarsi con le sue idee, riuscire ad accordarsi e in qualche modo riuscire ad “aiutarlo” a tirar fuori la sua visione, in maniera quasi maieutica, è un aspetto del mio lavoro che continua a stimolarmi e gratificarmi. Lo scrivere per sé è un processo complesso e fino a quando non sentirò nuovamente l’esigenza di raccontare una storia che mi riguarda, difficilmente avrò voglia di fare un altro film.”
Valia Santella parla dell’avvicinamento alla figura di Tommaso Buscetta in Il Traditore
In un’intervista tenutasi poco dopo l’uscita de Il Traditore, Marco Bellocchio spiegò come all’inizio del lavoro ha cercato dei punti di contatto tra lui e la figura di Tommaso Buscetta, in modo da riuscire a restituirne una versione psicologica fedele e credibile, aspetto fondamentale per il suo cinema. Come è stato questo lavoro di avvicinamento ad una figura simile?
“È stato molto complesso perché effettivamente Marco ci chiedeva di trovare un modo per entrare in contatto con una figura molto lontana da noi.
Abbiamo letto molto, abbiamo preso suggestioni e le abbiamo ampliate. Cercavamo degli appigli a cui aggrapparci per farci sentire il personaggio di Buscetta più vicino a livello umano, non per giustificarlo, ma per conoscerlo, capirne le dinamiche umane e raccontarlo meglio.
Abbiamo incontrato anche molte persone che lo hanno conosciuto. Penso a Ciccio La Licata, un firma autorevole de L’Ora, il quotidiano di Palermo dove venivano pubblicate anche le foto di Letizia Battaglia e che si occupava di testimoniare la realtà in Sicilia di quel periodo. Lui aveva conosciuto Buscetta e soprattutto conosceva la Palermo di quegli anni e la lingua palermitana. La collaborazione con lui è stata fondamentale per costruire la lingua che si parla in questo film. Una delle lingue, in realtà, perché in questo senso la pellicola è ricca di idiomi, dal palermitano al brasiliano.
La cosa chiara fin dall’inizio era l’intenzione di raccontare il Buscetta della crisi: un uomo già grande e già in un momento di debolezza, lontano dalla figura di donnaiolo o del giovane in ascesa. Infatti la parte sostanziale del racconto inizia dal Brasile, un momento in cui la battaglia di Buscetta per contrastare l’ascesa dei Corleonesi è già persa da un punto di vista militare. Solo l’incontro con Falcone gli permetterà di tornare in campo e spostare il confronto su un altro piano; un modo nuovo per poter vincere.
Un altro aspetto importante che destava il nostro interesse era il legame di Buscetta con la famiglia, in questo caso intesa con un significato duplice: quella mafiosa e quella (o quelle) che costruì nel corso della sua vita.”
Il concetto di “tradimento” per orientare il racconto
Anche il concetto di “tradimento” sarà stato fondamentale per orientare il racconto della storia e della psicologia dell’uomo Buscetta.
“Le due volte che ho collaborato con Marco si è partiti da un suo soggetto su cui lui aveva già precedentemente lavorato prima di coinvolgere noi sceneggiatori. E in questo caso, quando chiamò Ludovica Rampoldi e me, il titolo c’era già.
Quello del “tradimento” è un concetto intorno al quale gli interessava costruire tutti i vari punti di vista del film: chi tradisce cosa? Chi è tradito? Lo stesso Buscetta rifiuta di farsi chiamare pentito perché lui non ha mai tradito e mai tradirebbe il concetto di mafia così come lui la intende. Accusa invece gli altri di aver tradito lui e il vecchio ideale, prima con Calò e poi nel confronto con Riina.
Incontra tra l’altro l’avversione di Falcone per questa concezione. Quest’ultimo infatti contesta con decisione a Buscetta la presunta benevolenza anche di quella mafia lì, indorata da una mitologia che poi ha poco riscontro con la realtà. Per carità, è vero che negli anni ‘80 le cose con i Corleonesi cambiarono, dal momento che resero Palermo la più grande raffineria di eroina dell’epoca e che sotto il loro dominio “contavano solo i piccioli” come dice Lo Cascio nel film, oltre qualsiasi regola o principio. Ma ciò non toglie che anche la mafia di prima era comunque mafia.”
Nel film sembra ci sia una duplice luce con la quale viene descritto il mafioso: una sfarzosa e potente a cui assistiamo nella scena di apertura della festa di santa Rosalia a casa di Bontate, e una infantile, misera e canzonatoria, quasi ribaltata rispetto alla precedente, durante il maxiprocesso. Volevate esprimere questa contrapposizione di visioni?
“Il paradosso è che se tu vedi le immagini del vero maxiprocesso ti ritrovi esattamente di fronte allo spettacolo che hai visto nel film, se non addirittura peggio in termini di teatralità. I mafiosi recitavano, urlavano, facevano casino in ogni modo nel tentativo di bloccare il processo, rimandarlo o far perdere tempo. Trovando dall’altra parte, complici le difficoltà nello scegliere una figura adatta, un giudice effettivamente inadeguato all’inizio e che ha imparato a conoscere il mondo mafioso solamente durante quei giorni.
Rispetto alla scena della festa ci si è posti il problema di mostrare il Buscetta nel suo territorio di origine, altrimenti non avremmo mai compreso il peso della sua figura all’interno del mondo mafioso.
