Wes Craven: i cinque sensi della paura
Se immaginassi ad oggi il funerale di una mente che ha saputo sconvolgere, risvegliare e annichilire così tanto pubblico, potrei dedicargli un solo tipo di epitaffio.
Di certo non uno il cui nome fu scritto sull’acqua. Qualcosa di più eccentrico, con la giusta dose di disordine.
Già, il disordine. Un termine che si è perso negli usi dispregiativi ma che ha anche e sopratutto un’accezione dolce. Wes Craven conosceva ogni sfumatura dei suoi disordini, li ha saputi sollecitare, far confluire nelle immagini fino a rivalutarli come dei tesori ineguagliabili. Le sue pellicole non sono solo l’epifenomeno della paura, ciò che tralascia sullo sfondo è ben più importante. Non a caso i protagonisti dei suoi film sono generalmente persone semplici, senza un volto incisivo, caratteri di un sistema più ampio, rappresentativo di una umanità che contempla e mai partecipa. Le sue immagini sono una critica alle degenerazioni, a ciò che abbiamo ereditato: il mondo che ci hanno consegnato è questo, con i suoi mostri e le sue cicatrici. E la paura è il primo sentimento che suscita la presa di coscienza di una tale realtà.
Wes Craven: i cinque sensi della paura in conflitto tra due fuochi filmici
Nel ’77 si fa strada nelle sale Le colline hanno gli occhi, segno di come l’uomo non sempre riesca a vincere le proprie bestialità, un film non contro natura, ma con un senso di corruzione. La natura c’è ma è contaminata, decostruita dalle fondamenta.
Solo l’intelletto può avere la meglio e a certe condizioni risulta anche difficile riscoprire di possedere un briciolo di personalità. Altro discorso vale per un’altra sua gemma, un po’ meno iridescente ma che porta i suoi solchi con garbo. Scream del ’96, avrebbe tutte le carte per risultare come il film maturo, non di formazione. Craven lo dirige con l’occhio di un’infante, la gestualità arguta e la padronanza di un maestro. È la definizione di pellicola che distrugge se stessa. Una serie di pillole citazionistiche, rimandi in seriale e discorsi così poco reali ma filmatografici che non teme, come Gorard non ha mai temuto di fare, di poter essere spavaldo, grottesco e non così terrificante. Ma la correlazione dei due film, che dovrebbero essere due affluenti dello stesso fiume, è ingannatrice poichè, tematiche stilistiche a parte, Craven lavora molto sulle figure, su ciò che va a consolidare il male e lo rende parte di ogni uomo. Se da Le colline perpetuano esseri immondi, modificati dalla propria terra, in Scream è una tendenza innata – tanto da doversene nascondere – a far materializzare le proprie rovine: l’ossessione. ‘Ragazzate’ alcuni diranno, ma non credo sia così virtuoso l’intento del regista. Mascherarsi non è solo la possibilità di essere altro, è la misura di una perdita di individualità. I personaggi si perdono, il film vaga nell’oblio di un horror che si guarda allo specchio, come Moscarda, col risultato che la maschera con la quale ci si ricopre non può essere tolta dall’uomo, né da questi giustificata. Diventa modellatrice di una realtà che ha fine solo allo stremo. In morte. Dunque, arrivati a questo punto, sarebbe giusto fare un’inchino; una tale genialità nasce con poca frequenza e la rarità è tutta insita nell’aver colto tanto e non aver tralasciato neanche le desinenze più irrisorie. Entrare in contatto con i suoi fotodrammi è come bere rovi e spine di terre lontane, percepire i suoi più acuti senza lesioni tangibili, assaporare le brutture senza esserne contagiati, vedere con gli occhi di Adamo e saper distinguere il veleno. La sua filmografia è costellata da percezioni ed effetti di senso ai quali si può solo fare chapeau, prostrarsi. Ma io sono sempre stata goffa nel fare l’inchino.
Buon viaggio maestro.