Editoriale | Spike Lee e il cinema come verbo politico in BlacKkKlansman
Politica e cinema: BlacKkKlansman di Spike Lee racchiude le idee del regista e la situazione critica che stiamo attraversando.
BlacKkKlansman è un film destinato a far parlare di sé. Non è soltanto sua intenzione, è una condizione intrinseca nella propria natura. Un poliziotto di colore, primo detective nel distretto di Colorado Springs negli anni Settanta, che riesce a fare le scarpe al Ku Klux Klan facendosi inserire nel gruppo e raggiungendo anche posizioni di alto rilievo. Non un prodotto nato a tavolino, ma una storia vera diventata libro autobiografico scritto dal protagonista stesso, con tanto di tesserino che conferma la veridicità del fatto. In più, in aggiunta, un regista che da sempre utilizza il suo cinema come predica per dare un segno concreto di cosa vuol dire appartenere ad una determinata cultura, una di quelle minoranze che, ad oggi, hanno ancora bisogno di alzare la voce.
Spike Lee, al lavoro sulla sceneggiatura con i collaboratori David Rabinowitz, Charlie Wachtel e Kevin Willmott, prende le pagine del libro di Ron Stallworth e le traspone sul grande schermo, aggiungendo senza stravolgere il racconto, rafforzandolo con arguzia e nascondendo l’orrore delle parole e dei fatti narrati dietro la patina di una satira che va avanti per (s)mascherare il terrore e la paura. Una cifra di cui il regista dà chiaro indizio fin proprio dal cominciare della pellicola.
L’America di Trump, di Charlotteville e del Saturday Night Live
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È con Alec Baldwin che si apre BlacKkKlansman. Un piccolo prologo in cui l’attore americano espone la pericolosità di affermare l’uguaglianza tra le razze e di come il timore verso le popolazioni di colore sia legittimo e vada difeso fino alla sottomissione dei selvaggi neri. Parole che, sempre veicolate da quella presa in giro che in realtà serve solo a sottolineare ancora di più degli ideali insani e purtroppo condivisi, sembrano quanto mai attuali. Prima espressione cinematografica del film, che si rifà a quelle alte cariche dello Stato che continuano a colare nelle orecchie degli elettori già frustrati sempre più odio e malcontento. E non è affatto un caso che sia proprio Baldwin il bigotto falso-moralista a propagare l’atteggiamento con cui porsi nel mondo, bensì un atto critico ben ragionato, lui che più volte ha imitato il Presidente Donald Trump durante gli sketch del Saturday Night Live, alcuni dei quali diventati molto famosi.
Una scelta che conferma qualcosa di più profondo, una decisa presa di posizione contraria alla politica statunitense che ribadisce, ancora ed ancora, l’opposizione verso un uomo alla presidenza che non ha rispetto per i suoi cittadini e, più in grande, di buona parte della popolazione. E se lo scimmiottamento del Presidente – seppur evidente – viene mitigato durante l’apertura di BlacKkKlansman, non può pretendere il medesimo trattamento sul finale, con i filmati di Charlotteville che trapassano lo spettatore, come quella macchina che sfreccia facendo saltare in aria le persone, come a chi zompa in gola il cuore nel guardare le documentazioni.
Il sottile confine tra realtà e finzione, anni Settanta e attualità
È labilissimo il confine che l’opera di Spike Lee stabilisce tra gli anni Settanta e il 2018, tra la rivendicazione di una parità che viene pretesa, ma che nessuno è in grado di attuare. Che nessuno vuole attuare. È propaganda a suo modo, è anche omelia non più verso chi voleva conquistare il black power, ma per tutti gli altri che hanno fatto finta di niente, che hanno girato lo sguardo da un’altra parte. Gli stessi che ora sono posti davanti ad un bivio in cui decidere se intraprendere una direzione politica violenta o fermare l’idiozia di un gruppo di uomini che potranno non andare più in giro incappucciati, ma sogneranno comunque ancora di bruciare qualche altro povero disgraziato.
Come quell’amico di cui racconta Jerome Turner, interpretato – ancora una volta non per caso – da Harry Belafonte, attore che nella sua vita ha operato come attivista per i diritti civili statunitensi. L’uomo ripercorre nella scena le terribili aberrazioni che hanno afflitto un suo amico in gioventù nel 1912, le torture subite dal suo corpo e la paura provata nel cercare un rifugio sicuro, prima che lo trovassero e gli riservassero lo stesso destino.
La nascita di un cinema di coscienza
Una sequenza tanto potente come il suo alternarsi con la visione da parte del Ku Klux Klan di Nascita di una nazione di D.W. Griffith. Il cinema guarda al cinema e capisce la sua influenza più di quanto forse abbia mai fatto, una presa di coscienza dell’arte che sembra sconvolta dal suo stesso volto, e sembra vergognarsi mentre uomini bifolchi incitano i coraggiosi bianchi a spezzare la vita dei cattivi neri. E non si tratta di metacinema, ma di come anche la purezza di un linguaggio così onesto come quello della settima arte possa venire corrotto e frainteso, di cui oggi forse bisognerebbe vergognarsi, ma riacquista di certo dignità con il progresso della narrativa e della decenza umana, risanando qualsiasi squarcio.
Se Spike Lee non ha mai fatto mistero del suo disprezzo nei confronti di Trump, con BlacKkKlansman può definitivamente cementare la propria presa di posizione e lasciare che il messaggio si propaghi senza ulteriori specificazioni. Che questi momenti di cinema citati, istantanei e sintomatici, possano spiegarsi più di qualsiasi altro discorso. Le carte sono state svelate, la bandiera è stata rovesciata e Spike Lee ha diffuso il suo verbo.