L’amore è eterno finché dura: il finale del film di Carlo Verdone
L’uomo di Carlo Verdone non è un animale raro, siamo noi con tutte le nostre debolezze e mancanze. Il personaggio di Verdone è timido (come il Leo di Bianco, rosso e verdone), impacciato, ipocondriaco, ansioso, un adulto mal riuscito, senza armi nella guerra quotidiana contro il mondo (Posti in piedi in paradiso), gli altri, se stesso. Il regista e attore romano è stato in grado nella sua lunga carriera di interpretare varie età e di raccontare varie epoche. Prima nei film degli esordi indossa e fa indossare una maschera carnevalesca che si forma e si costruisce su tic e manie intorno a tipi umani (Un sacco bello e Bianco, rosso e verdone), poi, con una trama più strutturata e matura, narra la gioventù (Borotalco), e infine racconta un mondo cresciuto, anche se male, ormai adulto ma non per questo meno fragile.
Gilberto Mercuri, il protagonista di L’amore è eterno finché dura (2004), rientra in questo album di uomini impacciati e pasticcioni, impauriti e paurosi; è un cinquantenne in crisi con se stesso ma soprattutto con la moglie, la psicologa Tiziana (Laura Morante), perennemente in ansia, con cui da tempo le cose vanno male ma non riescono a dirselo. Eppure lungo tutta la pellicola i protagonisti vanno avanti con la loro vita, deviano ma poi tornano o tentano di tornare sui loro passi, incapaci di mettere un punto a qualcosa che oramai fa parte dei loro giorni: Gilberto con lo speed date, Tiziana con il suo amante, Guido (Antonio Catania), sono in cerca di novità ma quando si accorgono dell'”errore” fatto vorrebbero cancellare tutto e incamminarsi di nuovo per la loro solita strada.
Per questo Gilberto partecipa ad uno speed date alla ricerca di emozioni forti e di un’anima gemella. Al piccolo eroe verdoniano però le cose vanno sempre storte, quasi per dovere, e infatti la donna con cui ha parlato quella sera scompare nel nulla. Dalla polizia si presenta, inconsapevole di ciò che sarebbe successo, con la moglie, e il suo piccolo e fragile mondo crolla soprattutto quando Tiziana viene a saper che non foglio di presentazione dice di essere vedovo (ma si apprende che la verità è un’altra).
L’amore è eterno finché dura ripercorre molte delle strade dell’universo di celluloide di Verdone ponendo al centro l’italiano fragile, insicuro, un po’ amante e un po’ traditore verso cui non si prova mai odio ma un affetto quasi incondizionato. Gilberto fa le valige, lascia la casa familiare e viene ospitato dall’amico Andrea (Rodolfo Corsato) e dalla sua compagna Carlotta (Stefania Rocca). Un’altra piccola e fragile costruzione è pronta ad incrinarsi.
L’amore è eterno finché dura: Gilberto un piccolo eroe impacciato
L’amore è eterno finché dura; è questa l’idea che prende forma nel corso del film, un principio fondamentale che diventa titolo della pellicola stessa: è un concetto amaro che però rende più sopportabile la fine di un amore, il mutare dei rapporti, i tradimenti. Tiziana e Gilberto devono ancora capirlo, devono crescere emotivamente anche per tutelare Marta, la loro figlia diciassettenne, costretta a fare i conti con due genitori alle volte sbagliati, alle volte disfunzionali e fin troppo umani. A Gilberto glielo ricorda Carlotta, una donna entusiasta, allegra, piena di vita, un uragano nell’esistenza dell’uomo; lui e lei si divertono insieme, prendono in giro Andrea, rigido e poco incline al dialogo, parlano d’amore e di ciò che deve fare il cinquantenne per ritornare in carreggiata. L’amore eterno finché dura è un modo per dire non ti crucciare, vivi le cose, i sentimenti, i rapporti naturalmente, come vengono, vuol dire lascia andare, non aggrapparti a tutti i costi. Per arrivare a ciò Carlotta espone la teoria degli istrici, animali che devono trovare la giusta distanza per stare accanto: non essere troppo vicini ma neanche troppo lontani. Questa può essere la salvezza.
Due istrici hanno freddo e allora si avvicinano per scaldarsi, però si fanno male con gli aculei e allora si riallontanano. E’ un po’ come l’amore: né troppo vicini e né troppo lontani.
Il sentimento ha tenuto spesso insieme le trame del cineasta romano diventando collante doloroso e malinconico, lunare e faticoso da vivere e sopportare pur rimanendo solidamente legato all’ironia che è propria del regista. Verdone fa dire a Bernardo e a Camilla, protagonisti dell’omonimo film, Maledetto il giorno che t’ho incontrato, prosegue con Non perdiamoci di vista, che porta con sé tutta la retorica del vivere quotidiano, e così, continuando su questa scia cinica e realista, conduce ad una triste quanto vera conclusione – che diventa titolo della commedia – anche Gilberto e Carlotta.
La donna lo tradisce e lui, a sua volta, spera di trovare qualcosa di meglio, è chiaro dunque, il loro matrimonio non esiste più e finalmente se ne rendono conto. Prima i due hanno vissuto in una calma apparente, poi la bomba esplode e litigano, fino a quando non capiscono che l’unica possibilità è lasciarsi, riescono a parlarsi e forse anche a capirsi. Tiziana può vivere, anche se per poco, la relazione con Guido, Gilberto può rimettersi in gioco, uscire con altre donne ma ad un certo punto si accorge che quella “giusta” è proprio Carlotta.
L’amore è eterno finché dura: la celebrazione della teoria degli istrici
Se Tiziana decide di fare un viaggio da sola – dopo che è stato lasciata dall’amante-, Gilberto inizia una relazione con Carlotta. Se prima i personaggi di Verdone e di Rocca vorrebbero continuare a dividere la casa dove vivono, poi si rendono conto che non è questa la loro strada: “Non c’è una via di fuga […]. Che fretta abbiamo di andare a vivere insieme. […] Mi sta venendo l’ansia”. Non abitano nella stessa casa, per mantenere la distanza degli istrici, si vedono, dormono a casa dell’altro ma hanno comunque il loro porto sicuro in cui ricaricarsi e mantenere la loro unicità e la loro individualità. La donna in aeroporto incontra Andrea che sta tornando da un viaggio e quando gli dice “Perché dobbiamo far finta di essere forti” l’animo di chi guarda cheta anche le proprie ansietà e spera che anche tra di loro possa nascere qualcosa.
Verdone parla ancora una volta alla pancia molle, parla a chi è spaventato, a chi teme i vincoli, a chi ha paura di cambiare: quando nel finale – grazie al racconto di Marta che dopo la sua prima volta capisce i genitori, un uomo e una donna, esposti al fallimento, proprio perché umani – vediamo Carlotta e Gilberto camminare mano nella mano, di spalle, metafora di una nuova “giornata”, tiriamo un sospiro di sollievo, lo stesso di quando vediamo Tiziana più serena, per quanto lo possa essere.
Si ride del quotidiano, delle ingenuità e delle paure degli adulti, Verdone sviscera l’epica del piccolo, dell’uomo qualunque e assegna a lui una porzione di rilievo sociale. Il regista si mostra ancora una volta narratore di vizi e virtù di un uomo e di un paese vitale, spesso bugiardo ma profondamente autentico, verso cui nutre un nostalgico e tenero amore.