Occorreva avere un momento che fosse un po’ la summa di quello che Buscetta era stato prima, per poi poter ancora meglio rendere l’idea della sua discesa.”
Valia Santella: “Il maxiprocesso fu una grandissima scommessa.”
C’era l’intenzione di raccontare una storia in cui lo Stato si è sottratto ai suoi doveri o si è mostrato inadeguato in un momento critico della storia del nostro Paese? Ad esempio la scena in cui viene mostrato Andreotti in mutande.
“Lì è la storia con la S maiuscola che lo racconta.
All’epoca ci furono uomini straordinari come Falcone e Borsellino che fecero sentire lo Stato portandolo solo con il loro sforzo, riuscendo a caricarselo sulle spalle con un’energia travolgente e sostituendo in tutto e per tutto le forze politiche. Falcone nello specifico ebbe delle grandissime intuizioni e trovò gli strumenti giusti per sconfiggere la mafia, ma il maxiprocesso fu di per sé una grandissima scommessa.
La sua forza era nelle testimonianze di Buscetta, diverse delle quali non immediatamente provabili. Fu quindi fondamentale l’intelligenza delle persone dietro le indagini.”
Rimanendo su Falcone, come è stato rapportarsi ad una figura non solo straordinariamente importante di per sé, ma anche già raccontata in tutte le salse?
“Anche il quel caso ci si è posti il problema di tutto quello che era già stato fatto, ma non perché pensi di avere delle idee geniali, ma perché è corretto tenere conto della letteratura che già esiste.
In questo film ci siamo attenuti a ciò che ci serviva: osservare la figura di Falcone in funzione del suo rapporto con Buscetta.
Quello che ci incuriosiva in particolare era quello che accadeva nelle pause loro due: il significato dei loro silenzi; quello che voleva dire per loro stare insieme nella stessa stanza ricoprendo quei ruoli. Entrambi erano palermitani (Falcone affermò più volte come questo fosse fondamentale), cresciuti praticamente nello stesso quartiere e figli, in un certo senso, dello stesso territorio. Avevano un linguaggio loro, non verbale, fatto di sguardi e gesti, come quello celebre delle sigarette, e si riconoscevano per quello che erano.”
Falcone è portatore della tematica della morte: “La morte che in qualsiasi forma si manifesti, arriva sempre, arriva comunque”, mantra ripetuto poi anche da Buscetta.
“Come la famiglia e come il rapporto con i figli, anche la morte era uno dei temi portanti della pellicola, anche perché raccontavamo la fine di un’epoca e la porzione di anni di un uomo dal suo momento di crisi maggiore fino alla fine della sua stessa vita.
E la lettura dei discorsi di Falcone a proposito della sua visione della morte ci hanno ispirato molto nella trasposizione nella storia.
Essa è presente nella scena del funerale onirico di Buscetta, tratta da un sogno di cui Buscetta parlò con Biagi (mi sembra), durante il quale raccontò di tutte le donne della sua vita che si accalcavano intorno a lui per baciarlo sulla bocca. È anche legata al destino dei due figli, uno soprattutto: quello tossicodipendente, elemento presente anche alla festa, momento di massimo splendore di Buscetta, per di più dipendente dall’eroina che sta portando tanti soldi alla nuova mafia che don Masino odia.”
Valia Santella su Buscetta: “una figura che più per sua strategia che per suo merito è stato utile in quel momento, ma continuava ad avere delle responsabilità enormi.”
Andando verso il finale, si assiste alla deposizione di Buscetta al processo Andreotti, durante il quale avviene un ribaltamento della visione che lo riguarda.
“Quella scena aveva un duplice significato: il primo era di mettere un punto, la parola fine, far calare il sipario su tutti quegli anni in cui ci furono delle persone straordinarie che da sole si opposero alla mafia. Il secondo era di evidenziare come Buscetta sia stato un personaggio importante, ma che comunque abbia giocato anche per se stesso, omettendo diverse cose che potessero implicarlo oltremodo (“Non ho mai spacciato eroina.” dice a Falcone). Per questo ci sembrava interessante un ribaltamento del punto di vista, in questo caso espresso dall’avvocato di Andreotti, che mettesse alle corde, quasi ridicolizzasse, tra l’altro con delle verità sacrosante, il personaggio di Buscetta.
Tutto questo al servizio della resa più completa della complessità di una figura che più per sua strategia che per suo merito è stato utile in quel momento, ma continuava ad avere delle responsabilità enormi.”
Una curiosità: prima hai accennato al fatto che alcune scene sono frutto di suggestioni, basate su fatti reali e poi ampliate. La scena dei due aerei rientra in questo ordine o è invece pura invenzione?
“No, in realtà anche quella scena è presa da un episodio realmente accaduto. Fu una forma di tortura e di minaccia successa a Buscetta in seguito ad uno dei suoi due arresti in Brasile.
In quel caso noi abbiamo giocato con i tempi, mischiandoli un po’, perché si riferiva ad un altro momento della sua vita, ma era così bello e forte che lo abbiamo voluto usare comunque.”
Una domanda sull’attesissimo Tre Piani di Nanni Moretti, di cui tu hai firmato la sceneggiatura insieme a Moretti stesso e a Federica Pontremoli: sappiamo che non uscirà a Venezia, tu puoi dirci qualcosa di più preciso?
“Nanni ha fatto un film, direi inedito per lui in un certo senso. Io lo trovo bellissimo. Non so molto sulla data di uscita: sarà nella prima parte del 2021, ma non so precisamente quando.”