Lady Bird: l’adolescenza nel film di Greta Gerwing
Lady Bird è l'opera prima di Greta Gerwing che inquadra l'adolescenza parlando direttamente allo spettatore, a ciò che ha vissuto durante gli anni della giovinezza e, ancor di più, cosa ha sentito e provato
È inutile girarci intorno: l’adolescenza fa schifo. Soliti, lunghi discorsi sulla bellezza degli anni della scuola, dei ricordi che tornano nel corso del tempo a commuoverci, su quelle esperienze che, facendoci cadere, hanno posto la base di appoggio da cui ogni volta rialzarsi. Eternamente tenero, inverosimilmente romantico. Se non fosse per il fatto che quel tempo dell’innocenza si presenta la maggior parte delle volte come un turbinio senza fine di inadeguatezza, dove tentiamo di volare controvento, rimanendo ingarbugliati tra i rami di certezze pronte a disintegrarsi come il più doloroso dei sogni.
Una primavera dell’anima e del corpo in cui i fiori sbocciano, presentando però un frutto ancora non del tutto maturo, acerbo nella sua fisionomia e fissato su poche, ma fisse – e nonostante tutto discutibili – convinzioni.
Lady Bird o come prende forma l’adolescenza
L’adolescenza è ciò di cui tratta la pellicola vincitrice del Golden Globe 2018 per il Miglior film commedia o musicale, nonché opera prima dell’attrice e già da tempo sceneggiatrice Greta Gerwing: Lady Bird è la forma che l’irrequietezza prende quando va ad incontrarsi con il periodo della gioventù, la scelta della regista di prendere spunto dalla propria vita per rappresentare quel confusionario passaggio all’universo adulto. Spunto che fa capolino in tante altre realtà che non sono altro che le nostre. Ed è così che Lady Bird, da un film su di un tema chiaro seppur generico, si ritrova ad essere una pellicola che parla proprio della nostra adolescenza.
E non è perché anche noi abbiamo tinto di un rosso andato via troppo presto i nostri capelli, né perché abbiamo frequentato una scuola privata gestita da suore, neppure perché nostro padre ha perso il lavoro in un’età avanzata. Lady Bird riflette un passato che si rivela comune perché questo ci ha posto nella condizione di credere di dover aspirare a un altrove più illuminato, in cui l’intelletto, la cultura e la simpatia che di natura sentivamo appartenerci risaltavano al di sopra della banalità che trovavamo negli altri, se non addirittura nell’adolescenza stessa. Sentirsi già sicuri di poter spiccare il volo, per rendersi poi conto di non essere mai stati abbastanza pronti.
È partendo dall’auto-assegnazione dell’appellativo Lady Bird che la protagonista del film, Christine McPherson, demarca la differenza tra le convenzionalità del quotidiano e le aspirazioni alla quale è convinta di essere diretta o, meglio ancora, destinata. Un nome che non necessariamente svolge la funzione di maschera, ma si pone come l’esplicazione delle ambizioni e degli atteggiamenti che muovono la ragazza. I suoi ideali portati avanti dalla forza di un soprannome referenziale, che conduce nella dimensione adulta e in quello stesso spazio viene infine abbandonato.
Lady Bird è il volo continuo tra l’essere o meno speciali
Ma nel credere al proprio essere speciale si risiedono le insicurezze più condivisibili, vengono meno i principi di cui si era più certi e rimangono scoperti i veri desideri: poter soltanto, semplicemente piacere, poter essere l’amica di quella compagna tanto carina, di poter uscire con quel ragazzo tanto misterioso e affascinante. Poter sentire i propri genitori dalla propria parte, poter tirarsi su grazie ad una parola materna in grado di saperci consolare. Poter essere semplicemente come si è perché non si senta il bisogno di perseguire un qualche modello di intelligenza, bellezza o successo. Sapere di essere veramente speciali, senza sentire la paura di non esserlo.
Lady Bird è dunque una fotografia di ciò che provavamo in quell’era indefinita, in quella stagione della giovinezza in cui volevamo già volare con le nostre ali, chiudendo gli occhi sulla poca agilità che avrebbe rischiato di spezzarle. È un finale concretizzato in un viaggio in macchina, in uno sguardo perso in un istante nel vuoto. È la presa di coscienza che l’adolescenza fa schifo. Che l’abbiamo superata, ma che rimarrà sempre attaccata alla nostra persona. È saper trovare il bello in tutto quell’invivibile, fondamentale incatenarsi di timori, con la possibilità di poter trovare sempre rifugio nel proprio nido.